Françafrique, David Martin (Survie) a TPI: “L’impero coloniale francese non è mai morto”
Dipendenza economica, debito e cooperazione militare. Malgrado i golpe e l’ascesa di Cina, Russia e Turchia, Parigi ha ancora forti legami con le ex colonie. Come spiega a TPI, David Martin, esperto dell’ong francese Survie
La Françafrique è morta?
«Sono anni che sento annunciarne la fine: non solo dai presidenti François Hollande ed Emmanuel Macron, ma prima ancora da Jacques Chirac e da François Mitterrand. Ma la Françafrique è un sistema di potere e al contempo un metodo di controllo, che permette alla Francia di continuare a sfruttare i legami privilegiati con le ex colonie e di rivestire una posizione importante sulla scena internazionale. Nel tempo si è evoluta dal governo diretto di questi Paesi a un dominio molto più sottile, che è ancora in atto. Dall’indipendenza delle ex colonie ad oggi è stato costantemente rimodellato e può assumere varie forme».
Quali?
«Il franco CFA, per cominciare: circola in 14 Paesi africani. Ha una chiara origine coloniale e non aiuta lo sviluppo delle economie locali. Poi c’è la cooperazione militare».
Un aspetto ormai messo in discussione dal ritiro annunciato da Macron in Niger.
«In Niger, Burkina Faso e Mali è più difficile e sembra si stia concludendo, ma in altri Paesi continua, assumendo una forma visibile e una meno conosciuta».
Si spieghi meglio.
«Da un lato, c’è la presenza delle truppe sul campo, la forma più visibile di cooperazione militare: l’abbiamo visto tutti con le operazioni Serval e Barkhane. D’altra parte però ci sono gli istruttori militari, inquadrati all’interno degli eserciti dei vari Paesi a cui offrono servizi di consulenza e addestramento. Senza parlare della fornitura di armi ed equipaggiamento alle forze armate delle ex colonie».
Perché allora si parla di declino dell’influenza francese?
«Perché altri Paesi guadagnano influenza nella regione. Turchia, Cina, Russia e altre nazioni offrono agli Stati africani nuove opportunità di collaborazione economica. È la competizione internazionale, che è l’essenza dell’attuale sistema economico mondiale. Quando nuovi attori entrano in gioco, tolgono spazio ai precedenti. Ma le cifre raccontano un’altra storia».
Quale?
«La quota di mercato delle aziende francesi nei Paesi africani si è ridotta, ma in termini assoluti il valore di tali quote è tuttora in aumento e la volontà della potenza francese di mantenere la propria influenza su questi Stati è rimasta inalterata».
Cos’è cambiato allora?
«La Françafrique si sta riconfigurando, allargandosi a Paesi che non erano parte delle colonie francesi».
Ci fa un esempio?
«L’Africa orientale. Total Energy, la principale compagnia petrolifera nazionale, è sempre più attiva in Uganda e Mozambico e sta aumentando la sua influenza in questi Paesi, anche se non sono di lingua francese».
Nuove conquiste?
«Macron ha anche ristabilito buone relazioni con il Ruanda, dove la Francia aveva una pessima reputazione a causa del ruolo giocato dai suoi militari e funzionari durante il genocidio dei Tutsi nel 1994. È riuscito ad avviare una nuova collaborazione a livello economico e militare con un Paese anglofono, sempre più importante per avere influenza in Africa».
Intanto però l’immagine francese sembra compromessa nelle ex colonie.
«Le popolazioni civili sono stremate dai governi sostenuti da Parigi e questo ha alimentato il rifiuto nei confronti della Francia. Soprattutto a causa del disastro economico causato da leader che non hanno migliorato il benessere dei loro popoli».
La cooperazione non ha portato sviluppo?
«Noi di Survie abbiamo analizzato il debito come uno degli strumenti di dominio economico sfruttati dalla Francia e dai Paesi occidentali in generale. Su questo tema non c’è stato alcun cambiamento. Ad oggi, ad esempio, quasi il 15% delle entrate del Niger serve per rimborsare i prestiti internazionali. È un carico molto gravoso per il bilancio dello Stato africano che, per l’Onu, è il secondo più povero al mondo in termini di sviluppo umano. Malgrado le vaste risorse minerarie che possiede, come l’uranio, e gli aiuti internazionali, la vita della popolazione non è migliorata».
