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“Le armi all’Egitto? Nel Mediterraneo c’è la guerra, l’Italia non può fare finta di nulla”

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Le guerre in corso in Siria e in Libia da ben 9 anni hanno mutato lo scenario strategico nel Mediterraneo, dove assistiamo a una vera e propria corsa agli armamenti: per approfondire le dinamiche internazionali TPI ha intervistato Claudio Bertolotti, direttore di START InSight

“Nel Mediterraneo c’è la guerra ma l’Italia pare far finta di nulla”: la dura realtà dello scontro tra gli Stati in corso nel Mare Nostrum, oggetto di una vera e propria corsa agli armamenti soprattutto dal punto di vista navale tra Egitto e Turchia, ci impone di scegliere se essere protagonisti di un ritorno all’equilibrio nella regione o se restare a guardare, a tutto svantaggio dei nostri interessi e rinunciando anche alla possibilità di incidere, al netto dalla volontà politica, sul rispetto dei diritti umani. Per sbrogliare l’intricata matassa dei rapporti nel Mare Nostrum, TPI ha intervistato Claudio Bertolotti, analista strategico, docente di ‘Analisi d’area’, Subject Matter Expert per la NATO, ricercatore italiano al CEMRES di Tunisi alla ‘5+5 Defense Initiative’ per la sicurezza del Mediterraneo e Direttore di START InSight.

Guardiamo ad esempio alla guerra in Libia, dove l’Italia mantiene fortissimi interessi strategici, energetici e di sicurezza e che costituisce ormai per l’Europa il più pericoloso fronte aperto nel Mediterraneo, dopo la Siria: i due conflitti condividono la presenza e gli interessi di vari attori che si affacciano sul Mare Nostrum e non solo. L’intreccio delle nuove ambizioni nella regione con altre questioni storicamente aperte, come le rivendicazioni legate allo sfruttamento delle risorse di idrocarburi, hanno provocato un progressivo mutamento dello scenario strategico. Gli ultimi sviluppi degli affari militari tra il nostro Paese e l’Egitto ne sono la prova ma costituiscono soltanto uno dei segnali di allarme di una crescente competizione in corso ormai da anni, che potrebbe prima o poi sfociare persino in un conflitto aperto tra alcune delle principali nazioni coinvolte, attualmente impegnate a fronteggiarsi solo per procura.

Il processo in corso afferisce a un riequilibrio tra le forze in campo, uno scenario a cui l’Italia non è affatto estranea in primis in termini di partecipazione al mercato degli armamenti. Il recente via libera del governo all’esportazione in Egitto di due navi originariamente destinate alla Marina Militare, si inserisce in un più ampio affare tra Roma e il Cairo, a prescindere dalle preoccupazioni per la situazione dei diritti umani nel Paese nordafricano. Secondo alcune indiscrezioni, si parla di una commessa tra i 9 e gli 11 miliardi di euro che comprenderebbe navi militari, pattugliatori, caccia multiruolo, velivoli da addestramento e persino un satellite, tanto da far parlare di vero e proprio “affare del secolo”, che potrebbe cambiare la situazione nella regione e ha già influito sui rapporti in atto a livello internazionale.

Il nostro Paese infatti non è certo l’unica potenza impegnata nel Mediterraneo in questo genere di affari: la vendita da 1,2 miliardi di euro all’Egitto delle due fregate multiruolo FREMM “Spartaco Schergat” ed “Emilio Bianchi”, costruite da Fincantieri per la Marina Militare, è stata infatti letta in Francia come uno “schiaffo” del Cairo a Parigi, che aveva offerto agli egiziani un’altra fregata FREMM, due portaelicotteri modello Mistral e 4 corvette tipo Gowind. L’importanza della commessa risiede non solo nel ruolo svolto nella regione ma anche nel peso dell’Egitto sul mercato mondiale degli armamenti. Secondo il rapporto 2020 dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), il Cairo è diventato il terzo maggior importatore mondiale di armi al mondo, almeno negli ultimi quattro anni. Il Paese nord-africano, retto da un regime militare impegnato nella spietata repressione del dissenso, nutre diverse aspirazioni nel Mediterraneo orientale e in Libia e ha bisogno di armarsi per tramutarle in realtà. L’appoggio al Cairo dei grandi Stati del Golfo, come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, e degli Stati Uniti, complicano non poco lo scenario.

