Reportage TPI – I 100 giorni di Milei che hanno spaccato l’Argentina
Ha convinto milioni di persone a votarlo al grido “Viva la libertà”. Conquistando chi era stufo di decenni di impoverimento. Ma i tagli alla spesa e il revisionismo sulla dittatura hanno riempito le piazze dalla “fine del mondo” fino al confine nord. E intanto la povertà dilaga. Il reportage di TPI da Buenos Aires
Nora Morales de Cortiñas ha compiuto 94 anni il 22 marzo, è una delle fondatrici delle Madri di Plaza de Mayo, anche se non era tra le 14 “pazze” che il 30 aprile del 1977 parteciparono alla prima ronda davanti alla Casa Rosada. L’organizzazione dal 1986 si è divisa in due tronconi. Da una parte la “Associazione delle Madri di Plaza de Mayo”, che ha avuto come presidentessa Hebe de Bonafini, dall’altra le “Madri di Plaza de Mayo Linea Fundadora” di cui Nora è tra le figure più in vista. Una frattura profonda e dolorosa che da quasi 40 anni fa sì che ogni giovedì alle 15:30, a pochi metri di distanza, ci siano due diverse ronde attorno all’obelisco in Plaza de Mayo. Le due linee delle Madri sono lì, sempre, con il sole o con la pioggia. Ma quando Hebe è morta, nonostante per anni ci siano state tensioni, Nora è voluta andare alla commemorazione, è voluta stare vicino a Hebe come ha fatto per tanti anni. Fu «una grande combattente che non si è mai arresa» disse, ricordando che «ha combattuto come tante migliaia di madri contro quella dittatura sanguinaria».
Plaza de Mayo per due
Nei giorni in cui l’Argentina si è fermata per ricordare la presidentessa dell’Associazione Madres de Plaza de Mayo c’è chi cercava di attizzare lo scontro chiedendo a Nora di parlare delle distanze e delle differenze, Norita (come viene chiamata) rispose seccamente: «Ognuna di noi, ogni madre, ha costituito il collettivo più impressionante che il mondo dei diritti umani abbia mai conosciuto. Un collettivo di donne che erano abituate solo a cucinare, a prendersi cura della famiglia e a mandare i bambini a scuola, e all’improvviso ci è successo questo».
Con gli anni che avanzano Nora fa più fatica ad andare in piazza, ma non ha voluto mancare questo 24 marzo, il giorno in cui si ricorda l’inizio della dittatura civico-militare-ecclesiastica che le ha portato via suo figlio, Gustavo, il 15 aprile del 1977. In una lettera aperta da la Garganta Poderosa, la rivista di uno dei gruppi dell’economia popolare nati durante la crisi del 2001, Nora scrive all’attuale presidente: «Voglio dire a Javier Milei che quando imparerà a rispettare le Madri e le Nonne (di Plaza de Mayo), smetterà di combinare pasticci come sta facendo. Il male non deve essere accettato come normale. Se ci governano così, è un grande errore. Dobbiamo quindi invertire ciò che vogliono farci. Non meritiamo questo odio. È molto importante essere un popolo unito il 24 marzo. Restiamo uniti per difenderci da un attacco che non meritiamo. Oggi più che mai, difendiamo la democrazia di fronte a questi cambiamenti impreparati». E questo 24 marzo per l’Argentina non è stato un giorno come tanti.
Negazionisti di governo
Dalla “fine del mondo” ovvero da Ushuaia, la città più australe sulla Terra, fino al confine con Paraguay, Brasile, Uruguay, Bolivia e Cile ci sono state manifestazioni ed iniziative che non solo hanno ricordato gli anni del golpe, ma soprattutto ribadito: «Son 30.000». Il riferimento è ai desaparecidos che i 7 anni di governo militare hanno lasciato in “eredità” al Paese e che solo grazie al coraggio di chi si è salvato, o di chi come le Madri e le Nonne di Plaza de Mayo non è stato in silenzio, o di chi ha voluto aprire processi sia pian piano emerso. Diversi esponenti del partito del nuovo presidente argentino invece sono “negazionisti”.
Victoria Villarruel, vice presidentessa in carica, è stata avvocatessa di diversi militari implicati nell’ultima dittatura, e a più riprese, l’ultima proprio il 24 marzo di quest’anno, ha dichiarato che non furono davvero 30mila le vittime della violenza sistemica e genocida che ha insanguinato l’Argentina dal 1976 al 1983. Ma lo stesso Milei, il 1° ottobre scorso, nell’ultimo dibattito prima delle elezioni disse: «Non ci sono state 30mila» persone scomparse durante l’ultima dittatura militare. «Sono 8.753». Per poi “rivisitare” il colpo di stato, aggiungendo: «Per noi, durante gli anni ’70 c’è stata una guerra in cui le forze di Stato hanno commesso degli eccessi e, poiché avevano il monopolio della violenza, il peso della legge si applica a loro». E non è certo un caso che da quando è entrato in carica il nuovo governo si contano già diversi licenziamenti tra chi lavora(va) in centri dedicati alla memoria e tra i “tagli” programmati dal presidente, alcuni invadono anche il campo dei centri in difesa dei diritti umani oltre che degli istituti che si occupano del ricordo della dittatura.
