Bob Dylan: un magnifico ribelle diventato Nobel
Robert Zimmerman, premio Nobel per la letteratura, ha cambiato nome e mille facce senza mai restare uguale a se stesso, e oggi viene giustamente celebrato per questo
Ha attraversato sei decenni di musica e di storia americana, ma “attraversare” è un verbo piuttosto riduttivo per chi, come Bob Dylan, la storia (della musica e non solo) l’ha fatta in prima persona, influenzando come pochi leader politici o spirituali la vita di intere generazioni.
E a settantacinque anni, riceve il Nobel, premio più ambito di una categoria, la letteratura, che per moltissimo tempo è stata considerata distante e troppo “alta” per essere associata alla sua arte, che alle parole ha sempre accompagnato la musica, il ritmo, il canto.
Nel giorno della scomparsa di Dario Fo, altro Nobel inatteso e anomalo, sembra che a distanza di diciannove anni l’Accademia di Svezia abbia voluto nuovamente stupire chi la vede come un’organizzazione antica e conservatrice.
Oggi, poeta laureato vestito da raffinato cowboy mentre regala al suo pubblico un album di classici già cantati da Frank Sinatra, ci si potrebbe chiedere che fine abbiano fatto il menestrello impegnato di Blowin’ in the Wind o il rocker rivoluzionario di Like A Rolling Stone.
Aspettarsi però che Dylan resti fedele all’idea che abbiamo di lui è mera illusione, perché se c’è una costante nella sua incostante carriera è proprio la capacità di meravigliare, e anche di deludere, i suoi seguaci con cadenza pressoché regolare.
Nel ’65, quando era l’Eletto del folk, l’eroe senza macchia che con la sua chitarra acustica denunciava le storture del mondo, pensò bene di cercarsi un gruppo rock come accompagnamento e di diventare l’emblema del cool cinico e apolitico, sputando frasi che sembravano più ispirate alle droghe allucinogene che ai discorsi di Martin Luther King.
Solo due anni dopo, quando si era ormai conquistato il titolo di Faro del rock e della scena alternativa, tra feste nella Factory di Andy Warhol e marijuana fumata in compagnia dei Beatles, eccolo ritirarsi dalle scene e tornare vestito come un Amish campagnolo con un album (John Wesley Harding) di pezzi semiacustici dai toni biblici.
Poi ancora la svolta country, benedetta dal santo patrono del genere Johnny Cash e rifiutata da chi ancora si aspettava da lui un commento sulla società; la svolta cristiana, a fine anni Settanta, che per i fan volle dire album dai testi che sembravano presi da un messale, e ancora la svolta rock con il tour a fianco di Tom Petty, e via a seguire fino all’ultima mania per i vecchi classici della canzone americana anni Trenta.
Perché in fondo, a partire già dal suo nome, che scelse per sostituire quel Robert Allen Zimmerman con cui era nato il 24 maggio 1941 a Duluth, Minnesota, Bob Dylan è prima di tutto un enigma, un trasformista, un joker inconoscibile.
Io non sono qui si intitolava un film di Todd Haynes a lui dedicato, e in effetti non si può negare che Dylan sia sempre già oltre, già da un’altra parte, mai dove ci aspetteremmo di trovarlo, sia che la sua prossima incarnazione ci affascini o che ci disgusti.
Negli anni Sessanta l’adorazione per la sua figura era arrivata al punto che alcuni fan perlustravano i cassonetti della sua spazzatura in cerca di rivelazioni su di lui, e nel frattempo critici e studiosi si interrogavano sulle sue liriche più ermetiche, ma nessuno è mai davvero riuscito a decifrare l’enigma e a sapere chi si cela dietro le sue numerose maschere, né il suo enorme pubblico potrà mai dire di conoscerlo davvero.
Per altri cantanti non si può dire la stessa cosa: John Lennon ha riversato nei dischi la sua autobiografia emotiva con un’onestà ai limiti dell’imbarazzante; Bruce Springsteen sembra sempre parlare all’ascoltatore con la voce di un fratello maggiore di cui potersi fidare; Kurt Cobain, nonostante l’ermetismo dei suoi testi, ha riversato in essi tutto il suo male di vivere.
Dylan no. L’immagine più rappresentativa di Dylan è forse quella risalente a metà anni Settanta, che lo vede vestito da cowboy zingaro con uno strato di cerone bianco sul volto durante il tour della Rolling Thunder Revue: una rudimentale maschera da attore che separa il suo ruolo di intrattenitore dal suo Io più profondo.
Certo, ci sono stati momenti in cui il cantautore di Duluth è sembrato aprirsi a noi comuni mortali e farci partecipi dei suoi segreti, come nei suoi primi dischi acustici in cui la poesia si sposava con il commento sociale, o quando nel 1975 su Blood on the Tracks offriva un ritratto intimo e commovente della fine del suo matrimonio.
Ma per il resto la sua arte è sempre stata all’insegna della distanza, della separazione tra la sua figura di prestigiatore dai trucchi segreti e il pubblico pronto a bearsi delle sue invenzioni senza poterle davvero capire, ma solo interpretare.
Bob Dylan è l’eroe dei diritti civili che canta di “risposte che soffiano nel vento”? Oppure il rocker emaciato con gli occhiali scuri che rinnega ogni impegno politico? È il cantautore intimista che svela in musica l’amarezza per il suo divorzio o quello che arriva al Live Aid ubriaco e, nel pieno di un evento per la fame in Etiopia, suggerisce di occuparsi anche dei contadini americani?
La percezione che spesso si ha di Bob Dylan è fondamentalmente ancorata a momenti ormai distanti cinquant’anni dall’attualità, che però con la forza dell’Icona sono riusciti a coprire tutto quanto è venuto dopo, anche quando è stato imbarazzante e indegno della leggenda.
Da buon enigma vivente qual è, Dylan si è limitato a continuare a fare solo quello che gli andava di fare, senza che si capissero le sue intenzioni, azzeccando ogni tanto un capolavoro (Oh, mercy del 1989, Time Out of Mind del 1997) e ogni tanto un disco inascoltabile (basterebbe Christmas in the Heart, raccolta di standard natalizi).
Ma in fondo, arrivati a settantacinque anni e con un Nobel in mano, a molti basterebbe aver vissuto almeno una delle tante brevi fasi della carriera di Dylan per sentirsi soddisfatti, dunque volerlo incolpare di una sua poca rilevanza nel panorama musicale contemporaneo, o lamentare una poca attenzione alla qualità della musica che produce, è forse chiedere troppo.
Fortunatamente la sua discografia è ancora lì a disposizione sugli scaffali dei rari negozi di musica o sulle mensole virtuali delle piattaforme di streaming, e finché ci sarà qualche adolescente pronto a farsi spalancare l’immaginazione dal primo colpo di rullante di Like a Rolling Stone, ci sarà ancora un buon motivo per fargli gli auguri per questo riconoscimento e ringraziarlo di tutto.