Tutto questo senza dimenticare le parallele ambizioni della Turchia, militarmente presente in Siria, nel Mediterraneo orientale e in Libia, dove sostiene il governo di Tripoli, l’unico riconosciuto legittimo dalle Nazioni Unite, contro il generale Khalifa Haftar, appoggiato appunto dall’Egitto e altri Stati arabi e non solo. Proprio il riarmo, lo sviluppo dell’industria militare nazionale e l’attivismo di Ankara nella regione, finanziati spesso dal Qatar, hanno aumentato la preoccupazione di alcuni Stati rivieraschi per le conseguenze delle pulsioni neo-ottomane di Erdogan nella sponda meridionale del Mediterraneo e nella competizione per lo sfruttamento delle risorse energetiche del Mare Nostrum, che coinvolge anche Israele, Grecia, Cipro e Libano.

Negli ultimi due decenni, Ankara ha accelerato i piani di sviluppo di nuovi armamenti, anche con l’aiuto di Italia e Francia e acquistando materiale soprattutto dalla Germania, concentrandosi in particolare sui missili, sui velivoli armati senza pilota e sull’aggiornamento della propria marina militare. Entro il centenario della fondazione della repubblica turca, previsto nel 2023, la Turchia potrebbe contare su 24 nuove navi, comprese 4 nuove fregate. Tra queste potrebbe figurare anche la prima della classe Istanbul, progettata con il 75 per cento di materiale sviluppato in patria. Una corsa agli armamenti che alimenta le tensioni.

In questo contesto, anche la Russia, forte della propria presenza navale nel Mar Nero e in Siria, sta aumentando la proiezione di potenza sul Mediterraneo e in terra d’Africa, scommettendo su una serie di nuove idee strategiche. In particolare, entro la fine dell’anno la flotta russa del Mar Nero riceverà la nave Graivoron, armata di missili da crociera Kalibr, lanciati negli scorsi anni in Siria dal mar Caspio, con una gittata di oltre 2.000 chilometri, un’idea a basso costo e ad alta efficienza che potrebbe contagiare altre nazioni della regione, già impegnate negli ultimi dieci anni ad aumentare le proprie flotte. Insomma, uno scenario tanto intricato quanto preoccupante, che vede l’Italia tra i protagonisti.

Siamo di fronte a una corsa agli armamenti, soprattutto navali, nel Mediterraneo?
Sì, la corsa all’armamento nel Mediterraneo è in corso ed è la manifestazione evidente di un gioco geopolitico in atto da almeno un decennio. L’acquisizione di navi militari si inserisce infatti all’interno di un attivismo politico che ha il suo perno strategico nel Mediterraneo, sempre più area di scontro e competizione delle medie potenze che tentano di riempire gli spazi vuoti coerentemente con le proprie ambizioni. Dalla Libia destabilizzata a causa dell’intervento unilaterale franco-britannico del 2011 – e dove oggi si confrontano Russia, Egitto, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Qatar – alla guerra in Siria, ben presto divenuta una ‘war by proxy’ (una guerra per procura) in cui attori statali quali Russia, Iran, Turchia, Stati Uniti, e non statali, come Hezbollah e gruppi islamisti sunniti, hanno alimentato e alimentano un conflitto devastante, sia sul piano politico-sociale, sia su quello economico e della sicurezza internazionale.

Nonostante le grandi conquiste tecnologiche, perché è ancora importante concentrarsi sul controllo marittimo e sullo sviluppo navale?
La capacità di proiezione in profondità attraverso lo strumento navale è di primaria importanza: chi non possiede navi da guerra non entra nel gioco, anzi ne viene escluso e questo significa perdita di influenza e cessione agli avversari di accordi commerciali, contratti estrattivi (petrolio, gas, uranio, minerali rari, ecc..), progetti infrastrutturali, di ricostruzione e di armamento.

Che ruolo gioca l’Italia in questa storia?
Noi siamo al centro del Mediterraneo, un’area di crescente instabilità dovuta alle politiche espansionistiche di Ankara e di Mosca, in primis, perseguite anche attraverso il supporto delle parti contrapposte nei teatri di conflitto. Si impone uno sforzo collettivo per ristabilire gli equilibri di potenza e contenere le ambizioni di quegli attori che oggi contribuiscono alla destabilizzazione. L’Italia deve scegliere se essere protagonista della costruzione di questo riequilibrio ed ordine regionale, o se essere uno spettatore passivo. La questione va ben oltre la vendita di due navi FREMM e di una commessa da 1,2 miliardi di euro a favore dei contribuenti italiani che potrebbe arrivare a 10 miliardi: si tratta di una collaborazione politica e militare con il principale Paese del Nord Africa, che può contribuire a quella stabilità del Mediterraneo che tutti auspichiamo.

