Cosa sta succedendo in Birmania?
Il 25 agosto almeno cento persone di etnia rohingya sono state uccise negli scontri con le forze di sicurezza birmane. Ecco qual è la situazione nel paese asiatico
Tutto è iniziato il 25 agosto, quando alcuni combattenti appartenenti alla minoranza musulmana dei rohingya hanno attaccato 30 avamposti militari tra stazioni della polizia e basi di frontiera in Birmania. Gli scontri sono continuati per oltre 24 ore. Alla fine oltre 100 persone, la maggior parte militanti rohingya, sono rimasti uccisi negli scontri con le forze di sicurezza birmane.
Questi attacchi hanno portato a un’escalation del conflitto tra il governo del paese e la comunità musulmana dei rohingya, in quella che secondo molti esperti è la crisi più significativa in termini di scontri e violenza degli ultimi anni. Senza dubbio, è il più importante evento da ottobre 2016, quando nove agenti di polizia erano stati uccisi in diversi attacchi compiuti da presunti militanti rohingya contro postazioni governative nei pressi del confine con il Bangladesh.
Dove siamo?
La Birmania è un paese del sudest asiatico. Confina con Bangladesh, India, Cina, Laos e Thailandia. La sua capitale è Naypyidaw, costruita dieci anni fa – all’improvviso e dal nulla –, anche se non ci vive quasi nessuno.
La nazione è stata per anni alle prese con una giunta militare poco democratica, causa di pesanti sanzioni imposte dagli Stati Uniti. Con il tempo, e l’ascesa ufficiale nella politica locale del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, la giunta ha iniziato a cedere parte del suo potere.
Nel 2015, dopo le prime elezioni libere nella storia dal 1990, alcuni dei problemi più oscuri della nazione sono venuti – parzialmente – meno. Ma non tutti. Uno fra i più complicati: il rapporto con la minoranza musulmana dei rohingya.
Lo stato birmano di Rakhine
I rohingya sono considerati una delle minoranze più perseguitate al mondo. Si tratta di un gruppo etnico musulmano che vive principalmente nel nordovest della Birmania, nello stato di Rakhine, uno dei più poveri della regione, che ospita circa un milione di musulmani su una popolazione di tre milioni di persone, a maggioranza buddista.
Il fatto che siano di religione musulmana ha portato all’adozione di politiche discriminatorie nei loro confronti, tra cui l’arresto arbitrario, la tortura, le esecuzioni sommarie e la confisca dei terreni. Circa 140mila rohingya dello stato di Rakhine vivono in campi-ghetto, che non possono lasciare senza il permesso del governo. Per ottenere la cittadinanza, devono dimostrare di aver vissuto in Birmania da almeno 60 anni, pratica pressoché impossibile.
Si definiscono discendenti di mercanti arabi, mentre per il governo birmano sono soltanto immigrati bengalesi che vivono illegalmente all’interno del paese. Di conseguenza, i loro diritti allo studio, al lavoro, ai viaggi e alla libertà di praticare la propria religione e di accedere ai servizi sanitari di base, sono limitati. Il governo birmano non ha incluso i rohingya nella lista dei 135 gruppi etnici ufficiali del paese e a loro è negata la cittadinanza. Ciò li rende apolidi a tutti gli effetti.
La persecuzione ai danni dei rohingya ha portato a ulteriori scontri e violenza da parte dei combattenti appartenenti alla minoranza musulmana. Per questo, migliaia di migranti rohingya sono stati costretti a lasciare le proprie case. Gli attacchi di questi ultimi giorni hanno oggi portato a un nuovo apice nella guerriglia tra esercito birmano e quel coacervo di forze militanti che lottano in nome e per conto della popolazione rohingya, da sempre discriminata dal popolo locale. L’esercito birmano risponde duramente, arrivando persino a sparare contro i civili rohingya in fuga.
Direzione Bangladesh
Fin dagli inizi degli anni Novanta, decine di migliaia di musulmani rohingya sono scappati dai militari e dai nazionalisti buddisti al potere in Birmania, rifugiandosi nel confinante Bangladesh, paese a maggioranza musulmana, e in alcuni casi attraversando il confine con l’India, paese a maggioranza indù. Alcuni scelgono di andare in Thailandia e Malesia.
Ma le autorità hanno respinto la maggior parte di loro, nonostante almeno in tremila siano riusciti ad attraversare la frontiera con il Bangladesh negli ultimi giorni, secondo quanto riportano le fonti locali citate da diverse agenzie di stampa internazionali. Quelli che riescono a sconfinare in Bangladesh si dirigono verso i campi rifugiati improvvisati, presenti nel paese.
Così oggi in Bangladesh vivono almeno 400mila rohingya. La presenza di questa comunità rappresenta una fonte di tensione tra le due nazioni asiatiche perché sia il governo di Dacca sia quello di Naypyidaw considerano i rohingya cittadini stranieri.
Il governo birmano nega loro la cittadinanza. Nonostante le radici dei rohingya nella regione risalgano a diversi secoli fa, sono ancora considerati dai cittadini birmani come immigrati clandestini provenienti dal vicino Bangladesh.