Perché?
«Perché questi aiuti sono sempre condizionati ad altre opportunità economiche offerte alle aziende francesi e di altri Paesi occidentali. Quando parliamo di cooperazione economica, spesso si tratta di progetti condotti da imprese europee, preferibilmente le stesse con cui questi Stati sono già indebitati. È un circolo vizioso: prestiamo denaro a questi Paesi per finanziare progetti infrastrutturali da far realizzare alle nostre stesse aziende».
È un problema anche dei media?
«Naturalmente. Per il pubblico può essere difficile avere accesso alle informazioni su quanto accade veramente in Africa, specie se i media sono di proprietà di società con interessi in questi Paesi, come ad esempio il gruppo Bolloré. È pur vero che tante testate producono analisi critiche su questa situazione. Ma è anche una questione di identità».
In che senso?
«La Francia ha costruito la propria identità nazionale anche attraverso il possesso delle colonie ed è per questo che la Françafrique continua a esistere perché in realtà il Paese non ha mai del tutto abbandonato l’idea di un proprio impero ed è ancora disposto a mantenerlo. Per la Francia, l’Africa è la chiave per la sua influenza mondiale».
Gli aiuti e gli investimenti promessi servono a questo scopo?
«Il problema principale è che, nella maggior parte dei casi, queste opere non portano a un vero sviluppo e non migliorano l’accesso delle persone all’acqua, all’energia, all’istruzione e alla salute. Mentre è proprio questo ciò di cui avrebbero davvero bisogno quei Paesi».
Parigi non è la sola a usare questi metodi.
«No, ma la Francia ha un vantaggio, diciamo, istituzionale».
Cioè?
«Guardiamo alle norme fiscali, fondiarie, minerarie o che regolano il sistema giudiziario nelle ex colonie. Sono tutte “copiate” dal sistema francese e questo chiaramente è un vantaggio per le nostre aziende. Nessuno, né la Cina né la Turchia né la Russia possono vantare questo genere di influenza nei Paesi francofoni».
Anche le nuove potenze però cercano di guadagnare influenza in Africa.
«Molti Paesi dell’area intrattengono forme di cooperazione economica con la Cina e la Russia, che stanno ottenendo terreni, autorizzazioni minerarie, eccetera. Naturalmente sono interessate a investire e stanno realizzando anche loro importanti progetti infrastrutturali, ma non stanno cercando di strutturare le società locali e i sistemi economici, legali e finanziari a propria immagine».
Giorgia Meloni propone il “Piano Mattei” per lo sviluppo, anche infrastrutturale, del continente e persino Macron sembra d’accordo. Può essere una soluzione per frenare i flussi migratori?
«Da quanto ho capito, la proposta di Meloni pone l’accento soprattutto sull’energia e in particolare sul garantire all’Italia un approvvigionamento stabile di idrocarburi, visto il venir meno delle forniture russe per la guerra in Ucraina. Anche Macron ha sottolineato la necessità di inviare aiuti allo sviluppo ai Paesi africani per frenare l’immigrazione in Europa. Ma sono cose che si dicono da 40 anni».
È una ricetta che nasce già vecchia?
«Il mantra è: “Aiutiamo questi Paesi e il loro livello di vita migliorerà”. Ma negli ultimi 50 anni il loro indice di sviluppo è diminuito. La soluzione non è inviare aiuti in cambio delle risorse locali. Ciò che aiuterebbe davvero questi Paesi è permettere loro di prendere in mano il proprio destino e di controllare direttamente i profitti generati dallo sfruttamento delle proprie risorse».
Come?
«Prendiamo il Gabon, dove recentemente è avvenuto un colpo di stato. Il Paese ha un’importante produzione petrolifera ma ottiene meno del 20% dei proventi del petrolio estratto a livello nazionale: è un pessimo affare. Ma è qui il punto, se potessero trarre profitto da queste attività potrebbero svilupparsi e prendere in mano il proprio destino».