Le contraddizioni dell’Arabia Saudita, sospesa tra modernità e conservatorismo
L'analisi di Giacomo Pirovano, esperto di Medio Oriente, sul cambiamento di rotta dell'Arabia Saudita, che guarda sempre più all'indipendenza dal petrolio
L’Arabia Saudita cambia direzione. E lo fa tramite un piano di diversificazione economica che propone di distogliere le entrate Saudite dall’unica risorsa su cui si è fondata la storia moderna del paese: il petrolio. Il progetto, chiamato Vision 2030 e descritto in un recente report dell’agenzia di consulenza McKinsey “Saudi Arabia beyond oil: The investment and productivity transformation”, prevede la vendita del 5 per cento della Saudi Aramco, la compagnia nazionale saudita di idrocarburi che gestisce la quasi totalità dei giacimenti del regno e di gran lunga il leader mondiale nel settore, in modo da alimentare i circa 4mila miliardi di dollari necessari come investimento per raggiungere il cambiamento entro l’anno 2030.
“Se anche vendessimo solo l’1 per cento di Saudi Aramco sarebbe la più grande offerta pubblica iniziale della storia”. Queste le parole di Mohammad bin Salman Al Saud, vice principe ereditario dell’Arabia Saudita, secondo vice primo ministro e ministro della Difesa appartenente alla famiglia reale Al Saud.
Il piano di Riyadh prevede di raddoppiare il Pil del regno tramite la creazione di 6 milioni di posti di lavoro e di poter così partecipare ai mercati esteri slegati dal modello economico strettamente regolato dal governo e dipendente dal prezzo e dalla disponibilità del petrolio. Non appena il progetto Vision 2030 è entrato in vigore il rinnovamento è stato imposto dalla famiglia reale con i primi investimenti immediati.
Ma esiste un problema: è chiaro che per raggiungere tali ambiziosi obiettivi il cambiamento dovrà divenire effettivo a livello economico ma soprattutto a livello culturale. Quando non si hanno problemi di fondi, è il cambiamento di mentalità dei sauditi che diventa una priorità e l’ostacolo più alto da superare.
L’Arabia Saudita è un paese islamico ultraconservatore con leggi rigorosissime che lo rendono uno dei peggiori regimi al mondo, come spesso documentato da Amnesty International e molte altre agenzie che si occupano di diritti umani. Bisogna però ammettere che la famiglia Al Saud si è dimostrata parzialmente illuminata negli ultimi anni, per esempio offrendo, a partire dal 2005, circa 200.000 borse di studio per studiare all’estero, creando un’opportunità non banale di integrazione coi valori occidentali per la futura classe dirigente del paese.
Inoltre un investimento governativo di circa 8 miliardi di dollari ha consentito di avviare la costruzione del The King Abdullah Financial District una “city” finanziaria nel cuore di Riyadh che vuole ospitare il nucleo economico del paese. Il progetto rispetta gli ultimissimi standard di modernità e prevede una monorotaia, supermercati, alberghi, una stazione della metropolitana (progettata da Zaha Hadid prima della sua scomparsa) per collegarsi alle zone periferiche, ed il primo cinema del paese.
Si prevede di ospitare anche banche che seguono il modello occidentale e non solo banche che utilizzano il sistema di scambio finanziario approvato dalla legge della Sharia islamica e la famiglia reale sta spingendo perché l’area possa diventare una “bolla occidentale” all’interno del paese. Beninteso, questo significa con leggi occidentali.
Gli ingegneri che stanno lavorando al Financial District sostengono non ci sia bisogno di progettare un sistema di sicurezza per la prevenzione di eventuali attentati terroristici per mano di chi vede di cattivo occhio tale modernizzazione, ma il desiderio di apertura culturale ha creato un certo mal contento fra le fazioni più estremiste della popolazione, e non si tratta di trascurabili minoranze. L’Arabia Saudita è sempre stato un paese disunito e pieno di contraddizioni.
L’alleanza con gli Stati Uniti e il Regno Unito, al quale di recente ha versato 3.5 miliardi di dollari per l’acquisto di armamenti, stride con i sospetti di un possibile coinvolgimento nell’organizzazione degli attentati dell’11 settembre, così come la condivisione di forze di intelligence con Israele per tenere sotto controllo l’Iran, lo sviluppo segreto (di cui, visitando il paese è facile raccogliere testimonianza) di armamenti nucleari in collaborazione col Pakistan, i bombardamenti indiscriminati di scuole e ospedali in Yemen, i versamenti finanziari di cittadini privati a Daesh, il settarismo nei confronti delle minoranze sciite e altro.
Tutte scelte politiche che derivano e al contempo si riflettono sulla mentalità del popolo Saudita. L’ultraconservatorismo contrasta, per definizione, con il progresso e l’innovazione. Basti citare un recentissimo studio della King Saud University sull’epilessia, malattia ancora considerata un sintomo di impurità, una punizione divina, un castigo di Allah e che non viene perciò curata né controllata.
È evidente che manchino le conoscenze scientifiche di base per comprendere i fenomeni naturali e umani, e il sistema educativo vecchio ed inquinato da scaramanzie e pressioni religiose non aiuta. Una certa pressione verso il cambiamento culturale è già in atto. Per esempio il governo ha recentemente tolto la facoltà di arresto alla muttawa, la polizia religiosa, di fatto annullandone il potere.
Inoltre esistono programmi educativi per selezionare i giovani studenti più promettenti ed introdurli alle materie scientifiche così come vengono insegnate in occidente (a partire dalla teoria dell’evoluzione di Darwin) tramite l’assunzione di personale dalle più prestigiose università inglesi.
Gli oppositori della dinastia Al Saud dovranno arrendersi all’idea che l’Arabia Saudita ha avviato un processo accelerato di cambiamento su tutti i fronti e tale cambiamento è meticolosamente calato dall’alto, dalla famiglia reale al popolo. Si aggiunga che la solidissima salute politica degli Al Saud è garantita dalla loro abilità nel costruire una rete familiare che permea tutti i settori governativi e che tra l’altro include 150.000 uomini della guardia nazionale sotto il diretto controllo del re e per la sua difesa personale.
Non si prevede perciò alcun violento capovolgimento di gerarchie e men che meno un sollevamento popolare in favore dei diritti in stile primavera araba. Il primo passo è stato fatto, ma il tempo corre e secondo alcuni potrebbe essere già troppo tardi. Il prezzo del petrolio è calato ai minimi storici e gli effetti su Vision 2030 si fanno già sentire, trattenendo questo mastodontico progetto allo stato di scommessa ottimista. Un tale fallimento, quello sì, potrebbe far traballare la stabilità dei reali dell’Arabia Saudita.
*A cura di Giacomo Pirovano, esperto di Medio Oriente dell’Università di Oxford. Di recente ha lavorato come consulente scientifico in Arabia Saudita.