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Perché l’Afghanistan è la tomba degli imperi: storia di un fallimento occidentale

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Credit: ANSA

Sintesi del dialogo con il professor Gaetano Sabatini, ordinario di Storia economica dell’Università Roma Tre e direttore dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea (Isem) del Cnr

Perché l’Afghanistan è la tomba degli imperi: storia di un fallimento occidentale

Per capire cosa è accaduto negli ultimi venti anni in Afghanistan e perché si è arrivati a questa ingloriosa ritirata degli Stati Uniti d’America e dei suoi alleati occidentali abbiamo interpellato il professor Gaetano Sabatini, ordinario di Storia economica dell’Università Roma Tre e direttore dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea (Isem) del Cnr. Di seguito un riassunto del nostro dialogo.

“Il contributo dello storico e più in generale dello scienziato sociale alla riflessione che in questo momento sta accompagnando la triste conclusione della presenza occidentale in Afghanistan avviatasi con l’invasione del 2002 deve innanzitutto partire dall’utilizzo di alcune categorie concettuali”.

La democrazia non si “esporta”

“Sebbene nel discorso del presidente Biden che aveva per oggetto la conferma del ritiro delle truppe si sia insistito sul concetto di ‘tutela degli interessi americani’ attraverso la ‘lotta al terrorismo’, il concetto di ‘esportare’ la democrazia è sempre intimamente legato all’operazione militare in Afghanistan e ad altri interventi, come quello in Iraq. Ebbene, questo concetto è stato usato e abusato. Questa categoria concettuale, infatti, indica una visione radicalmente sbagliata di quella che è la possibilità di diffusione della democrazia. Si esportano scarpe, ortaggi, beni materiali, ma dei valori come quelli della democrazia possono essere soltanto soggetti a un processo di lenta e capillare diffusione”.

La mancanza di una mediazione culturale

“Da questa prima categoria concettuale (la ‘esportazione della democrazia’, ndr) ne discende automaticamente una seconda, che possiamo ricomprendere nell’espressione ‘mediazione culturale’. Ciò che sembra essere gravemente mancato in questi venti anni di presenza occidentale in Afghanistan è appunto la mediazione culturale”.

“È stato detto e ripetuto che la presenza occidentale in Afghanistan ha visto l’addestramento dell’esercito, la costruzione delle infrastrutture, si sottolinea che Kabul ha oggi centri commerciali, alberghi, ristoranti, negozi di informatica dove si possono comprare Iphone. Ma è stato detto molto poco – e quindi si può immaginare che sia stato anche fatto molto poco – sulla creazione di una coscienza e di cultura sensibile a valori che vengono generalmente identificati con l’Occidente”.

La necessità di studio, educazione e formazione

“Quando viene avviato il Piano Marshall in Europa all’indomani della Seconda guerra mondiale, è noto che gli Stati Uniti hanno portato – e in certa misura hanno continuato a portare – migliaia di giovani destinati a essere i ceti dirigenti delle nazioni europee a formarsi nelle università americane, a costituire in altre parole un ceto formato, sia tecnicamente ma anche culturalmente, a dei valori che possono necessariamente trovare la loro espressione poi nella creazione delle strutture democratiche”.

“Quanti giovani afghani provenienti da ceti destinati a fare di loro dei rappresentanti di gruppi dirigenti sono stati educati in istituzioni occidentali nel corso degli ultimi 20 anni? Quante università occidentali hanno aperto delle loro sedi con il sostegno dei rispettivi governi in Afghanistan? Quante scuole, quanti centri di formazione professionale, sono stati creati? Se la mediazione culturale non passa attraverso un’opera di educazione lenta e capillare, come ci si può aspettare che questa generi da sola una trasformazione delle mentalità?”.

“Il punto successivo su cui riflettere è che certamente esiste una universalità dei valori dell’uomo, della dignità umana, del rispetto della sua integrità fisica e, in particolare nella vicenda afghana, della condizione femminile, ma sappiamo anche che questi valori dovrebbero essere accordati con manifestazioni culturali che sono profondamente diverse da paese a paese, pur mantenendo il carattere universale di questi valori”.

“Ciò che sembra essere mancato nella vicenda afghana è appunto un’opera di formazione, di educazione, che non imponesse dall’alto e in modo astratto valori non sentiti ma che li accordasse con valori culturali, antropologici e sociali propri della condizione della storia di quel popolo”.

L’errore del “nation building”

“Un altro concetto su cui riflettere è il cosiddetto ‘nation building’. È stato spesso ripetuto che ciò che è mancato in Afghanistan è stato il processo di costruzione di una nazione, ma il problema è che il concetto di nazione è a sua volta un concetto squisitamente occidentale. Parlare di nazione in Afghanistan è un abuso concettuale. Perché sappiamo bene che nel caso dell’Afghanistan ci troviamo davanti a una regione dall’orografia impervia dove convivono gruppi etnici, religiosi e culturali molto diversi tra di loro”.

“Non sono una nazione, che semmai è il punto di arrivo di un percorso fortemente legato alle condizioni storiche, ma possiedono una base clanica, tribale ed etnica e di conseguenza quelle istituzioni che dovrebbero esprimere i valori delle forme democratiche devono tener conto di questo elemento. Come, ad esempio, si è tentato di fare in Libano”.

Non è una “guerra civile”

“Un altro concetto usato e abusato è quello di guerra civile. Non si tratta infatti di una guerra all’interno di una stessa nazione, bensì di un mosaico etnico e identitario con gruppi che combattono gli uni contro gli altri non da oggi. Nella lettura della vicenda afghana sembra essere radicalmente mancata una conoscenza della reale identità di questo Stato, la necessità di accordare una presenza militare con un percorso di formazione di ceti dirigenti e in generale un percorso di educazione laddove possibile di tutta popolazione, la necessità di guardare con il realismo che impone un cambiamento così radicale e apparentemente da parte dei principali attori inaspettato”.

La Cina e la “tomba degli imperi”

“Il vero elemento di novità: il ruolo che potrebbe giocare la Cina in questo mutato scenario rispetto a 20 anni fa. Non bisogna dimenticare la definizione di Afghanistan come ‘tomba degli imperi’. In realtà dagli scontri della Russia zarista e dell’India imperiale britannica e le sue proiezioni verso nord di metà e seconda metà Ottocento, si può evincere che l’Afghanistan ha una straordinaria capacità di resistere alle potenze straniere”.

“La Cina sembra per ora contraccambiare la neutralità del governo talebano verso le minoranze musulmane dentro la Cina (come gli Uiguri) in cambio di istruzione nell’utilizzo degli armamenti lasciati dagli occidentali sul territorio afghano e la creazione di infrastrutture. Ma ci vuole prudenza, perché un accordo Cina-Talebani non è così certo”.

“Vanno considerate infatti sia le componenti religiose presenti nell’identità dei Talebani, che potrebbero spingere il gruppo al potere ad andare oltre rispetto agli accordi con la Cina, sia le altre componenti che all’interno dell’Afghanistan avversano i Talebani e che potrebbero diventare esse stesse sponde per gli Uiguri. La visione della storia prevede dunque molta prudenza”.

LEGGI ANCHE: Dario Fabbri a TPI: “Chi scappa dall’Afghanistan è una minoranza. Le tribù hanno scelto i talebani”

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