La Turchia deve cambiare approccio se vuole mettere fine alla guerra col Pkk
L'analisi di Alon Ben-Meir sulla questione curda e sulla necessità che Erdogan cambi strategia aprendo ai negoziati di pace
Il presidente turco Erdogan ha affermato che le operazioni militari contro il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) continueranno finché non sarà stato ucciso fino all’ultimo ribelle.
Ciò che lascia a bocca aperta di questa affermazione è che dopo più di trent’anni di violenze che hanno causato la morte di oltre 40mila turchi e curdi, Erdogan ritienga ancora di poter risolvere risolvere il conflitto con la forza.
Tuttavia si sbaglia profondamente, dato che la lunga lotta storica dei curdi è radicata nella loro mente e fornisce loro lo slancio per la battaglia per la semi-autonomia, la quale continuerà finché non verrà trovata una soluzione accettabile per entrambe le parti attraverso negoziati pacifici.
I curdi
Per comprendere la mentalità dei curdi, Erdogan farebbe bene a riesaminare, anche solo rapidamente, la loro storia e le avversità che hanno sperimentato dalla fine della Prima guerra mondiale.
Un regno indipendente del Kurdistan durò appena due anni (1922-1924) prima che venisse fatto a pezzi e diviso tra Iraq, Iran, Turchia e Siria, indipendentemente dalla rilevanza etnica e geografica.
Malgrado ciò, sono rimasti aggrappati al loro retaggio culturale, ed è il rifiuto della Turchia di riconoscerlo che sta al cuore dei loro attuali problemi.
Da quando il Kurdistan è stato smantellato, e nonostante la discriminazione contro i curdi e l’ambiente precario in cui si sono trovati, hanno continuato instancabilmente a preservare il loro stile di vita, temendo che se non lo avessero fatto la loro identità etnica e nazionale e la loro lingua sarebbero gradualmente scomparse.
In Iraq, ci sono sette milioni di curdi (circa il 15 per cento della popolazione). Dal 1991, hanno consolidato il loro governo autonomo sotto la protezione degli Stati Uniti e adesso godono di tutti i privilegi di uno stato indipendente.
In Siria, i due milioni di curdi (circa il 9 per cento) sono rimasti per lo più ai margini della politica sotto i regimi degli Assad. Negli ultimi cinque anni hanno tratto vantaggio dalla guerra civile e creato una regione semi-autonoma a cui Erdogan si oppone con tutte le sue forze perché teme che potrebbe incoraggiare i curdi turchi a cercare la propria autonomia alla maniera dei curdi iracheni.
Gli otto milioni di curdi in Iran (quasi il 10 per cento) ufficialmente godono di rappresentanza politica ma storicamente hanno subito discriminazioni socio-politiche che hanno incoraggiato l’ala militante del Partito democratico del Kurdistan in Iran (Kdpi) a ricorrere alla violenza, facendo della Guardia rivoluzionaria iraniana il loro principale obiettivo.
La Turchia ospita la più grande comunità curda (15 milioni, approssimativamente il 18 per cento). Nonostante siano per lo più sunniti come i turchi, le loro aspirazioni nazionali all’autonomia e al riconoscimento della loro identità culturale sono più forti del loro credo religioso.
Ocalan e il Pkk
Prima della formazione del Pkk, negli anni Settanta, Abdullah Ocalan e i suoi seguaci promuovevano la causa curda in Turchia attraverso l’attivismo politico.
Ma dopo essere diventati l’obiettivo di un giro di vite da parte del governo, hanno abbracciato la guerriglia e formato, nel 1978, il Pkk. Nel 1984, quando era primo ministro Turgut Ozal, hanno avviato la loro insurrezione.
Nel 1999, Ocalan fu arrestato e condannato a morte, ma grazie alle pressioni dei paesi europei e per via della volontà di Ankara di entrare nell’Ue, la Turchia abolì la pena di morte e la condanna di Ocalan fu commutata in ergastolo.
Questo gli consentì di continuare a detenere il ruolo di leader dei curdi e di assumere un tono moderato, che rimane essenziale per futuri negoziati.
Nel 2006, il leader fece appello dalla prigione perché si avviassero negoziati pacifici per mettere fine al conflitto. Erdogan non vi prestò attenzione perché non voleva fare ai curdi alcuna concessione che gli consentisse di godere della loro cultura tradizionale, incluso permettergli di usare il curdo nelle scuole e università pubbliche, e permettergli di gestire alcuni dei loro affari interni.
Si ammorbidì parzialmente nel 2013 e fece ai curdi delle piccole concessioni incrementando l’istruzione in lingua curda (ma solo nelle scuole private), permettendo i nomi delle località in curdo e abbassando la soglia di sbarramento elettorale per permettere ai curdi e ad altri partiti minori di entrare in parlamento.
Il fallimento del dialogo tra Ankara e i curdi
Durante le numerosi conversazioni che ho avuto con molti deputati e accademici curdi che hanno cognizione del problema curdo, nessuno di loro ha detto che i curdi vogliono l’indipendenza, ma piuttosto determinate libertà socio-economiche e politiche coerenti con la democrazia turca.
