Il destino del Myanmar è nelle mani di Aung San Suu Kyi
I risultati delle elezioni in Myanmar di novembre 2015 indicano un forte vantaggio per il partito di Aung San Suu Kyi. Il viaggio di Enrico Labriola prima del voto
L’eccitazione dei birmani si percepisce fin dall’aeroporto di Yangon. La vecchia capitale è stata da poco sostituita dall’asettica Nay-Pyi-Daw, costruita dai generali in mezzo alla giungla a partire dal 2005, pare su consiglio di un astrologo legato all’allora presidente Than Shwe.
A Yangon molte macchine esibiscono adesivi della National League for Democracy (Nld), la forza d’opposizione guidata da Aung San Suu Kyi. I contrassegni della campagna elettorale si vedono ovunque, come sfondi sui cellulari dei birmani, o davanti alla case come si usa negli Stati Uniti, dove i cittadini espongono in giardino i nomi dei loro candidati.
A giudicare dai cartelloni e dagli adesivi, dopo quasi 50 anni di dittatura militare, il supporto per l’Nld sembra smisurato. Oggi tutti i birmani riconoscono che la situazione ha iniziato a cambiare decisamente dopo il 2010, quando il governo militare ha intrapreso una serie di timide riforme e ha allentato il controllo sulla società, l’informazione e l’opposizione in generale.
Le foto di Aung San Suu Kyi non si trovano solo sui manifesti elettorali o i cruscotti dei tassisti, ma anche nelle case dei birmani, sia nelle città che nelle campagne, spesso accompagnate da un’immagine di suo padre, il generale Aung, primo presidente della Birmania indipendente.
I tassisti si lamentano del traffico sempre intasato e dell’incompetenza del governo che ha deciso di costruire contemporaneamente tre nuovi viadotti nel centro di Yangon. Intorno, le gru sono attive giorno e notte per edificare nuovi appartamenti e lussuosi hotel per l’élite asiatica e i turisti occidentali.
Fino a qualche anno fa, criticare pubblicamente il governo, o peggio, i militari – che poi era la stessa cosa – portava i birmani dritti in carcere, e i pochi turisti erano spesso giornalisti sotto mentite spoglie.
Dopo la liberazione di Aung San Suu Kyi nel 2010, raccontano i birmani, molti prigionieri politici sono usciti dal carcere e l’Nld ha potuto aggiudicarsi 43 dei 45 seggi in palio nelle elezioni del 2012, incluso un seggio per la sua leader. Ora i birmani la venerano quasi come una regina, sia per la sua forza e il suo fascino – rimasto intaccato nonostante 15 anni di arresti domiciliari -, sia per la sua capacità di unire il Paese e di mobilitare tanto i cittadini quanto i leader mondiali.
In Europa ci si concentra soprattutto sulla lotta pacifica di Aung San Suu Kyi per la democrazia e sul suo premio Nobel, limitandosi a una descrizione approssimativa del Paese e rinunciando a parlare della sua estrema complessità.
In un certo senso è vero che negli ultimi trent’anni, a partire dalle rivolte studentesche dell’88, il destino del Paese è stato deciso dai militari, ma anche decisamente legato alla figura della leader dell’Nld.
Quasi in nessun altro Paese al mondo una personalità così forte ha avuto la capacità di portare pacificamente il Paese verso le riforme pur stando all’opposizione – e agli arresti -, rimanendo un forte interlocutore per i leader mondiali, come e più dei presidenti birmani. Hillary Clinton e Barack Obama fecero a gara, nel 2011 e 2012, per farsi fotografare con lei in atteggiamenti amichevoli e marcare le distanze dal governo civile legato ai militari.
Militari che non si vedono più, né per le strade di Yangon e Mandalay, né nelle colline più vicine ai confini, ma che tengono ancora strette le redini del potere, sia direttamente che indirettamente.
Nonostante il percepito affievolimento della presenza militare, qualsiasi sarà il risultato delle elezioni parlamentari dell’8 novembre, il nuovo assetto politico sarà comunque figlio della costituzione approvata nel 2010 grazie ai brogli del governo, mentre il ciclone Nargis faceva oltre 100mila morti nel sud del Myanmar.