Viste le preoccupazioni riguardo la situazione dei diritti in Egitto e il caso Regeni, esiste un’alternativa proficua a questo rapporto strategico?
La realpolitik è assai crudele. Preoccupa certo il mancato rispetto dei diritti umani: questo vale per l’Egitto come per la Turchia e i loro alleati arabi. Ma la questione non è mai un elemento determinante nella gestione delle relazioni internazionali, a meno che non venga utilizzata per sensibilizzare o indirizzare l’opinione pubblica dei Paesi democratici per sostenere una decisione dei rispettivi governi. Possono essere fatte pressioni, più di forma che di sostanza; ma il governo italiano non ha la forza per imporre nulla, né l’Egitto ha intenzione di concedere qualcosa.

La partnership con il Cairo non sembra un problema per altri Stati europei, anzi: l’Italia non è certo l’unica ad alimentare questa corsa alle armi…
Guardando alla possibile vendita di navi FREEM all’Egitto, Italia e Francia sono ad esempio due diretti competitor, una concorrenza dimostrata dall’esplicito attivismo di Parigi volto a bloccare questa vendita, proponendo in alternativa la fornitura di navi francesi. Le alleanze servono anche a questo: la Turchia ha riarmato le forze libiche di Tripoli, in questo sostenuta dal Qatar. La Russia ha fornito supporto militare, inviato compagnie di sicurezza private (contractor della Wagner) e schierato aerei bombardieri a sostegno di Haftar. Gli Stati Uniti sono presenti con un proprio comando in Africa e forniscono aiuti militari (finanziamenti per la difesa, armi ed equipaggiamenti, oltre al supporto diretto) ad Egitto, Libano, Libia e agli attori non statali impegnati nei diversi conflitti regionali oltre alle milizie in loco, pensiamo anche ai curdi in Siria e Iraq. Il sostegno e la fornitura di armi ed equipaggiamenti, che condizionano fortemente gli equilibri regionali, possono portare a una dipendenza di fatto dai supporter capaci di condizionare le scelte di politica interna ed esterna dei Paesi alleati sostenuti, che di fatto diventano dipendenti”.

Insomma non è solo questione di soldi, scegliere da chi comprare è anche un fatto politico.
Nel complesso, la recente riorganizzazione del bilancio e delle risorse egiziane per la Difesa, deve essere letta come un mezzo per compensare la debolezza economica attraverso l’abilità militare, anche al fine di evitare la dipendenza dalla ‘generosità’ dei più ricchi Stati arabi, in particolare l’Arabia Saudita”.

L’allargamento del bilancio militare del Cairo ne fa ormai il terzo maggior importatore mondiale di armi al mondo, nonostante la debolezza economica egiziana, come si spiega?
Le spese della Difesa egiziana rientrano nel piano del presidente Al-Sisi di rafforzare l’Egitto in funzione di contenimento del pericolo rappresentato dall’espansione dell’islamismo politico dei Fratelli Musulmani fortemente sostenuto dalla Turchia.

La competizione tra l’Egitto e la Turchia sembra sempre più serrata, uno confronto diretto è uno scenario concreto?
Difficile prevedere uno scontro aperto tra i due Paesi, più probabile invece un confronto indiretto, attraverso l’ormai consolidata tecnica della ‘war by proxy’, in particolare in Libia. All’Egitto, come anche alla Turchia seppur in misura minore, mancano le risorse economiche per poter avviare uno scontro militare diretto. Al contrario, le spese destinate al comparto Difesa saranno funzionali alla politica di potenza dei due Paesi sul medio-lungo periodo, dove la deterrenza e la capacità di intervento peseranno sui tavoli negoziali su cui sono in discussione i diritti di accesso ai ricchi giacimenti di risorse energetiche nel bacino Mediterraneo”.

Insomma, sono le contrapposte ambizioni del Cairo e di Ankara ad alimentare il riarmo, a turbare i delicati equilibri del Mediterraneo orientale.
La corsa agli armamenti è una reazione quasi incontrollata che porta ad investire sempre più risorse in un’ottica di capacità di proiezione di potenza e contenimento delle ambizioni dei competitor: in questo quadro si inserisce la reazione dei Paesi del Mediterraneo all’attivismo militare della Turchia. L’Egitto, che ha tradizionalmente perseguito un ruolo di leadership nella regione, ha perso molta influenza negli ultimi decenni a favore dei Paesi del Golfo e del Levante”.

