Benjamin Netanyahu, “l’uomo che ha ucciso la pace”: l’eredità politica di Israele dopo Bibi
Ha fondato la propria carriera sull’opposizione a un accordo con i palestinesi, puntando tutto sulla sicurezza. Ma il 7 ottobre ha segnato il suo destino politico, eppure le sue posizioni estreme guadagnano ancora consensi. È il lascito con cui Tel Aviv dovrà fare i conti
Quando quasi trent’anni fa cominciava a essere chiaro a tutti il fallimento degli Accordi di Oslo, per gli ambienti della sinistra in Israele il neo-premier Benjamin Netanyahu era diventato l’uomo che aveva “ucciso la pace” con la sua ferma opposizione a ogni concessione ai palestinesi. Quindici anni dopo fu l’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton a confermare, a porte chiuse, quella stessa voce. Ancora oggi, nulla sembra cambiato. Come mi disse poco dopo il 7 ottobre Yossi Beilin, l’architetto degli storici accordi del 1993, parlando delle possibilità di dialogo in Medio Oriente, la cacciata dell’attuale capo del governo israeliano è precondizione per nuove trattative dopo la guerra a Gaza.
Ma se Netanyahu, come ha accusato la settimana scorsa il leader della maggioranza democratica al Senato degli Stati Uniti Chuck Shumer, è un «ostacolo alla pace» tra Israele e i palestinesi, un suo allontanamento potrebbe non bastare. Dopo più quasi due decenni al potere ha infatti cambiato lo Stato ebraico per sempre, lasciando un’eredità con cui Tel Aviv dovrà fare i conti.
Politico da record
Comunque la si pensi, è innegabile che Netanyahu sia il politico israeliano dei record. Non solo ha governato per oltre sedici degli ultimi trent’anni, diventando il premier più longevo della storia di Israele, ma quando nel 1996 fu eletto per la prima volta a capo dell’esecutivo, fu il primo nato dopo la fondazione dello Stato a ricevere l’incarico. Malgrado sia venuto al mondo a Tel Aviv muovendo i primi passi a Gerusalemme, crebbe però negli Stati Uniti, nella zona di Philadelphia, finché alla fine degli anni Sessanta non tornò con la famiglia in Israele.
Figlio dello storico Benzion Netanyahu, punto di riferimento intellettuale per chiunque sogni uno Stato ebraico esteso a tutti i territori palestinesi, il successo e l’intera carriera politica di Bibi si fondano su due capisaldi: il rifiuto di ogni accordo di pace che porti alla nascita di uno Stato di Palestina e la sicurezza di Israele. Dopo la laurea in architettura e amministrazione aziendale presso il Massachusetts Institute of Technology e una carriera diplomatica come ambasciatore israeliano prima a Washington e poi alle Nazioni Unite a New York, la sua ascesa politica cominciò da deputato e poi viceministro degli Esteri tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, accelerando proprio all’indomani degli Accordi di Oslo conclusi dall’allora premier laburista Yitzhak Rabin con Yasser Arafat e aspramente contestati dalla destra israeliana e segnatamente dal partito di Netanyahu, il Likud, di cui diverrà il leader.
Tanto che, come riporta un dispaccio dell’allora ambasciatore Usa a Tel Aviv Martin Indyk pubblicato da Wikileaks, quando Rabin fu ucciso da un estremista religioso, l’attuale premier, che era in piena campagna elettorale contro il morto, temé di perdere le probabili elezioni anticipate. Otto mesi dopo però Netanyahu uscì vittorioso dalle consultazioni, governando dal 1996 al 1999 e ostacolando l’attuazione degli accordi di tre anni prima e il processo di pace di Camp David, anche grazie alla giustificazione offerta dalla violenza degli attentati di Hamas in Israele.
