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Home » Esteri

I bambini schiavi nelle fabbriche di cannabis

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Ogni anno nel Regno Unito 3mila bambini vietnamiti sono vittime del traffico di esseri umani e sono sfruttati in attività illegali da bande criminali

Hien aveva dieci anni quando arrivò nel Regno Unito. Non sapeva né dove si trovasse né da dove arrivasse. Sapeva solo di essere là per lavorare.

Da quando sette anni fa era sceso dal retro di un camioncino, dopo essere sbarcato da Calais, nel nord della Francia, aveva dovuto sopportare sfruttamento e miseria.

Hien ha dovuto lavorare come uno schiavo, è stato costretto a lavorare in fabbriche di cannabis, ha subito abusi ed è stato picchiato, e alla fine ha subito un processo ed è stato mandato in prigione. La sua è stata una vita di terrore, isolamento e dolore.

La storia di Hien non è unica. Hien è uno dei circa tremila bambini vietnamiti costretti a lavorare nel Regno Unito, sfruttati da organizzazioni criminali che gestiscono fabbriche di cannabis, centri di bellezza, industrie tessili illegali, bordelli e case chiuse.

Lo sfruttamento di vietnamiti nel commercio di cannabis all’interno del Regno Unito era già conosciuto. Ma secondo gli esperti di traffico di minori, le autorità britanniche potrebbero aver sottovalutato la velocità con cui gruppi criminali vietnamiti, residenti nel Regno Unito, stanno reclutando e sfruttando minorenni anche in altri settori, come il contrabbando di armi, la produzione di cristalli di metamfetamina e giri di prostituzione.

Il viaggio di Hien verso il Regno Unito iniziò quando fu portato via dal suo villaggio, all’età di cinque anni, da un uomo che finse di essere suo zio. Hien era orfano: non aveva altra scelta se non eseguire gli ordini. Trascorse cinque anni in viaggio via terra, senza avere idea di quali Paesi stesse attraversando, e fu portato illegalmente dal Vietnam sino a Londra.

Qui trascorse tre anni a lavorare come domestico in condizioni di schiavitù, cucinando e pulendo la casa per un gruppo di vietnamiti che andava e veniva dall’edificio in cui era rinchiuso.

Gli uomini nella casa lo picchiavano e lo obbligavano a bere alcool sino a farlo stare male. Accaddero anche altre cose di cui ancora non riesce a parlare. Non poteva mai uscire di casa e gli fu detto che, se avesse tentato la fuga, la polizia lo avrebbe arrestato e sbattuto in galera.

Durante la prigionia in quella casa, Hien vide arrivare molti altri bambini vietnamiti. Gli dicevano di essere là per lavorare e ripagare il debito per le famiglie a casa. Stavano alcuni giorni e poi venivano portati via, e Hien non li vide mai più.

Quando l’uomo che fingeva di essere suo zio lo abbandonò, Hien si ritrovò a vivere per strada. Dormiva nei parchi e mangiava quello che trovava nei cestini. Alla fine fu portato via da una coppia vietnamita, che gli offrì un posto dove stare ma lo obbligò a lavorare in laboratori illegali di cannabis, prima in un appartamento a Manchester e poi in Scozia.

Nella sua testimonianza alla polizia, Hien racconta di non sapere esattamente di che tipo di piante si trattasse, ma di essersi reso conto che valessero molti soldi.

Il bambino si prendeva cura della cannabis, usando pesticidi che lo fecero ammalare, e usciva dall’appartamento solo quando aiutava a trasportare le foglie che dovevano essere seccate da un’altra parte. Era imprigionato, minacciato, e completamente isolato dal mondo esterno.

“Non mi pagarono per il lavoro che svolgevo là”, dice Hien. “Non rimasi con loro per soldi, ma solo perché avevo paura e speravo che la mia prigionia finisse presto”.

Quando arrivò la polizia, trovò Hien da solo con le piante di cannabis. Raccontò la sua storia ai poliziotti, ma fu mandato in un carcere minorile in Scozia, dove trascorse dieci mesi in custodia, con l’accusa di coltivazione di cannabis.

Fu rilasciato solo dopo l’intervento di un pubblico ministero, che lo identificò come vittima di tratta di esseri umani. I minori costituiscono un quarto delle circa 13mila persone che ogni anno sono vittime del traffico di esseri umani nel Regno Unito, e i vietnamiti sono la nazionalità maggiormente coinvolta.

Seconda l’agenzia delle Nazioni Unite sulle droghe e il crimine, in media ogni mese arrivano trenta bambini vietnamiti nel Regno Unito, attraverso reti di contrabbando ben organizzate.

“I minori sono una risorsa di grande valore per le bande criminali, perché sono facilmente reperibili, si possono intimidire e sfruttare facilmente, è semplice tenerli isolati e ignari di quello che succede intorno a loro, ed è quindi più improbabile che rivelino qualcosa alle autorità”, dice Philip Ishola, ex-capo del Counter Human Trafficking Bureau britannico.

Nella cultura vietnamita, spiega Ishola, i bambini sono visti come uova d’oro, ed è comune che vengano mandati all’estero con la speranza che possano contribuire alla sopravvivenza delle loro famiglie rimaste a casa. Per questo le bande criminali riescono a persuadere facilmente i genitori, dicendo loro che i bambini potranno lavorare legalmente nel Regno Unito.

“Alcuni bambini mi hanno raccontato che gli costò 25mila sterline arrivare sin qui”, ha raccontato un esponente di spicco della comunità vietnamita a Londra. “Si indebitano per venire qui e non possono andar via finché quel debito è ripagato. Questa è schiavitù e sfruttamento”.

Come Hien, molti bambini finiscono a lavorare nelle fabbriche che producono cannabis illegalmente. Secondo un report del 2014 dell’Ong Anti-Slavery International, quasi tutte le vittime legate al traffico di marijuana sono vietnamiti e l’80 per cento sono bambini.

Molti minori finiscono per essere incriminati, nonostante siano possibili vittime del traffico di esseri umani. Per questo i vietnamiti al di sotto dei 18 anni sono la principale minoranza etnica imprigionata nei centri di detenzione minorili del Regno Unito.

Hien sta ora cercando di ricostruire la sua vita, dopo aver ricevuto asilo politico in Scozia, ma fatica a trovare pace dopo anni così traumatici. “Continuo ad aver paura che i trafficanti mi trovino e vengano a portarmi via. Ma questa volta so che chiederò aiuto”.

L’articolo originale è stato pubblicato quiTraduzione parziale a cura di Lorena Cotza 

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