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“Anche con Aung San Suu Kyi al potere, la Birmania non ha mai smesso di usare mine antiuomo”

Immagine di copertina
Donne musulmane rohingya al confine tra Birmania e Bangladesh. Credit: Mohammad Ponir Hossain

L'ong Amnesty International ha denunciato l'utilizzo di ordigni esplosivi contro i musulmani rohingya al confine tra Birmania e Bangladesh. Il direttore nazionale della campagna antimine ha parlato con TPI

Da una parte la Birmania, paese guidato da un premio Nobel per la pace, che però non ha mai sottoscritto la convenzione internazionale sulle mine antiuomo e, anzi, produce questo tipo di ordigni esplosivi. Dall’altra il Bangladesh, che invece dichiara di non produrre mine e ha sottoscritto il trattato che le vieta, ma che in passato non si è sempre comportato in modo trasparente su questa tematica. In mezzo, oltre 370mila musulmani rohingya che cercano di sfuggire alle violenze dell’esercito birmano varcando il confine.

Una cosa però è certa: se le forze di sicurezza birmane stessero davvero usando le mine per colpire la minoranza rohingya dopo che gli scontri si sono intensificati dalla fine di agosto, come denunciato dall’Ong per i diritti umani Amnesty International, non ci sarebbe da stupirsi.

“Forse, in questi giorni, l’uso di mine antipersona può essere che sia aumentato, ma in passato è sempre stato presente”, spiega a TPI Giuseppe Schiavello, direttore della Campagna italiana contro le mine, che è parte del network internazionale per il bando delle mine antiuomo (ICBL).

Secondo gli ultimi dati, che risalgono a novembre 2016, dal 1999 in Birmania sono state quasi 3.700 i casi registrati di persone colpite da mine (uccise o ferite), di cui ben 159 nel 2015. Ma si tratta di numeri da considerare in difetto, soprattutto per quanto riguarda i feriti (3.156 dal 1999) che potrebbe essere pari ad almeno il doppio. Secondo il gruppo di attivisti Mine Free Myanmar, il numero delle persone ferite o mutilate si avvicina addirittura alle 40mila.

L’esercito birmano sostiene che questi dispositivi al confine tra Birmania e Bangladesh risalgano agli anni Novanta, ma per Tirana Hassan, direttrice di Amnesty International per le risposte alle crisi, non ci sono dubbi che il loro posizionamento sia avvenuto in concomitanza con l’esodo dei rohingya oltre il confine con il Bangladesh.

Dottor Schiavello, qual è quindi la novità?

Il posizionamento di nuove mine lungo il confine tra Birmania e Bangladesh offre il senso della misura che il fenomeno ha ancora oggi all’interno del paese. Il Myanmar, o Birmania, non ha mai aderito alla Convenzione di Ottawa sulle mine antipersona, firmata nel 1997, che oggi conta 162 paesi aderenti. È un paese che produce questi ordigni e che non ha mai voluto fornire dati sulla quantità di produzione o di immagazzinamento, al contrario, ad esempio, della Cina e di altri Stati, che pur non aderendo alla convenzione, ne hanno fermato il commercio.

Tuttavia, la Birmania ha partecipato ad alcuni incontri di stati parti come osservatore. Lo ha fatto nel 2003 e nel 2006, ma anche tra il 2011 e il 2013. Questo era un segnale positivo, ma non è poi stato seguito da passi concreti. Molti anni fa ci fu da parte nostra il tentativo di raggiungere un accordo con un gruppo non governativo birmano per limitarne l’utilizzo, proprio per l’impatto che queste armi tipicamente hanno sulle popolazioni civili. Il problema è che poi furono nuovamente utilizzate, con reciproche accuse tra le forze governative e quelle non governative.

Ora ci si può stupire al massimo per il posizionamento di queste mine in maniera massiva. Ma la Birmania non è mai stata un esempio su questo tema.

Neanche adesso che a guidarla c’è il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi?

Quando Aung San Suu Kyi è diventata consigliere di stato speravamo che la Birmania facesse piccoli passi verso l’adesione alla convenzione di Ottawa sulle mine e di Oslo contro le bombe a grappolo, ma non è stato così. E l’uso di queste armi rappresenta non solo una violazione generale del diritto internazionale, ma anche un segnale di controtendenza nel processo democratico di un paese, e, infine, un atto di chiaro disprezzo verso l’umanità.

Suu Kyi sostiene che si tratti di fake news, ma tra una bufala e una notizia di una tale gravità c’è un abisso. E se a denunciare l’utilizzo di mine antipersona sono le stesse organizzazioni internazionali alle quali lei deve la sua liberazione, come minimo dovrebbe rivalutare la credibilità di chi le chiede di agire.

A cosa andrà incontro la Birmania per questo utilizzo?

In questo ambito del diritto internazionale, più che le sanzioni conta la stigmatizzazione. L’uso delle mine antipersone è una violenta e crudele violazione dei diritti umani, perché si ha la certezza che queste colpiscono i civili.

La stigmatizzazione ha un suo peso nei consessi internazionali, per cui serve una condanna internazionale molto precisa. Un inizio è la lettera che hanno inviato a Suu Kyi cinque donne vincitrici di premi Nobel, che chiedono la cessazione delle violenze contro i rohingya.

Il Bangladesh invece che posizione ha sulle mine antipersona?

Il Bangladesh è membro della convenzione contro le mine e non ha mai dichiarato di produrne. Ma non è sempre stato trasparente. A febbraio 2013 sono state individuati degli ordigni proprio al confine con la Birmania, che sono stati rimossi dalle autorità del Bangladesh. Quando però abbiamo chiesto dei chiarimenti al ministero degli Esteri del paese, per avere informazioni sulle mine, capire dove fossero state realizzate e chi le avesse posizionate lì, non abbiamo avuto alcuna risposta. Questo atteggiamento, da parte di un paese che ha firmato la convenzione, ne mette fortemente in dubbio la credibilità.

Una precedente versione dell’articolo riportava erroneamente che la Cina ha firmato una moratoria sul tema delle mine antiuomo.

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