Da premio Nobel a militarista: Aung San Suu Kyi con i rohingya è come Al Sisi con Regeni
Amnesty International denuncia incendi pianificati nelle aree abitate dalla minoranza musulmana dei rohingya, allo scopo di attuare una pulizia etnica nei loro confronti. L'intervista di TPI al portavoce dell'organizzazione
“Quello che a me fa impressione è che una Nobel per la pace ragioni come fa un militare egiziano quando deve negare che Giulio Regeni sia stato ucciso dallo stato. Francamente da un Nobel per la pace ci si aspetterebbe parole diverse”. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, ha raccontato a TPI l’ultima scoperta dell’organizzazione per i diritti umani sulla crisi dei rohingya in Birmania (o Myanmar).
Amnesty ha denunciato “una campagna coordinata di incendi sistematici dei villaggi rohingya” nello stato di Rakhine, dove dal 25 agosto sono riprese le violenze tra le forze di sicurezza birmane e alcuni miliziani del gruppo paramilitare Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), formazione paramilitare vicina alla comunità rohingya.
Gli scontri hanno causato centinaia di morti nello stato di Rakhine e hanno dato inizio a un esodo che ha portato finora 370mila rohingya ad attraversare il confine con il Bangladesh. Secondo un rapporto precedente dell’organizzazione, inoltre, al confine tra i due paesi sarebbero state utilizzate mine antipersona, posizionate dall’esercito birmano per evitare il rientro dei membri della minoranza musulmana.
Quali sono gli elementi che ha riscontrato Amnesty?
Abbiamo esaminato materiale raccolto sia da terra sia da cielo, con le testimonianze sul lato del Bangladesh del confine, le riprese fotografiche e video fatte da terra ma anche le riprese con satellite. In base a questo abbiamo elencato almeno 80 incendi che sono scoppiati dal 25 agosto nella zona dello stato del Rakhine, dove vive la minoranza birmana dei rohingya che però in quello stato è maggioranza.
Quello che invece abbiamo verificato è che questi incendi sono pianificati, anzi succede più o meno sempre la stessa cosa. Militari e gruppi di civili armati, che sostengono i soldati, circondano un villaggio, entrano e sparano a casaccio, colpendo alle spalle le persone che fuggono. Una volta che il villaggio è stato “pulito” incendiano le case. In alcuni villaggi gli incendi erano così pianificati che è stato l’amministratore locale, l’equivalente del sindaco, a mettere in guardia le persone e dire loro di allontanarsi perché le loro case sarebbero state bruciate.
A che scopo mettere in atto questa campagna?
Siamo giunti alla conclusione che si tratta di una campagna sistematica e pianificata con l’obiettivo di pulizia etnica dei rohingya che per il momento è riuscita per metà. Il numero delle persone che hanno attraversato il confine con il Bangladesh è arrivato a 470mila, di cui 370mila dal 25 agosto al 12 settembre (gli altri 100mila circa si erano già recati in Bangladesh tra il 2016 e agosto 2017). Considerato che i rohingya sono poco più di un milione, è difficile chiamarlo in un modo diverso da pulizia etnica.
L’obiettivo del governo è evidente: rimandare in Bangladesh i rohingya, che dal loro punto di vista sono migranti e devono ritornare dal paese dal quale sono arrivati decenni di anni fa. Anche se non è uno scopo dichiarato: anzi le autorità del Myanmar continuano a negare, addirittura sostenendo che i rohingya diano fuoco alle loro case da soli, per motivi che però non spiegano.
La leader birmana Aung San Suu Kyi ha parlato di falsa informazione riguardo la crisi dei rohingya, e l’azione militare è formalmente giustificata dalla presenza dell’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), formazione paramilitare vicina alla comunità rohingya. Quanto c’è di vero?
È vero, c’è una presenza armata nello stato di Rakhine, ma questo contemporaneamente è il pretesto per avviare campagne militari sistematiche, furibonde, di terra bruciate. Era già successo tra la fine del 2016 e il 2017 ed è successo in modo ancora peggiore dal 25 agosto in poi.
Perché Aung San Suu Kyi dovrebbe mettere in atto un’azione del genere?
Le ipotesi per cui Aung San Suu Kyi faccia questo sono molte. La prima è che abbia perso il controllo del suo esercito, e che quindi noi in occidente abbiamo sopravvalutato la sua leadership nel paese. La seconda è che lei sappia benissimo come vanno le cose, ma essendo una leader accentratrice e per di più buddista, ragioni con spirito di parte anziché occuparsi di diritti umani nei confronti di chi ha una religione diversa.
Come le autorità egiziane sul caso Regeni, anche Aung San Suu Kyi ha imparato la tattica del negare, perché questa consente ai paesi di non avere conseguenze per le violazioni dei diritti umani che compiono.
Il flusso dei rohingya verso il Bangladesh è destinato ad aumentare?
È possibile. In meno di un anno dal Myanmar sono fuggite più persone di quanto ne sono arrivate via mare nell’intera Europa nel 2016. Per evitarlo è necessario che gli stati che possono fare pressione sulla Birmania facciano il possibile e che questa campagna di pulizia etnica cessi il prima possibile. Altrimenti ci troveremo in uno scenario che già è fuori controllo, ma così rischierebbe di diventare una catastrofe umanitaria con più di mezzo milione di rohingya espulsi dal loro paese.
Questo creerebbe una pressione enorme su un paese come il Bangladesh che non ha le risorse e questo sarebbe un punto di non ritorno a cui siamo molto vicini. Questo va evitato, coinvolgendo la Cina, gli Stati Uniti, e sperando che la Nobel per la pace abbia una qualche presa sui suoi militari e chieda loro di fermare la pulizia etnica.