Ma alla fine non fu riconfermato e ci vollero dieci anni, un ictus ad Ariel Sharon e la presa del potere di Hamas a Gaza per farlo tornare a capo dell’esecutivo: da allora, era il 2009, ha governato quasi ininterrottamente fino ad oggi, escluso l’anno e mezzo trascorso tra il giugno 2021 e il dicembre 2022.
In questo periodo succede di tutto: guida quattro (2012, 2014, 2021, 2023-2024) operazioni militari contro Hamas a Gaza, compresa quella tuttora in corso dopo gli attentati del 7 ottobre; tiene separata l’Anp dalla Striscia e consente al Qatar di finanziare il governo del territorio costiero; avalla l’allargamento delle colonie illegali in Cisgiordania; rivendica di aver fatto fallire l’accordo sul nucleare iraniano spingendo il presidente Donald Trump a ritirare unilateralmente gli Usa dall’intesa raggiunta dal predecessore Barack Obama; firma gli Accordi di Abramo normalizzando le relazioni con Bahrein, Emirati Arabi e Marocco; finisce al centro di una serie di indagini penali per corruzione da cui si salva tornando al governo con una coalizione di estrema destra; e spacca il Paese con una tentata riforma della giustizia che mette addirittura a rischio l’indipendenza della Corte Suprema, provocando proteste inaudite persino tra i ranghi militari e i riservisti.
Sarà il disastro dello scorso ottobre però a segnarne, forse, la fine politica. Per tutto questo tempo ha puntato sulla sicurezza e poi si è ritrovato al governo durante il peggior attentato nella storia di Israele, una tragedia da molti paragonata all’attacco a sorpresa di Egitto e Siria che nel 1973 (esattamente 50 anni prima) mise a rischio l’esistenza dello Stato ebraico con la guerra dello Yom Kippur, che alla fine Tel Aviv riuscì a vincere. Ma Netanyahu sa bene come andò a finire.
Sebbene una commissione d’inchiesta scagionò l’allora premier Golda Meir per non aver saputo prevedere e prevenire l’aggressione, la leader israeliana si dimise comunque e si ritirò dalla politica. «Golda Meir avrebbe dovuto saperlo», scrive Netanyahu nella sua autobiografia “Bibi: My Story”. La stessa accusa mossa oggi contro di lui che però deve anche fare i conti con la peggiore crisi con ostaggi dell’ultimo mezzo secolo. Una situazione che, vista la sua storia personale, dovrebbe conoscere bene ma che dice anche molto su quanto sia cambiato Israele.
Ostaggi della propria storia
Quando incontrò il nipote 18enne del famoso giornalista americano Dan Rather, che gli chiese cosa serviva per diventare un leader politico, Netanyahu rispose: «Devi studiare tre cose: la storia, la storia e la storia». Quella di Israele, non sorprende, si intreccia più volte con la vita personale del capo del governo. Ma si potrebbe quasi dire che il suo percorso è scandito da alcune crisi ben precise, tutte con ostaggi.
Netanyahu si è sempre presentato come il campione della sicurezza dello Stato ebraico e per farlo ha potuto affidarsi anche al proprio curriculum militare. Una volta tornato in Israele, da membro delle forze speciali si distinse nel 1972 nel salvataggio dei 90 passeggeri del volo Sabena 571 sequestrati da un commando palestinese, che sbaragliò insieme al suo futuro rivale laburista Ehud Barak, che lo sconfiggerà alle elezioni del 1999 sostituendolo come premier per due anni.
Ma è la più nota vicenda del fratello maggiore Yoni, eroe e martire a Entebbe, ad averne promosso la notorietà. Era il 1976 quando Yonatan Netanyahu guidò il commando che salvò oltre un centinaio di ostaggi del volo Air France 139 dirottato in Uganda da un gruppo terroristico tedesco-palestinese, perdendovi la vita. Toccò a Bibi, che all’epoca studiava negli Stati Uniti, raccontare ai genitori la terribile notizia: guidò sette ore di fila da Boston fino a Ithaca, dove il padre insegnava alla Cornell University. «Se c’è stato un momento nella mia vita peggiore dell’apprendere della morte di Yoni, è stato raccontarlo ai miei genitori», scrive nella sua autobiografia. Ma quella tragedia portò alla ribalta il suo cognome.
