L’Egitto sull’orlo del baratro?
L'analisi di Clara Capelli sulla difficile situazione economica dell'Egitto e la minaccia di nuove manifestazioni di piazza contro il presidente Sisi
Qual è il vero Egitto? Quello dei faraonici – è proprio il caso di indulgere nei cliché – progetti infrastrutturali per gli investitori privati annunciati durante l’Egypt Economic Development Conference di Sharm el-Sheikh nel marzo 2015, della nuova sezione del Canale di Suez e della costruzione di una nuova, modernissima, capitale, oppure quello bacchettato nel mese di agosto dall’Economist, da Bloomberg e dal Financial Times, con una disoccupazione giovanile di oltre il 40 per cento, inflazione rampante e un pessimo clima per gli investimenti?
A preoccupare le tre principali testate economiche internazionali è la critica situazione in cui l’Egitto versa, dalla disoccupazione dilagante ai conti pubblici in sofferenza.
Degli ambiziosi progetti d’investimento annunciati più di un anno fa molto poco è stato realizzato. L’espansione del Canale di Suez – un progetto da oltre 8 miliardi di dollari, realizzato in brevissimo tempo e senza che alcuno studio di fattibilità fosse reso pubblico – non sta portando alle casse dello stato i ricavi previsti, conseguenza fra le altre cose della contrazione del commercio globale osservata negli ultimi anni.
L’Egitto ha bisogno di soldi, perché anni di politiche economiche inique volte a rattoppare le sofferenze sociali per una stabilità di facciata stanno presentando il conto.
Gli eventi seguiti alla rimozione di Hosni Mubarak e alle proteste del 2011 hanno fortemente scosso la già precaria condizione economica del paese oltre a contrarre sensibilmente le entrate del turismo e gli investimenti esteri. Anche i generosi aiuti economici dei paesi del Golfo si sono sensibilmente ridotti tra il 2015 e il 2016.
Per un’economia estremamente dipendente dall’estero come quella egiziana ciò si è tradotto in un’emorragia di riserve di valuta straniera (da 36 miliardi di dollari nel 2011 a 19 miliardi a settembre 2016) e in una serie di svalutazioni della lira egiziana, con l’ultima svalutazione del 13,5 per cento nel marzo 2016 che ne ha portato il valore a 8,88 lire egiziane per dollaro (contro le 5,95 lire egiziane per dollaro del 2011).
È del 3 novembre l’annuncio da parte della Banca centrale egiziana di allentare il controllo sul tasso di cambio consentendone una certa fluttuazione. Un dollaro ora vale circa 13 lire egiziane.
La scelta della Banca centrale è dovuta alla necessità di contrastare il mercato nero della valuta, ma è anche da spiegarsi con l’agenda di riforme richiesta dalle organizzazioni internazionali per l’elargizione di prestiti, necessari a tenere a galla l’economia egiziana.
A luglio sono stati infatti annunciate le negoziazioni per un prestito di 12 miliardi di dollari spalmati su tre anni da parte del Fondo monetario internazionale (Fmi), che si aggiungerebbe ai già accordati programmi di budget support della Banca mondiale (3 miliardi di dollari in tre anni) e della Banca africana di sviluppo (1,5 miliardi di dollari in tre anni).
Per l’Fmi la riduzione dei controlli sui movimenti dei capitali e la fluttuazione di una (debole) lira dovrebbero fungere da stimolo agli investimenti esteri e all’export egiziano.
Tuttavia, nonostante le dichiarazioni d’intenti rispetto all’adozione di misure a protezione delle fasce più vulnerabili della popolazione, la crisi attualmente in corso ha fortemente inasprito un clima sociale già teso, con il rischio di far ulteriormente precipitare la situazione.
Ciò che molte analisi non paiono afferrare nella sua gravità è la fortissima dipendenza dell’Egitto dalle importazioni estere, dai beni di consumo alimentare (a cominciare da grano e lenticchie, elementi base della dieta egiziana) o di uso quotidiano fino ai beni intermedi necessari alla produzione industriale.
Il crollo della lira ha portato a un forte aumento dei prezzi e a situazioni di carenza di prodotti disponibili sul mercato, per esempio lo zucchero, di cruciale importanza in una nazione di incalliti “bevitori di tè” come alcuni hanno sottolineato.
A ciò si aggiungono la recente introduzione dell’Iva al 13 per cento (14 dal prossimo anno fiscale) su diversi beni di consumo oltre che un sensibile incremento del costo dell’elettricità che ha gravato sui bilanci delle famiglie meno abbienti.
L’ultima draconiana misura è del 4 novembre, con l’annuncio di aumenti tra il 30,5 e il 46,8 per cento sul costo dei carburanti.
Il malcontento dilagante ha trovato un inatteso portavoce nel conducente di tuk-tuk Moustafa Abdelaziz al-Laithi, che in un’intervista ha urlato tutta la sua frustrazione: “Uno guarda la TV e l’Egitto pare Vienna. Ma se si esce in strada sembra di stare in Somalia”, ha detto esprimendo tutto il suo risentimento per i grandi progetti infrastrutturali che serviranno solo ad arricchire un’élite già molto facoltosa senza nulla dare alla popolazione più povera, che invece necessita disperatamente di massici programmi di sviluppo sociale.
“La gente è stanca” e le parole di Moustafa (su cui sono subito circolate le voci più disparate, da accuse diffamanti al sospetto che fosse stato assassinato) rimandano alla possibilità che una manifestazione contro il presidente Abdel Fattah al-Sisi abbia luogo venerdì 11 novembre.
Che le proteste arrivino alla piazza o meno quel giorno, il guidatore di tuk-tuk ha mostrato le tante crepe del muro nascoste dietro un quadro appeso maldestramente, il volto di un Egitto coperto solo da una fragile maschera di apparente stabilità.
(Qui sotto il conducente di tuk-tuk fa marcia indietro dopo lo sfogo catturato dalle videocamere e diventato virale. Nel video anche le parole di rabbia e frustrazione che avevano fatto temere per la sua incolumità fino a parlare di presunta scomparsa. Credit: Middle East Eye)
— L’analisi è stata pubblicata da ISPI con il titolo “L’Egitto tra sogni faraonici e una profonda crisi economica” e ripubblicata in accordo su TPI con il consenso dell’autrice
*Clara Capelli, ricercatrice del Cooperation and Development Network di Pavia