Dal canto suo, Erdogan sostiene che i curdi godono già dei pieni diritti di cittadinanza in una Turchia pienamente democratica e che sono pertanto cittadini turchi a tutti gli effetti. Fa orgogliosamente leva sul fatto che il Partito democratico del popolo (una formazione filo curda) ha 59 seggi in parlamento ed è parte integrante dell’organo legislativo.
La sua ostentazione della democrazia turca, tuttavia, non è altro che vuota retorica. A maggio del 2016 ha spinto il parlamento, controllato dall’Ak, ad approvare un disegno di legge per cambiare la costituzione e privare i deputati dell’immunità, mossa evidentemente rivolta contro i principali nemici di Erdogan, i gulenisti e i curdi, aprendo la strada ai processi contro i legislatori filo curdi.
Grazie alla pressione dell’Ue, i colloqui di pace furono inaugurati alla fine del 2012, ma a luglio del 2015 collassarono e ripresero le ostilità tra le forze armate turche e il Pkk, ciascuno pronto ad accusare l’altra parte di aver causato il fallimento dei negoziati.
Tale fallimento, tuttavia, era quasi una certezza. Il parlamento ne era stato tenuto fuori, il pubblico lasciato all’oscuro, le forze armate non avevano idea del processo negoziale, e i negoziati stessi vennero ridotti alle preoccupazioni sul terrorismo piuttosto che alla sostanza delle richieste dei curdi, così che entrambe le parti hanno potuto respingere la responsabilità di aver fatto collassare i negoziati.
Inoltre, dato che le prospettive di ingresso nell’Ue erano quasi morte, Erdogan abortì i negoziati temendo che se avesse mostrato segni di apertura, ciò avrebbe spinto i curdi a chiedere la piena autonomia incoraggiati dai curdi siriani e in particolare quelli iracheni che ne godono.
La situazione attuale
All’indomani del fallito colpo di stato di luglio, Erdogan non ha perso tempo a radunare decine di migliaia di persone dalle forze armate, dal mondo accademico, dagli istituti di ricerca e anche insegnanti collegati con il movimento gulenista. Quindi se l’è presa coi curdi, ritenendo che così facendo avrebbe risolto una volta e per tutte il problema curdo.
Solo di recente, nella città a maggioranza curda di Diyarbakir, il primo ministro Binali Yildirim ha annunciato che circa 14mila insegnanti curdi sarebbero stati sospesi perché in qualche modo legati al Pkk.
La furia di Erdogan contro i curdi è proseguita nonostante gli appelli degli Stati Uniti e dell’Ue per arginare il suo approccio feroce che è arbitrario, come minimo, e rappresenta finanche una violazione dei diritti umani fondamentali.
Il recente appello di Ocalan ad avviare negoziati di pace per la terza volta, e la volontà del Pkk di aderirvi come hanno fatto in passato, poteva essere un’opportunità di mettere fine alle violenze ma Erdogan si rifiuta di prestare ascolto all’appello di Ocalan.
La violenza, qualunque ne sia la ragione, non è accettabile, anche se Erdogan sta usando misure altrettanto violente. Per quanto legittime possano essere le richieste dei curdi, la disobbedienza civile sarà molto più efficace per raggiungere i loro obiettivi politici e varrà loro la simpatia dell’opinione pubblica internazionale, al contrario della resistenza violenta che fa gioco a Erdogan.
Anche se il suo precedente alleato, l’ex primo ministro Ahmet Davutoglu, ha riconosciuto la necessità che la Turchia torni al tavolo negoziale, Erdogan ha respinto questa constatazione per via di un fanatismo nazionalista che getta un’ombra sulla stabilità e il benessere di un paese che presumibilmente vuole tenere al sicuro.
“Non importa quanto sei arrivato lontano lungo una strada sbagliata, torna indietro”
Dopo trent’anni di spargimento di sangue, nessuno dei prerequisiti per la fine del conflitto si è materializzato. Nessuna delle due parti è arrivata al punto di esaurimento, entrambi si aspettano di rafforzare la propria posizione col tempo, e nessun evento catastrofico ha contribuito a cambiare le dinamiche del conflitto, lasciandoli a combattere una lunga guerra che nessuno dei due può vincere.
Erdogan sarebbe saggio a ricordare un proverbio popolare turco che dice “Non importa quanto sei arrivato lontano lungo una strada sbagliata, torna indietro”.
Infatti, a meno che Erdogan non trovi una soluzione negoziale e ascolti l’appello di Ocalan per nuovi colloqui, il conflitto continuerà e sicuramente gli sopravvivrà come è sopravvissuto ai suoi predecessori.
Erdogan non riuscirà a uccidere ogni singolo miliziano del Pkk, non solo perché adottano tecniche di guerriglia, ma in primo luogo per via della determinazione curda nel realizzare una qualche forma di governo quasi autonomo e nel preservare il loro ricco retaggio culturale e linguistico che nessuno di loro sacrificherebbe, non importa quanta sofferenza e dolore costerà.
È ora che Erdogan accetti la realtà del fatto che la soluzione al problema curdo può essere trovata solo attraverso negoziati di pace. Qualsiasi altra cosa porterà solo più morte e distruzione su entrambi i fronti, senza che se ne veda la fine.
— L’analisi di Alon Ben-Meir, professore di relazioni internazionali alla New York University ed esperto di Medio Oriente
— Traduzione a cura di Paola Lepori