I genitori pubblicarono le lettere di Yoni, che divennero un best seller in Israele, e il fratello dell’eroe, simbolo del più alto sacrificio per lo Stato ebraico e la vita dei suoi cittadini, cominciò a raccoglierne i frutti, anche grazie alle tante donazioni ricevute dallo Jonathan Institute fondato dalla famiglia nel 1979. «Sebbene Yoni sia morto nella guerra al terrorismo, non ha mai pensato che questa battaglia fosse semplicemente un conflitto militare», scrive nel suo libro Netanyahu. «La vedeva anche come una lotta politica e morale tra civiltà e barbarie. Adesso io mi dedico a questa battaglia».
In molti ricordarono l’esempio di Yoni quando, da capo del governo, Bibi concluse l’accordo per la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit, sequestrato nel 2006 da un commando di Hamas e portato a Gaza. Cinque anni dopo, nel 2011, fu proprio Netanyahu a rilasciare oltre un migliaio di detenuti palestinesi, compresa la mente degli attentati del 7 ottobre Yahya Sinwar, per ottenere la libertà del militare rapito. Allora fu aspramente criticato per un accordo considerato forse troppo sbilanciato ma che in fin dei conti si inseriva nel solco della tradizione israeliana di fare di tutto pur di salvare la vita dei propri cittadini. Esattamente ciò che gli viene rimproverato adesso.
In particolare, malgrado le smentite del suo ufficio, non sembra essere riuscito a entrare in empatia con le famiglie dei rapiti, le cui proteste sono ormai quotidiane in Israele. Durante un incontro avvenuto a inizio dicembre con alcuni ostaggi liberati e con le famiglie degli altri ancora in mano a Hamas, il premier ammise di aver dimenticato a casa la targhetta con la scritta “Bring Them Home”, onnipresente in tutto il Paese per chiedere la liberazione dei sequestrati. Il padre di uno dei rapiti non ne volle sapere: «Non te la metti perché ti vergogni!». Da allora pare che non se la sia più tolta ma le frizioni non sono finite.
Fecero scalpore le dichiarazioni rese in un’intervista concessa a dicembre dall’85enne Yaffa Adar, sequestrata il 7 ottobre dal kibbutz Nir Oz, tenuta in ostaggio da Hamas per 49 giorni e diventata famosa per la foto che la ritrae mentre viene portata a Gaza a bordo di una golf cart. «Guardavo il cielo e pregavo di vedere un elicottero dell’esercito», disse Adar. Come lei, molti rapiti si sono chiesti perché lo Stato li avesse abbandonati. Una sensazione amplificata nel corso della guerra a Gaza con storie di ostaggi uccisi per errore dalle forze armate israeliane e accordi respinti in nome della priorità di sconfiggere Hamas più che di liberare i sequestrati.
Una situazione che ha portato addirittura a scontri verbali in diretta televisiva tra i parenti degli ostaggi e alcuni ministri di estrema destra del governo Netanyahu. «Smettetela di parlare di uccidere gli arabi e cominciate a discutere di salvare gli ebrei», urlò un genitore di uno dei rapiti al ministro della Sicurezza Nazionale, Itamar Ben-Gvir, che proponeva di ripristinare la pena di morte per i palestinesi condannati per terrorismo. I politici di estrema destra rispondevano che i familiari degli ostaggi non avevano «il monopolio del dolore» per quanto accaduto il 7 ottobre. Altri commentatori estremisti sono invece arrivati ad accusare le famiglie di voler «distruggere la sicurezza di Israele» o addirittura di «lavorare per il nemico».