La nuova costituzione assegna automaticamente ai militari il 25 per cento dei seggi nell’Hluttaw, il parlamento birmano, e sempre i militari hanno il potere di designare i ministri dell’Interno, della Difesa e degli Affari di frontiera. Ancora, la costituzione impedisce ad Aung San Suu Kyi di correre per la presidenza, in quanto i suoi figli hanno cittadinanza britannica.
La costituzione può essere emendata solo con il 75 per cento dei voti in parlamento, il che è materialmente impossibile senza raggiungere un compromesso con i militari. D’altra parte, a una coalizione anti-Nld guidata dall’Usdp (Unione per la solidarietà e lo sviluppo) basterebbe ottenere un terzo dei seggi per mantenere la maggioranza in parlamento a fianco dei militari.
Tuttavia, con un sistema maggioritario secco, l’entusiasmo popolare per l’Nld potrebbe trasformarsi in una valanga di seggi per il partito di Aung San Suu Kyi, e ovunque nel Paese i birmani si aspettano un risultato clamoroso, come nel 1990 (392 seggi su 492) o nel 2012 (43 seggi su 45). Lo stesso Nld ha fatto dello slogan “Ora o mai più” un leit-motiv della sua campagna, visto che uno scarso risultato potrebbe lasciare le redini in mano ai militari e ai loro sodali.
Aung San Suu Kyi ha condotto la sua campagna in ogni regione del Paese, ben sapendo che il 31 per cento dei seggi in palio si assegna nelle regioni abitate dalle minoranze etniche, in particolare Shan, Karen e Rakhine.
In questi stati regionali, su molte case sventola la bandiera del gruppo etnico locale o il simbolo dei partiti regionali attorno a cui si sono raggruppate le minoranze. Questi partiti sono in larga parte fedeli all’Nld, ma una tale frammentazione dell’elettorato potrebbe alla lunga danneggiare il partito di Aung San Suu Kyi.
La commissione elettorale, dominata da membri fedeli all’establishment, ha stilato liste di elettori largamente incomplete, nonostante il recente censimento. Molti birmani fanno la coda davanti ai tabelloni con le liste, cercando di trovare il loro nome, aiutando chi non sa leggere o scambiandosi informazioni su cosa fare se non si trova il proprio nome.
L’assenza di molte persone dalle liste mostra la disorganizzazione nel pianificare vere elezioni e potrebbe essere un segnale di brogli nelle urne. In particolare nelle città, molti sono preoccupati di non poter votare nelle prime vere elezioni nazionali dal 1990.
Molti birmani non hanno mai votato in vita loro. C’è un clima di curiosità ed eccitazione popolare intorno alle elezioni e ai loro processi, quasi commovente per noi italiani abituati a votare spesso, e molto spesso a votare poco convinti.
I birmani, in particolare quelli politicamente impegnati, vogliono prendersi una rivincita sull’élite al potere che li ha costretti al silenzio per oltre due decadi. Non votano in un’elezione democratica dal 1990 e non sopporterebbero di essere privati del diritto a votare per la loro eroina Aung San Suu Kyi.
Nonostante i militari siano stati capaci in passato di decisioni imprevedibili e apparentemente irrazionali, non sembra plausibile che reagiscano con nuove repressioni e purghe di fronte a quella che si prevede essere una vittoria per l’Nld.
Ma è proprio sull’estensione di questa vittoria che si addensano i maggiori dubbi: gran parte dell’entusiasmo dei sostenitori dell’Nld è dovuto infatti all’aspettativa che tutto possa cambiare grazie alle elezioni, cosa impossibile specie se l’Uspd dovesse ottenere (con o senza brogli) i seggi per mantenere il controllo del parlamento insieme ai militari.
Parlando con i supporter di Aung San Suu Kyi nella sede dell’Nld, tutti ci hanno detto che una vittoria a metà, specie se macchiata da brogli, equivarrebbe a una sconfitta, e li porterebbe dritti nelle strade a protestare.