In questa competizione regionale si è prepotentemente inserita una potenza globale come la Russia, il cui progressivo impegno militare in uomini e mezzi in Siria e Libia e la volontà di proiettare ancor più a sud il potere del Cremlino agiscono da catalizzatore per le tensioni locali e favoriscono il mercato delle armi.
Ad azione segue reazione: un’escalation in termini di impiego di equipaggiamenti militari non può che alimentare una corsa agli armamenti, ma entro certi limiti. Non dimentichiamo che si sta parlando di Paesi le cui economie sono già messe a dura prova da anni di crisi, in ultimo le devastanti conseguenze della pandemia di COVID-19 che ne ha fortemente limitato la capacità di spesa. E’ prevedibile che queste dimostrazioni di forza siano funzionali ad ottenere vantaggi in vista di futuri accordi negoziali tra le parti, più che a un confronto diretto sul campo di battaglia”.

Mosca però sembra intenzionata a schierare nuove armi nell’area, montando ad esempio il potente sistema missilistico Kalibr su navi agili come le fregate, una scelta strategica che potrebbe contagiare gli attori locali e cambiare gli equilibri.
Dobbiamo fare attenzione alla volontà di schieramento di questi equipaggiamenti e alle conseguenze, spesso imprevedibili, dovute a eventi conflittuali o destabilizzanti in grado di cambiare le carte in tavola. Basta guardare al sostegno dato da Egitto, Russia, Emirati Arabi Uniti (e Francia) alla fazione del generale Khalifa Haftar in Libia e alla successiva disfatta militare in conseguenza dello spregiudicato impegno turco a supporto del governo di Tripoli. Gli equilibri sono cambiati in maniera repentina e la minaccia di uso di armi più invasive da parte russa (soprattutto i caccia bombardieri) e lo schieramento delle unità corazzate egiziane al confine libico ne sono una conferma.

Volgendo lo sguardo al Mediterraneo, il Mare Nostrum sembra tutto tranne una frontiera pacifica.
Nel Mediterraneo c’è la guerra, ma l’Italia pare far finta di nulla. Le interferenze turche e russe in Libia, Siria, e il ruolo turco in Iraq, Cipro e nel Mar Egeo, sono una concausa primaria dell’instabilità regionale e potrebbero costituire una minaccia alla sicurezza collettiva portando al consolidamento di equilibri geopolitici a tutto svantaggio per il nostro Paese.

L’intervento dell’Italia è stato storicamente molto morbido e spesso geograficamente limitato sulla scena internazionale, stavolta forse troppo?
Se la Siria è oggettivamente fuori dalla nostra portata, e interesse, così non è per la Libia. Il Governo di Accordo Nazionale (GNA) di Tripoli guidato da Fayez al-Sarraj ha disperatamente chiesto aiuto all’Italia, lo ha fatto in maniera esplicita e ripetuta, per anni. Di fronte al nostro imbarazzante inattivismo, Al-Sarraj ha optato per accettare l’aiuto della Turchia, che così ha sostituito l’Italia nel ruolo di partner primario. Una sostituzione avvenuta con il diretto sostegno della forza militare: navi da guerra, droni, equipaggiamenti anti-aerei, mezzi blindati e unità da combattimento, tra le quali molti jihadisti ed islamisti siriani.

Il costoso sostegno di Ankara a Tripoli non è certo gratuito e un costo politico lo paghiamo anche noi.
Ricordiamo che uno dei primi passi formali sul piano internazionale per l’avvio dell’espansione turca in Libia è stata la firma del controverso accordo di demarcazione delle frontiere marittime che ha portato all’ampliamento della zona economica esclusiva turca (ZEE) nel Mediterraneo orientale: una conferma che lo strumento militare è usato come leva per raggiungere degli obiettivi politici.

Dove abbiamo sbagliato: è questione di impreparazione politica o di un’opinione pubblica sempre concentrata sui problemi interni e con una bassissima soglia di attenzione alle questioni internazionali?
E’ un problema di debolezza cronica. L’Italia, di fatto, è strutturalmente debole: una situazione figlia dell’assenza di coraggio politico, legato a dinamiche elettorali di breve respiro, e della limitata visione strategica che invece altri Stati, anche europei come la Francia, stanno dimostrando di avere.

Leggi anche: 1. Libia, si dimette il vicepresidente del governo di Tripoli: “Al-Sarraj è controllato dalle milizie” / 2. Migranti morti nel Mediterraneo: ecco quanti perdono la vita nei viaggi della speranza / 3. L’Egitto acquista 2 navi militari italiane e tappa la bocca all’Italia sul caso Regeni

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