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Amen and awoman, come una battaglia per i diritti può trasformarsi in fanatismo

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Se anche una parola di origine ebraica che vuol dire “in verità” rischia di essere etichettata come sessista, quella cui stiamo assistendo non è più una battaglia contro la discriminazione, ma una moda o peggio ancora una forma di fanatismo. Un’escalation di zelo nell’intervenire su qualsiasi aspetto possa, anche senza motivo alcuno, sembrare fonte di intolleranza. Siamo di fronte a un fenomeno che partendo da una battaglia nobilissima come quella contro l’odio e la discriminazione e a sostegno della parità, è cresciuto a dismisura, uscendo dai propri binari e rischiando di svuotare la battaglia dalle sue ragioni originarie.

Il gesto compiuto il 3 gennaio dal membro della Camera dei rappresentanti statunitense Emanuel Cleaver, ovvero concludere la sua preghiera (è anche pastore metodista) in occasione dell’apertura del 117esimo Congresso con un “amen and awoman” racconta molto su una campagna che sta prendendo una piega ben lontana dagli obiettivi postisi in origine.

Per prima cosa, sappiamo bene che la parola “amen”, di origine ebraica, significa “in verità”, viene spesso tradotta in italiano come “così sia” e nella liturgia cristiana è usata per concludere le preghiere. Nulla che abbia a che fare con uomini, donne e differenze di genere, ma nonostante questo Cleaver ha fatto prevalere il valore della parola “men” che per ragioni del tutto casuali si trova nella parola “amen”, ritenendo necessario compensarla con “a-woman”. In poche parole, uno stravolgimento storico, ma anche linguistico.

Perché infatti una parola ebraica dovrebbe essere trattata come se fosse inglese? Parliamo di una parola le cui origini sono ben più antiche della lingua di Shakespeare, e che nulla ha a che fare con essa. La risposta è che questo episodio ci racconta quanto anglo-americano centrica sia la nuova battaglia contro la discriminazione che sta prendendo una deriva sempre più fanatica ed estremista.

La lingua è materia viva, ma usare una parola di tutt’altra cultura in maniera del tutto artificiale (il valore ufficiale e liturgico dell’episodio difficilmente può classificarla alla voce “gioco di parole”) rappresenta a tutti gli effetti un’appropriazione arbitraria. In altre parole un’ “appropriazione culturale”, prendendo in prestito un’altra delle accuse mosse spesso e volentieri dai nuovi fanatici della lotta alle discriminazioni, come quella contro l’attrice israeliana Gal Gadot, colpevole di essere stata scelta per interpretare Cleopatra in un film.

Anche quella vicenda racconta molto di una battaglia che sta prendendo una piega sempre più estremista. L’attrice, infatti, è stata accusata da molte voci sul web e nel mondo del cinema di non poter interpretare Cleopatra perché “bianca”: secondo loro doveva essere un’attrice araba o africana a vestire i panni della regina d’Egitto. Il tutto nonostante Cleopatra non fosse egiziana, ma macedone (e verosimilmente bianca), e nonostante gli arabi all’epoca non abitassero ancora l’Egitto. Questo senza nemmeno menzionare il fatto che il cinema si basa prima di tutto sulla libertà artistica dei suoi autori, e mettere mano alla libertà d’espressione non è mai un buon segno.

Anche in questo caso siamo di fronte a una visione della storia del tutto parziale, filtrata da una lente estremamente contemporanea. Parliamo della stessa mentalità che ha portato all’abbattimento di statue di Cristoforo Colombo o Winston Churchill, la stessa mentalità secondo cui si fa prima a cancellare un pezzo di storia anziché studiarla, approfondirla, contestualizzarla.

Ma torniamo un momento alla vicenda “amen, awomen”, perché c’è una questione per nulla secondaria. Qual è stato il risultato ottenuto da questa frase nella battaglia contro l’odio e la discriminazione? La risposta è semplice: nessuno. Nessuna donna ha visto il proprio salario raggiungere quello del collega maschio, nessuna donna che era insultata, maltrattata, emarginata ha cessato di esserlo. Il risultato è stato solo un eccesso di zelo in una battaglia che sembra essere sempre più sotto l’insegna del fanatismo della forma, e che rischia di avere effetti nefasti.

Già, perché così facendo, se qualcuno non dirà al Cleaver di turno “fermati, perché stai esagerando”, se tutti diranno passivamente “va beh, è stato un eccesso di zelo ma alla fine non è successo niente”, il rischio è che domani chi non dirà “amen and awoman”, chi non vorrà cambiare nome alle strade dedicate a Colombo, chi non vorrà cancellare il volto di Churchill, verrà tacciato automaticamente come razzista in una spirale di fanatismo.

Chi ci guadagnerà a quel punto da tanto zelo? Chi razzista lo è veramente, e si ritroverà sullo stesso piano di chi semplicemente aveva detto “scusate, ma questa battaglia così non va”.

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