Proprio per questo le piazze di tutta l’Argentina si sono riempite di persone, il grido «Son 30.000» è rimbalzato da città a città, e il ricordo della dittatura si è mescolato con il rifiuto generale delle politiche di Milei. A Buenos Aires si calcola siano scese in strada oltre 400mila persone. Ad Ushuaia, città che si è ingrandita grazie alla migrazione interna e all’industria della tecnologia, c’è stata una manifestazione nel centro della città e in contemporanea un concerto, in difesa della memoria e contro il fascismo, organizzato dal mondo punk. Certo una parte importante del Paese si è mobilitato, ad esempio il 24 gennaio con lo sciopero generale contro le proposte dell’esecutivo ed è tornato in piazza l’8 marzo assieme al movimento femminista argentino che denunciando la violenza di genere rivendica giustizia sociale, lotta alla povertà e diritti per tutte e tutti. Il 24 marzo ha riempito le strade del Paese, così come il 3 e 4 aprile pensionati, pensionate, docenti e personale del “pubblico” ha manifestato contro i tagli e per questo ha incontrato i manganelli della polizia. Ma allo stesso tempo il consenso a Milei resta altissimo.
Dalla Patagonia a Iguazù
Se sui muri di tutte le città del Paese si leggono scritte contro il governo basta prendere un taxi, o la metropolitana o fermarsi in un bar a prendere un caffè, basta fermarsi a sentire i discorsi di chi vive il Paese per capire chi ha votato il nuovo presidente. Non ci sono solo persone ricche o di “destra”, c’è un popolo disperato ed impoverito che, esasperato dalle politiche pubbliche degli ultimi 30 anni, ha deciso di assecondare il grido che un non politico ha trasformato in motto vincente: «Viva la libertà, cazzo».
Ha votato Milei chi si è sentito tradito dal governo di Alberto e Cristina Fernandez, chi non si è ritrovato nella proposta di Macri e dei Radicali. Il voto a Milei è una reazione al femminismo che denuncia il patriarcato e la violenza machista che in Argentina significano un femminicidio ogni 29 ore. Ma a votare Milei sono anche le persone che si rivolgono alle mense popolari, chi frequenta gli spazi creati per rispondere alla crisi economica di inizio 2000, chi fa parte dei gruppi delle economie popolari, giovani studenti al primo voto, ci sono indigene e indigeni, migranti. Il voto a Milei è stato popolare e capillare e nasce dal rifiuto di decenni di impoverimento costante.
Non fanno mistero di questo voto ampio e popolare le persone che a Bariloche danno vita a Radio Piuke, un’emittente autonoma nata dentro lo spazio comunitario ed ecologista Chico Mendes. Bariloche è una città che se pur egemonizzata dal turismo ha una vita sociale intensa e attiva, tanto che il 24 marzo, alle 17:00, si sono trovati a migliaia a manifestare per le vie del centro per la “Verità e la Giustizia”. E così è stato anche l’8 marzo.
Manifestazioni che si scontrano con il centro cittadino abitato e vissuto dai turisti e dalle turiste perché chi vive e lavora a Bariloche è solito abitare in “periferia’” E in periferia vivono anche migliaia di persone di origine Mapuche. Alcune di loro cercano di recuperare la propria identità originaria, imparano la lingua e provano a tornare nelle proprie comunità, cercando di salvarle dalla distruzione. Altri e altre si sono fatti egemonizzare dall’essersi inurbati, non parlano la lingua e non sono interessati a salvaguardare le proprie tradizioni. Vivono quasi tutti di turismo, e il turismo rende la vita nel territorio un po’ meno ondivaga, economicamente. Qui spesso i turisti pagano in dollari o, grazie alla vicinanza con il Cile, in pesos cileni.
A Bariloche, così come in tutta la Patagonia, lo scontro tra ricchezza e povertà è forte, ed è uno scontro che il turismo amplifica e rende più visibile. Una dinamica simile a quella che si ritrova a El Calafate o ad Ushuaia, dove i centri delle città sono luminosi, pieni di negozi “occidentali” e di ristoranti, mentre le periferie sono umili ma ricche di vita sociale, comunitaria e iniziativa politica. Ma c’è anche povertà, e a volte il sistema bancario argentino non fa arrivare moneta. A “salvare” la situazione spesso sono proprio i turisti che, se da un parte determinano le due velocità di sviluppo urbano, dall’altra garantiscono la presenza di banconote locali e straniere. Un po’ il turismo un po’ la distanza dalla capitale, fanno sì che tutto sia più caro che a Buenos Aires o nei grandi poli urbani.
Anche al nord, a Iguazù, al confine tra Paraguay e Brasile, il turismo ha modellato la città e il suo sviluppo ma qui la vita costa meno che nella capitale. Anche qui, come in Patagonia, Milei ha stravinto, e la maggior parte di chi nel turismo lavora concorda che un cambio serviva. Ma non tutte e non tutti l’hanno votato, tanti e tanti hanno preferito, dicono, non scegliere e non votare.