Dal canto suo, invece, il governo bangladese non riconosce ai rohingya l’appartenenza alla comunità nazionale e tratta questi rifugiati come comuni immigrati. Neanche l’India riconosce la protezione internazionale agli appartenenti a questa comunità che fuggono dalle persecuzioni dell’esercito di Naypyidaw.
Esiste un piano di Nuova Delhi per espellere quasi 40mila rohingya che vivono in India, perché il governo indiano li considera alla stregua di immigrati illegali.
Sull’orlo di una catastrofe umanitaria
Negli ultimi due mesi, l’esercito birmano ha perpetrato atti violenti e repressivi contro la minoranza musulmana dei rohingya, rischiando così di commettere veri e propri “crimini contro l’umanità”.
Amnesty International ha accusato le forze dell’esercito birmano responsabile di uccisioni sistematiche, torture e stupri ai danni di civili nello stato di Rakhine, dove attualmente vivono circa un milione di rohingya.
L’esercito birmano ha negato ogni accusa, difendendo il suo operato un’offensiva anti-terrorismo condotta nello stato più povero della regione. Tuttavia, il rapporto diffuso dall’organizzazione non governativa che ha intervistato 35 vittime e almeno una ventina di persone coinvolte in sforzi umanitari, parla chiaro: la situazione in Birmania viene descritta come una “catastrofe umanitaria”, con omicidi casuali, arresti e detenzioni arbitrarie. Ma anche stupri, torture, saccheggi alle proprietà e l’incendio di interi villaggi.
Secondo Amnesty International, sono almeno 1.200 le case e altri edifici (scuole e moschee) date alle fiamme negli ultimi mesi. L’organizzazione ha poi descritto le azioni compiute dall’esercito birmano come “parte di un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione rohingya che abita nella zona settentrionale della regione”.
L’organizzazione ha denunciato anche una forte limitazione di accesso nella zona interessata dalle continue azioni repressive da parte dei militari birmani, e non è riuscita a stimare con esattezza quanti civili siano morti nel recente conflitto.
Nessuno sembra essere immune da queste azioni violente: anche i bambini di età compresa fra i 13 e 18 anni, spesso accusati di essere terroristi che devono essere pertanto eliminati.
Quando sono iniziate le repressioni contro i rohingya
La persecuzione contro i rohingya affonda le radici nella seconda metà del Ventesimo secolo. Il primo grande esodo si verificò nel 1970, quando 250mila rohingya furono costretti ad abbandonare le proprie case dall’esercito birmano, per trovare rifugio in Bangladesh.
Una seconda ondata migratoria si registrò tra il 1991 e il 1992. La maggior parte di loro fu rimpatriata forzatamente nello stato di Rakhine sotto l’assistenza dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), a metà degli anni Novanta.
La repressione contro i rohingya si è intensificata dopo le riforme introdotte dal presidente birmano Thein Sein, nel 2011. A giugno e ottobre 2012 sono stati condotti attacchi su larga scala contro i rohingya nello stato di Rakhine, in seguito allo stupro di gruppo ai danni di una donna buddista. Le violenze del governo hanno causato la morte di oltre 200 rohingya e hanno costretto più di 140mila persone a lasciare il paese.
L’Unhcr ha stimato che nel 2012 più di 110mila persone (per lo più dell’etnia rohingya) sono scappate dal Birmania a bordo di imbarcazioni di fortuna verso la Thailandia, le Filippine, la Malesia e l’India. Solo nel primo trimestre del 2016, circa 25mila migranti sono fuggiti dal paese asiatico, circa il doppio delle persone registrate nello stesso periodo dell’anno precedente.
La speranza di raggiungere paesi più ricchi si traduce spesso in violazioni dei diritti umani, che vedono i rohingya discriminati o ridotti in schiavitù.
Le accuse e le indagini
Il governo birmano è stato accusato più volte dalla comunità internazionale e da diverse associazioni umanitarie di pulizia etnica e, secondo alcuni, tra i responsabili di questa strage è coinvolta anche il premio Nobel Aung San Suu Kyi.
Oltre agli appelli da parte della comunità internazionale, anche papa Francesco ha chiesto che venisse messa fine alla persecuzione dei rohingya, dedicando loro una preghiera nell’Angelus in piazza San Pietro, pronunciato il 27 agosto.
Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (Unhrc) ha avviato un’indagine per stabilire se e in che modo ci siano effettivamente stati soprusi e abusi nei confronti dei rohingya da parte dell’esercito birmano.
Ma la Birmania ha respinto l’ingresso nel paese ai membri delle Nazioni Unite che stanno indagando sulle presunte violenze messe in atto nel paese. Anche Aung San Suu Kyi ha negato pubblicamente la pulizia etnica contro la popolazione rohingya, parlando di falsa notizia e propaganda politica.
Amnesty ha fatto appello al governo birmano affinché fermi le atrocità e condanni pubblicamente le violazioni dei diritti umani, permettendo così l’accesso senza ostacoli all’interno dello stato di Rakhine e favorendo l’avvio di un’indagine imparziale sostenuta in collaborazione con le Nazioni Unite.
Dal canto suo, il governo birmano ha fatto sapere di aver istituito una sua squadra investigativa, guidata dall’ex vice presidente Myint Swe e di aver creato una commissione consultiva sulla questione presieduta dall’ex segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, affinché cerchi delle soluzioni a lungo termine per risolvere la crisi.