L’ultima volta ci hanno provato i monaci e gli studenti nel 2008, e tutto si è risolto in un bagno di sangue. A Pakokku, dove le proteste sono iniziate, molti ricordano lo scalpore che suscitarono le file di monaci che marciavano contro i rincari della benzina.
Molti analisti temono anche che un compromesso con l’Uspd sulla figura del presidente potrebbe non essere ben visto dalla base dell’Nld. Il presidente viene eletto dal parlamento e finché la costituzione non verrà cambiata Aung San Suu Kyi non potrà ricevere l’incarico.
La modifica della costituzione sarebbe, però, il risultato di un processo lungo e impossibile da ottenere senza un compromesso con il partito di governo: probabilmente solo la stessa Aung San Suu Kyi, che non ha indicato nomi per la presidenza, sarà in grado di risolvere questa empasse, arrivando forse ad accettare altri due anni di Thien Shein come presidente.
A 70 anni, sarebbe probabilmente l’ultima chance per il premio Nobel di assumere una carica politica. Nell’Uspd e tra i generali, inoltre, vi sono spaccature che sono state evidenziate in agosto dall’improvviso allontanamento di U Shwe Mann, già Segretario dell’Uspd e speaker del parlamento, fino ad allora candidato di compromesso tra Uspd e Nld.
Fino a oggi, quindi, non si può dare per scontato che i militari e l’Uspd accetteranno una transizione senza scossoni. Fino a dopo le elezioni non si saprà chi, tra i vari nomi, sarà il candidato in pectore: molto dipenderà certamente dai risultati elettorali e dalla reazione della popolazione.
In ogni caso il nuovo presidente dovrà fare i conti con le sfide che attendono il Myanmar: democratizzare il Paese emendando la costituzione, continuare a gestire la crescita soddisfacendo le aspettative di maggior equità e attraendo gli investimenti esteri, ma soprattutto tenere unito il Paese con un occhio di riguardo per le minoranze.
Questa sembra essere la sfida maggiore, soprattutto per l’Nld. Finora Aung San Suu Kyi ha goduto dell’eredità del padre, che aveva unito le varie etnie nella lotta per l’indipendenza, ma oggi alcuni problemi stanno emergendo con forza.
La radicalizzazione anti-musulmana degli intransigenti buddisti, in un Paese ancora profondamente religioso, ha già generato gravi disordini a ovest, nello stato Rakhine e in varie altre regioni. Il monaco buddista Ashin Wirathu, bollato come il Bin-Laden buddista, si è conquistato un largo seguito e una copertina di Time con virulenti proclami anti-musulmani che hanno provocato pogrom contro i birmani di religione musulmana.
Assieme a lui, il movimento 969 e il movimento Ma Ba Tha mostrano un consenso crescente, tanto che l’Nld, da loro bollato come il “partito dei musulmani”, ha deciso di non presentare musulmani tra i suoi 1.151 candidati “per aumentare le sue chance di vittoria”.
Aung San Suu Kyi è una politica pragmatica e ha anche deciso di non esprimersi sullo status dei Rohingya, una minoranza musulmana presente al confine con il Bangladesh di cui il governo nega perfino l’esistenza.
Un recente rapporto dell’International State Crime Initiative (Isci) ha definito la minoranza “negli stadi finali di un genocidio”. A seguito di violenze e uccisioni contro di essa, molti dei membri sono stati costretti a tentare la fuga via mare, e a decine sono morti sui barconi in estate.
Per i movimenti anti-islamici, il tentativo di pacificazione dell’Nld è ancora insufficiente, e questo potrebbe danneggiarlo nelle urne. Persino nei salotti di Yangon i Rohingya sono un argomento tabù.
Il Myanmar ha urgenza di trovare una soluzione stabile per i conflitti armati sul suo territorio, che riflettono le decine di etnie e la richiesta di autonomia da Yangon.