Povertà dilagante
«Penso che in 40 anni di democrazia in Argentina non siano state risolte questioni fondamentali», ricorda Raquel Vivanco, fondatrice dell’Osservatorio “Ahora Que Sí Nos Ven” spiegando il perché delle vittoria di Milei. «Penso che abbia vinto grazie a un discorso falso, sfruttando il malcontento di una parte importante della società», aggiunge. «Ed è ben lontano dal farci stare meglio». Quando il presidente ha “festeggiato” il giorno numero 100 dall’inizio del suo governo è arrivata la notizia che per la prima volta nella storia del Paese il salario medio, di 550mila pesos, è al di sotto della soglia di povertà, fissata a 600mila pesos mensili. Un dato che non tiene conto però che circa il 40 per cento della popolazione vive di economie informali e quindi è al di fuori delle statistiche, cifre che probabilmente racconterebbero di stipendi medi ben più bassi.
Nel solo mese di febbraio l’inflazione in Argentina è salita del 13,24 per cento, portando così il dato generale rispetto all’anno precedente a un +276,2 per cento. Numeri che non possono essere imputati, se non in parte, a Milei ma che allo stesso tempo spiegano come e perché Sergio Massa, ministro dell’Economia e sfidante al ballottaggio del neopresidente, era un candidato assolutamente non popolare.
Nel 2018, l’ultima volta che ero stato in Argentina, non esistevano banconote di taglio superiore ai 500 pesos, oggi non solo vengono stampate banconote da 2.000 pesos ma la Banca Centrale sta pensando di stampare quelle da 5.000 e 10.000 pesos. Una fotografia disarmante di un Paese dove il costo della vita cresce molto più velocemente di ogni tipo di stipendio e dove, lontano dai centri turistici, per pagare con il bancomat o con le carte di credito i negozi applicano un sovrapprezzo per “seguire” gli sbalzi dell’inflazione del peso. Una situazione drammatica che rispecchia l’incapacità della politica e del capitalismo argentino di uscire dalle drammatiche scelte di Carlos Menem degli anni Novanta. Il “sogno” che Nestor Kirchner e poi Cristina Fernández de Kirchner hanno incarnato ha spostato e ritardato il conto, che dopo i quattro anni del governo di Maurizio Macri si è fatto più salato.
Opposizioni divise
Per Viviana Norman, della Campagna Nazionale per l’aborto legale, sicuro e gratuito, si può «pensare a una rivisitazione dello Stato, ma in nessun caso permetteremo che i diritti che abbiamo ottenuto vengano annientati o tolti, non torneremo indietro, non torneremo mai più indietro». Il riferimento è alle “ricette” di tagli alla spesa pubblica con cui Milei ha convinto milioni di persone ad affidarsi a lui e al suo partito, ma anche al tentativo dell’attuale governo di mettere in discussione le conquiste strappate dal movimento femminista non più di tardi di quattro anni fa. Resta che l’Argentina è un Paese con un’industria alimentare capace di produrre cibo per 400 milioni di persone, dieci volte tanto la popolazione, ma dove si muore di fame.
E mentre Milei specula sul passato, sugli errori di chi ha governato prima di lui, mentre prova a riscrivere la storia della dittatura civico-militare-ecclesiastica, le opposizioni politiche e di movimento, si dividono e non riescono, a Buenos Aires, a unirsi in una piazza unica e così, dopo 38 anni, far sì che le due linee delle Madri di Plaza de Mayo si ricongiungessero firmando uno stesso documento. Invece, anche questo 24 marzo, movimenti sociali e partiti politici si sono divisi, e così ben “tre diverse convocazioni” hanno portato centinaia di migliaia di persone in Plaza de Mayo.
Le convocazioni erano una di seguito all’altra, in continuità, ma formalmente divise. Ma quando Nora Morales de Cortiñas è salita sul palco, in sedia a rotelle, il grido che accompagna l’arrivo delle Madres in ogni manifestazione «Madres de la plaza el pueblo las abrazas» (letteralmente: “Madri della piazza, il popolo vi abbraccia”), ha lasciato spazio a un collettivo ed emozionato augurio di buon compleanno. Augurio a cui Norita ha risposto alzando il pugno sinistro. Quarantasette anni dopo, il giorno in cui 14 “pazze” sfidavano la dittatura di Videla manifestando in Plaza de Mayo, la democrazia Argentina è difesa da alcune donne che hanno ancora il fazzoletto bianco in testa, anche se a volte si mettono quello verde o viola per manifestare la loro adesione a quei movimenti femministi che con orgoglio hanno ripreso quel simbolo oggi riconosciuto in tutto il mondo come vessillo di giustizia sociale e difesa dei diritti umani. Quelle donne che ancora oggi chiedono verità e giustizia per i loro figli scomparsi e così un mondo giusto, pacifico, e democratico. Donne che vanno in piazza tutti i giovedì e ogni qual volta è necessaria la loro presenza. Non importa se fa caldo o freddo, se c’è il sole o piove. Donne come Nora Morales de Cortiñas, donne che hanno fatto e fanno ancora la storia.