Come Trump rischia di mettere in pericolo la soluzione dei due stati e il futuro di Israele
Il commento di Alon Ben-Meir, professore della New York University, dedicato al presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump sul conflitto israelo-palestinese
La nomina da parte del presidente eletto Trump di David Friedman (conosciuto per il suo appoggio agli insediamenti israeliani) come ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, la nomina di Walid Phares (un cristiano maronita noto per essere filo israeliano e per il suo disprezzo per i palestinesi) come consigliere sul Medio Oriente, e l’aver incaricato il genero Jared Kushner (un devoto sostenitore di Israele fresco di nomina come consigliere del presidente) di guidare la ricerca di una soluzione al conflitto israelo-palestinese, sono tutte mosse che suggeriscono un cambiamento importante nella posizione degli Stati Uniti rispetto al conflitto.
Queste nomine, abbinate alla promessa fatta da Trump in campagna elettorale di trasferire l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, potrebbero tradursi in un sostegno illimitato agli insediamenti e all’ulteriore annessione di territorio palestinese. Se questo dovesse accadere, metterebbe in pericolo le prospettive per la soluzione dei due stati e il futuro di Israele come stato ebraico, per non menzionare l’infinita violenza che ne deriverebbe.
Sentiamo già campanelli d’allarme provenire da diverse capitali del mondo arabo. La vittoria dei palestinesi rappresentata dall’adozione della risoluzione 2334 del Consiglio di sicurezza dell’Onu che condanna gli insediamenti israeliani è stata messa in ombra da un senso di profonda apprensione, provocando gravi preoccupazioni tra gli israeliani moderati e gli europei che non sanno cosa aspettarsi e quanto problematica possa diventare la situazione.
Molti membri del governo israeliano si sentono incoraggiati da questi sviluppi. Il ministro dell’Istruzione Naftali Bennett ha chiesto l’annessione del terzo più grande insediamento, quello di Ma’ale Adumin, che si trova a pochi minuti in auto da Gerusalemme est e che praticamente taglierebbe la Cisgiordania a metà e impedirebbe la creazione di uno stato palestinese contiguo.
Ha inoltre supplicato Netanyahu di escludere la creazione di uno stato palestinese durante il primo incontro con il presidente Trump, dicendo che “le prossime settimane presenteranno un’opportunità unica per Israele”.
Per Netanyahu, Trump nelle vesti di presidente è un “dono del cielo”. Ritiene infatti che anche se non riuscirà a convincere Trump a rinunciare all’accordo con l’Iran per via delle ripercussioni internazionali che il presidente eletto non può ignorare, l’amministrazione Trump lascerà che espanda gli insediamenti e renda gradualmente impossibile la costituzione di uno stato palestinese, creando condizioni irreversibili sul terreno.
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Qui l’ironia è che molti di coloro che asseriscono di avere a cuore la futura sicurezza e benessere di Israele non vogliono riconoscere che i palestinesi in Cisgiordania e Gaza non svaniranno. È vero, Israele può costruire cento insediamenti e annettere buona parte della Cisgiordania, ma poi? I palestinesi, il mondo arabo e la comunità internazionale se ne staranno con le mani in mano?
Questi incrollabili sostenitori di Israele dovrebbero essere onesti con loro stessi e chiedersi: dove sarà Israele tra dieci o 15 anni? Sarà uno stato ebraico? Sarà uno stato democratico? Sarà uno stato apartheid? Sarà uno stato per due nazioni? Quale sistema legale governerà la Cisgiordania? Sarà militare o civile? Ci saranno leggi diverse, una per i palestinesi e una per i coloni?
Qual è la visione dei detrattori che si oppongono alla creazione di uno stato palestinese circa i rapporti tra Israele e i palestinesi? Cosa intende dire Netanyahu quando invoca il diritto degli ebrei su tutta la terra di Israele? Bennett ha idea di cosa accadrebbe dopo l’annessione di Ma’ale Adumim, o l’annessione dell’Area C che rappresenta il 61 per cento della Cisgiordania?
Quale sarebbe la reazione degli stati arabi? Netanyahu potrebbe contare sulla loro cooperazione durante la prossima sollevazione palestinese, che è destinata a verificarsi una volta che capiranno che la loro speranza di ottenere uno stato è stata infranta definitivamente? Quale sarebbe l’esito di una nuova guerra a Gaza, e quale sarebbe l’entità del danno collaterale questa volta?
Certo, Israele può occupare nuovamente Gaza e decapitare i leader di Hamas (come ha affermato di recente il ministro della Difesa Lieberman), ma Israele è disposto a governare su 1,8 milioni di palestinesi? A quale prezzo, in termini di sangue ma anche economici? E se non lo è, cosa succederà la prossima volta che i missili cominceranno a piovere quotidianamente, terrorizzando ogni singolo israeliano?
La tecnologia e le capacità dell’antiterrorismo di Israele di cui si vanta Netanyahu possono portare la pace? E come? Gli stati arabi dimenticheranno le preghiere dei palestinesi solo perché al momento collaborano con Israele in materia di sicurezza e intelligence per ridurre la minaccia rappresentata dall’Iran?
Infine, Netanyahu, Bennett e consimili hanno preso nella dovuta considerazione lo sdegno internazionale, le condanne e le sanzioni che seguiranno e quanto isolato sarà Israele? Hanno pensato a ciò cui saranno sottoposti gli ebrei nel resto del mondo? L’antisemitismo si intensificherà e le imprese e organizzazioni ebraiche sarà considerate obiettivi legittimi del terrorismo.
