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“La politica estera di Biden è più efficace di quella di Trump, ma è troppo presto per dire se avrà successo”

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Come hanno influito gli "accordi di Abramo" del 2020 sulla politica mediorientale? Quali sono state le implicazioni per l'Italia e l'Europa? E ancora che cosa è cambiato nella politica estera Usa da quando si è insediato Biden? TPI ne ha parlato con il giornalista e scrittore statunitense Alan Friedman

Il 15 settembre 2020 a Washington i rappresentanti di Israele, Emirati Arabi (EAU) e Bahrein hanno firmato gli “accordi di Abramo”, protocolli sostenuti fortemente dall’allora amministrazione Trump per promuovere la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra lo Stato ebraico e i due paesi del Golfo. Successivamente si sono aggiunti Marocco e Sudan accennando all’opportunità che tale formato negoziale possa, nel breve periodo, coinvolgere altri attori del quadrante geopolitico noto come “Mediterraneo allargato”, facilitando il raggiungimento di una condizione più stabile di pace e benessere nella regione.

Tali accordi, quindi, rappresentano un “vasto contenitore” il cui riempimento è sicuramente un’operazione in divenire e non un processo chiuso, un modello di integrazione regionale potenzialmente replicabile su cui l’Italia è chiamata a tutelare i propri interessi nazionali e su cui si attesta l’attenzione dell’Unione Europea.

Come sappiamo la regione del “Mediterraneo allargato” ha subito importanti trasformazioni dall’intervento della coalizione internazionale a guida statunitense in Iraq nel 2003 ai mutamenti successivi che hanno cambiato il panorama socio-economico e culturale di questa regione. A partire dal 2011 il fenomeno delle “Primavere arabe” ha mostrato ulteriori cambiamenti che hanno portato al rovesciamento di regimi politico-istituzionali e a fenomeni “transazionali” come l’esplosione della crisi migratoria e il terrorismo. Gli “accordi di Abramo” sembrano quindi essere volti a migliorare l’equilibrio regionale e i sistemi politico-istituzionali esistenti.

Le ragioni principali che hanno spinto i Paesi firmatari degli accordi di Abramo a normalizzare le relazioni diplomatiche con Israele e il contesto della politica americana di Donald Trump entro il quale sono stati promossi gli accordi. La politica mediorientale dell’attuale amministrazione Biden e le implicazioni per l’Italia e l’Europa. Ne abbiamo parlato con Alan Friedman, giornalista e scrittore statunitense.

Quali sono secondo lei le ragioni principali che hanno spinto i Paesi firmatari degli “accordi di Abramo” a normalizzare le relazioni diplomatiche con Israele?
Gli “accordi di Abramo” sono nati su iniziativa di Jared Kushner, imprenditore statunitense e genero di Donald Trump, cui l’ex presidente ha affidato la “pace nel Medioriente”. Jared Kushner, senza esperienza diplomatica conosceva comunque quella parte del mondo mediorientale – Dubai, Abu Dhabi e Qatar –  per via di precedenti contatti con gli sceicchi degli Emirati nell’intento di attrarre investimenti. Kushner aveva, diciamo, una dimestichezza con il Golfo ed è andato lì in Israele da Benjamin Netanyahu che aveva un rapporto molto “forte” con Donald Trump proponendo la “normalizzazione” dei rapporti di business, di affari e pure di armi che esistono già da parecchio tempo fra Israele e Dubai, per esempio, o fra Israele e Marocco, o Israele e Sudan.

Visto che questi Paesi hanno accettato di non parlare della questione palestinese – sempre al centro della pace in Medioriente – qui assistiamo ad una normalizzazione basata sulla realpolitik e sugli affari, e questo è stato presentato da Trump come un grande trionfo. Sicuramente è stato un passo positivo, nell’area, coinvolgere paesi come il Bahrein e gli altri Paesi del Golfo nell’aprire a Israele e ai suoi ambasciatori e firmare accordi formali di cooperazione. Detto questo, non è che il resto del mondo mediorientale abbia avuto grandi ripercussioni rispetto alla formalizzazione di quanto, in sostanza, era in essere de facto. 