Se da un lato il governo ha appena firmato un armistizio con alcuni gruppi di ribelli più moderati, e l’elezione di rappresentanti di partiti etnici potrebbe fornire una via d’uscita dai conflitti, d’altra parte i gruppi ribelli più bellicosi restano in attesa, pronti a riprendere le ostilità se colpiti nei loro interessi o se l’autonomia degli stati etnici fosse intaccata.
Si vedono ribelli in armi a nord e a est, negli stati Kachin, Shan e Kayian. Regioni dove, non a caso, la coltivazione dell’oppio, estrazione di minerali, la deforestazione degli alberi da legno teak e i confini porosi hanno permesso a governo e ribelli di finanziare conflitti lunghi decenni.
Se l’Nld prendesse il potere, i militari potrebbero riattivare i focolai di conflitto con i ribelli screditando l’azione dell’opposizione.
Allo stesso modo, l’economia del Paese è tuttora in larga parte in mano ai vertici militari e ai sodali del regime. Se è vero che l’apertura del Paese agli investimenti stranieri ha portato un nuovo dinamismo nell’economia, la corruzione è tutt’ora diffusissima e molte leve verranno manovrate ancora da sodali del regime anche in caso di una vittoria dell’Nld.
Gli amici dei militari controllano larga parte dell’industria estrattiva, degli hotel di lusso, dell’agricoltura e dell’esportazione di metalli e legname. In caso di vittoria dell’Nld, un’altra sfida sarà far percepire il cambio di passo ai suoi cittadini e agli investitori, alcuni dei quali, in primis Pechino (uno dei partner di lunga data dei militari), potrebbero non gradire la svolta.
In alcune parti del Paese l’aumento della popolazione cinese, assieme al monopolio di fatto delle attività economiche e alle relazioni con il regime, potrebbe aggiungere tensione in caso di un cambio di governo. Pechino ha una certa influenza su alcuni gruppi ribelli e potrebbe agire su queste leve nel caso in cui i suoi interessi fossero minacciati dai risultati elettorali.
Resta il fatto che l’Nld ha ragione, non ci sono altre occasioni di cambiamento: l’8 novembre il Myanmar ha l’opportunità di portare indietro le lancette fino al 1990 e avere elezioni ragionevolmente libere e giuste che riflettano la volontà dei suoi cittadini.
Il “vento” del cambiamento si percepisce ovunque, dai piccoli villaggi fino ai circoli intellettuali della capitale, e questo clima ha generato enormi aspettative in gran parte dei birmani. Se l’idea della “democrazia disciplinata” dei più intransigenti tra i militari sarà troppo lontana dalle aspettative degli elettori, la transizione rischia di trasformarsi di nuovo in repressione.
Quello del Myanmar è un processo che difficilmente si potrà fermare e che va gestito con massicce dosi di pragmatismo politico e compromessi. Molto dipenderà anche dalla capacità di Aung San Suu Kyi di far accettare alla base del suo partito le necessarie soluzioni di compromesso con gli uomini del passato regime.
L’Nld dovrà dimostrarsi capace di combattere la corruzione e di ridurre il potere (anche economico) dei militari senza suscitare nuovi interventi armati.
In un Paese che è uscito da poco da 50 anni di dittatura militare, queste sono sfide possibili solo con una gran dose di realismo politico e di determinazione nel cambiare strutture di potere consolidate.
Nel caso ritenessero i propri interessi eccessivamente minacciati, i militari potrebbero scegliere di incoraggiare i conflitti regionali e gli scontri tra musulmani e buddisti per poi giustificare o rendere inevitabile un nuovo intervento armato.
L’Nld è reduce da anni passati in clandestinità e gran parte della sua classe dirigente ha trascorso molto tempo in carcere negli anni precedenti. Troppi errori nella gestione della transizione potrebbero allontanare dal partito le simpatie dei birmani.
Gran parte della riuscita di una transizione così complessa dipende da una sola persona: Aung San Suu Kyi. “The Lady” ha un’influenza cruciale nel plasmare le opinioni dei suoi concittadini, e qualora questa influenza dovesse venire a mancare, il Myanmar potrebbe non sopportare un altro governo militare o nuovi anni di caos.