La giovane generazione di ebrei sarà ulteriormente alienata, e sempre meno di loro immigreranno in Israele. Non vedranno più nello stato di Israele un porto sicuro per gli ebrei bensì come un peso, e non vorranno arruolarsi nell’IDF (l’esercito israeliano, ndt) per vedersi assegnati i compiti di opprimere i palestinesi e negare loro il diritto di essere liberi.
Quello che molti uomini e donne israeliani folli dentro e fuori dal governo (come Netanyahu, Bennett, Lieberman, il ministro della Giustizia Ayelet Shaked, il ministro della Cultura Miri Regev e i loro associati) si rifiutano di considerare è che possono manipolare, manovrare, gestire o rovinare i palestinesi solo fino a un certo punto, ma non possono controllarli per sempre.
Netanyahu in particolare usa con sapienza le tattiche della paura e approfitta dell’istigazione violenta palestinese per corroborare la sua affermazione che non sono interessati alla pace.
La loro menzogna più sfacciata è l’affermazione secondo cui una volta che Israele avrà evacuata la Cisgiordania, i territori diventeranno un’altra Gaza (una ‘hamastan’), un terreno da cui verranno lanciati missili e attacchi terroristici, quando di fatto il ritiro da Gaza è stato unilaterale senza alcun coordinamento con l’Autorità Palestinese al governo di Gaza dell’epoca.
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La dipendenza economica dei palestinesi della Cisgiordania da Israele, e la cooperazione in materia di sicurezza, non cesseranno una volta raggiunto un accordo di pace. Israele è e rimarrà essenziale per la vita economica dei palestinesi per i decenni a venire.
I palestinesi vogliono l’indipendenza politica ma non possono, né vogliono, semplicemente divorziare da Israele proprio a causa di questi legami. Sanno della collaborazione di Giordania e Egitto con Israele in queste aree e in che misura beneficiano della pace con lo stato ebraico
Tuttavia non esento nemmeno per un momento i palestinesi dalle loro responsabilità. È ora che smettano di vivere nel passato; la violenza e l’acredine contro Israele non faranno altro che privarli di ciò che più desiderano: uno stato indipendente. Devono essere pronti a pagare il prezzo della libertà.
Devono imparare a prendersi le proprie responsabilità, ripulire il loro sistema politico dalla corruzione e costruire le infrastrutture e istituzioni di uno stato. Soprattutto, devono smettere di avvelenare la prossima generazione di palestinesi contro Israele, dato che non farebbe che vittimizzare i giovani e privarli di un futuro migliore e più promettente.
Prima di consigliare il presidente su come trattare la questione del conflitto israelo-palestinese, Friedman, Phares e Kushner devono rispondere a tutte queste domande, che hanno tanta parte nel futuro stesso di Israele. Credo fermamente che tutti loro abbiano a cuore Israele e vogliano fare tutto ciò che possono per assicurargli sicurezza e prosperità, nella pace con i vicini.
Ma è qui che il “duro amore” è più necessario. Come disse Nietzsche: “Questa è la cosa più ardua: per amore chiudere la mano aperta e avere pudore di donare”.
Questo è il nodo cruciale. Proprio per tenere fede al loro impegno verso il benessere di Israele, devono pensare attentamente alle ripercussioni se consigliano al presidente di mantenere la promessa fatta in campagna elettorale di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme, senza riconoscere simultaneamente il diritto dei palestinesi a stabilire la propria capitale a Gerusalemme est una volta che la pace sarà stata conseguita.
Devono considerare con attenzione le implicazioni dell’annessione di Ma’ale Adumin senza uno scambio di terreni che garantisca al futuro stato palestinese la contiguità territoriale. Devono essere straordinariamente cauti a non consegnare a Netanyahu un assegno in bianco per espandere gli insediamenti e affondare la soluzione dei due stati, mettendo il futuro di Israele in pericolo.
Da persona abile negli affari, Trump sa che nessuna azione unilaterale di una delle parti può suggellare una trattativa. Un accordo tra Israele e i palestinesi deve essere equo – un approccio a somma non zero che risponda alle aspirazioni di entrambi i popoli, specialmente perché non hanno altra scelta se non convivere. Il loro destino, volenti o nolenti, è intrecciato: o vivono in pace e armonia o nella violenza perpetua, morte e distruzione. Nessuno dei due può averla vinta.
E qui entra in gioco lei, Trump, che può rivestire un ruolo storico. Come mediatore, la imploro, non dia a Netanyahu ciò che vuole. Se lo fa, priverà la stragrande maggioranza degli israeliani e dei palestinesi di tutto ciò a cui aspirano e metterà in moto un ciclo inarrestabile di violenza che non risparmierà nessuno, decide di anni di altro dolore, agonia, morte e distruzione. Per un buon accordo, un accordo sostenibile, si deve essere pronti a prendere e dare; ciascuna parte deve fare le concessioni necessarie e creare le basi di interessi in comune perché sia durevole.
Kushner è il meno zelante, conosce bene la scena israeliana e comprende che qualsiasi cosa che non sia una pace giusta sarà a detrimento di Israele. Possiamo solo sperare che, come alto consigliere, userà la sua influenza per convincere il presidente Trump a fare un accordo che tutti i suoi predecessori non sono riusciti a raggiungere.
Come il visionario David Ben Gurion, che è stato il fondatore dello stato di Israele e il suo primo premier, ha detto: “Meglio uno stato ebraico su parte della terra che tutta la terra senza uno stato”.
— Analisi di Alon Ben-Meir, professore di relazioni internazionali ed esperto di Medio Oriente alla New York University
— Traduzione a cura di Paola Lepori
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