Gli Stati Uniti, e in particolare l’allora amministrazione Trump, sono stati i principali promotori di questi accordi. Quale era quindi il contesto della politica americana di Donald Trump entro il quale sono stati promossi gli accordi?
Bisogna interpretare gli “accordi di Abramo” come l’eccezione della politica estera di Donald Trump in Medio Oriente, per il resto infatti l’ex presidente americano “se n’è lavato le mani” rispetto i problemi dell’area. Il caso più “chiassoso” di tutti è il caso della Siria, dove addirittura Trump ha ritirato le truppe senza preavviso lasciando occupare le basi americane in Siria alla Russia di Putin, un qualcosa di incredibile e mai visto.

Trump si è disimpegnato anche dalla crisi libica, ha lasciato che la Turchia e la Russia inviassero nel Paese nordafricano i loro mercenari. Per cui, a parte il grande appoggio dato a Benjamin Netanyahu, la formalizzazione dei territori occupati della Cisgiordania che Trump ha caldeggiato, per il resto è stato assente o dannoso lasciando sia a Putin sia a Recep Erdoğan più spazio e più influenza degli Stati Uniti nell’area. 

Come dobbiamo leggere, invece, l’approccio dell’attuale amministrazione Biden agli “accordi di Abramo”? E, più in generale, come si inseriscono questi nella politica mediorientale di Biden?
Biden rimane un alleato di Israele, ma è un alleato più critico ovviamente, Trump dava il proprio appoggio a Netanyahu in maniera incondizionata, ed il risultato è che Israele ha ottenuto più territori in quegli anni, si è comportato non bene con i palestinesi. Biden cerca di lavorare con l’Europa, cerca di orchestrare una cooperazione tra le diverse anime dell’Unione Europea insieme agli Stati Uniti per proteggere Israele ma anche per portare avanti valori di giustizia sociale per i palestinesi, questa è una grande differenza rispetto all’amministrazione precedente.

Per quanto riguarda la Libia Biden è molto più attivo ed ha affidato a Mario Draghi il suo appoggio per trovare una soluzione, in Siria Biden non si è ancora impegnato anche perché è occupato con la crisi ucraina che Putin sta provocando. Diciamo che la politica mediorientale di Biden, a differenza di Trump, è meno “mercantile”, Biden non va in Arabia Saudita a fare la “danza delle spade” con il principe che ha ucciso il giornalista Jamal Khashoggi come Trump.

Biden invece cerca di portare avanti qualcosa di più, forse il punto più importante per il nuovo presidente degli Stati Uniti nell’area è la dinamica fra Iran e Arabia Saudita da un lato e, dall’altro, la dinamica in cui Washington cerca di mettere sotto pressione Riad a non fare genocidi nello Yemen, nell’ambito di una guerra civile dove l’Arabia Saudita sta fornendo armi e appoggio logistico. Nel complesso quindi una politica estera più efficace rispetto quella di Trump ma è troppo presto per dire che Biden avrà successo o meno.

Per l’Italia e l’Europa che tipo di implicazioni stanno emergendo dalla firma degli “accordi di Abramo”?
Io credo che l’Italia con Mario Draghi a Palazzo Chigi è un Paese che sa agire a livello internazionale, a livello globale, Draghi è forse il primo vero statista a capo di un governo italiano dai tempi di Alcide De Gasperi. Draghi è molto attento al Medio Oriente, l’Europa però mostra un atteggiamento poco efficace nell’ambito di quell’area. I giochi sono soprattutto fra Washington, Mosca, Ankara, Riad se vogliamo e poi i Paesi del Golfo. L’Europa non ha molta “voce in capitolo” in questo teatro, è questo perché l’Europa sul Medio Oriente preferisce non occuparsi troppo ma il problema è che per l’Europa Medio Oriente significa “rifugiati”. Il risultato della politica estera di Trump in Medio Oriente è stato proprio l’arrivo dei rifugiati in Europa. 

Leggendo il testo degli accordi, a fianco al piano strettamente politico-strategico, nelle intenzioni iniziali dei Paesi firmatari sembra esserci il tentativo di dare grande importanza alla cooperazione People-to-People, ovvero alla cooperazione tra rispettive comunità nazionali. A un anno e mezzo dalla loro firma, che valutazione possiamo tracciare su quest’ultima dimensione?
Un anno e mezzo dopo la firma degli “accordi di Abramo” possiamo senza dubbio affermare che c’è stata una “normalizzazione” nella sfera economica e commerciale, nella cooperazione scientifica, culturale e sportiva. Vediamo tante mostre a cura di artisti israeliani a Dubai, e viceversa, ci sono intensi scambi diplomatici. È positivo insomma, non credo abbia un impatto così forte sulla geopolitica dell’area, credo che sia un by the way.

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