Uno scontro che, nelle piazze, è diventato anche fisico e ha ricordato la repressione delle manifestazioni dell’anno scorso contro la riforma giudiziaria voluta da Netanyahu. Emblematico il caso di Ilana Grichevskij, liberata a novembre ma il cui fidanzato Matan Zangauker è ancora prigioniero di Hamas: il 24 febbraio durante una manifestazione di protesta a Tel Aviv è stata colpita al volto dagli idranti della polizia. Un clima repressivo promosso da oltre un anno dall’estrema destra, le cui politiche però trovano ancora consensi in Israele, malgrado il crollo del gradimento del premier e del suo governo.
Il trionfo dell’estremismo
Se la fine politica del primo ministro appare segnata, lo è anche la sua eredità. Secondo l’ultimo sondaggio Israeli Democracy Index, condotto a giugno e a fine 2023 e ripetuto agli inizi del 2024, il gradimento del governo tra gli israeliani è ai minimi storici: pari al 23 per cento. Fa peggio solo la Knesset nel suo complesso con il 19 per cento. Un risultato comunque migliore rispetto al 4 per cento raccolto personalmente da Netanyahu in un sondaggio pubblicato a novembre.
Ben diverso però sembra il giudizio sulle sue politiche. Secondo un sondaggio pubblicato a gennaio dal quotidiano Israel Hayom, l’opinione pubblica è spaccata su «quale obiettivo sia più importante nella guerra» a Gaza: per il 46,6 per cento degli intervistati è «la liberazione degli ostaggi», mentre il 44,8 per cento ritiene che sia «la vittoria contro Hamas». Se soltanto il 10 per cento sarebbe disposto a «fermare i combattimenti e negoziare con Hamas», l’81,5 per cento si dice contrario ad accettare le condizioni del gruppo terroristico in cambio della libertà dei rapiti.
Ma non sono solo le politiche di guerra di Netanyahu a trovare consensi. Secondo un altro sondaggio pubblicato a febbraio dall’Israeli Democracy Index, il 63 per cento degli israeliani è contrario in linea di principio alla nascita di uno Stato palestinese indipendente, anche se smilitarizzato, e la maggioranza degli intervistati ebrei (68%) non vorrebbe nemmeno la consegna di aiuti umanitari a Gaza. Nonostante questa identità di vedute con la leadership, il 60 per cento si attende un’ondata di proteste su larga scala contro il governo.
Una previsione confermata anche da un recente rapporto della National Intelligence statunitense, secondo cui la maggior parte degli israeliani «sostiene la distruzione di Hamas» ma al contempo «sta perdendo fiducia nelle capacità di leadership di Netanyahu», tanto che nelle prossime settimane si attendono «grandi proteste per chiedere le sue dimissioni e nuove elezioni». Proprio come richiesto da Chuck Shumer, il cui discorso contro Netanyahu è stato definito «buono» e «condiviso da molti americani» da Joe Biden. Come dire che il problema è diventato quasi personale, più che politico, sia a livello internazionale che interno.
D’altra parte, alle elezioni municipali del 27 febbraio scorso, le prime consultazioni tenute in Israele dal 7 ottobre in cui 7 su 9,3 milioni di israeliani erano chiamati a votare in 197 comuni e 45 consigli regionali, i partiti ultra-ortodossi e di estrema destra hanno guadagnato consensi. Anche se l’affluenza si è attestata al di sotto del 50 per cento e nella maggior parte delle grandi città, esclusa Haifa, sono stati confermati i sindaci uscenti, il partito e gli alleati del premier Netanyahu hanno mobilitato la propria base meglio dell’opposizione, riuscendo ad aumentare i seggi in molti consigli comunali e regionali. Non si votava certo per il futuro del primo ministro ma i partiti che lo sostengono sul territorio hanno tenuto, mostrando che le politiche di Netanyahu trovano ancora consensi in Israele. Un lascito di cui, insieme a un rapporto più complicato con gli Usa, lo Stato ebraico dovrà tenere conto in futuro, anche se Bibi dovesse uscire dalla scena politica.