“Afghanistan, quando è svanita la speranza”: diario da Kabul del corrispondente Afp morto in un attentato
Il 30 aprile 2018 il fotografo dell'agenzia stampa francese Afp, Shah Marai, è morto in un triplice attentato a Kabul. Pubblichiamo un suo prezioso estratto del blog redatto per "Afp Corrispondenti" in cui descrive gli anni trascorsi in Afghanistan
Il 30 aprile 2018 un triplice attentato ha colpito Kabul nella zona dove sono ubicate la Nato e varie altre istituzioni internazionali. Almeno 42 persone sono morte, tra cui 10 giornalisti.
Tra le vittime c’è anche il fotografo dell’agenzia stampa francese Afp, Shah Marai, ucciso nella seconda esplosione mirata a colpire proprio i giornalisti.
Shah ha cominciato a lavorare per Afp nel 1996 come autista, quando in Afghanistan il potere era ancora nelle mani dei talebani.
Nel 2002 era diventato un fotografo a tempo pieno, facendo carriera fino a diventare capo fotografo dell’ufficio di Kabul.
Lascia una famiglia di sei figli, tra cui una bambina appena nata.
“È un colpo devastante, per il coraggioso staff del nostro affiatato ufficio di Kabul e per l’intera agenzia”, ha commentato il direttore Michele Leridon in una nota.
“Possiamo solo onorare la forza, il coraggio e la generosità di un fotografo che ha trattato eventi spesso traumatici e orribili con sensibilità e professionalità consumata”.
Un tributo al suo impegno arriva con parole scritte da lui stesso: un saggio del 2016 stilato per il blog dell’”Afp Corrispondenti” che rivela anche la sua perdita di speranza per l’Afghanistan.
Quando la speranza è persa, di Sha Marai
Kabul. Il periodo che seguì l’invasione americana fu un momento di grande speranza. Gli anni d’oro. Dopo l’oscurità del dominio talebano, l’Afghanistan sembrò finalmente essere sulla strada di una vita migliore. Ma oggi, 15 anni dopo, quella speranza è svanita e la vita sembra ancora più difficile di prima.
Ho iniziato a lavorare come fotografo per Afp sotto i talebali, era il 1998.
Odiavano i giornalisti, ragione per cui ero sempre molto discreto. Ho adottato diverse precauzioni come indossare il tradizionale abito shalwar kameez ogni volta che uscivo, o scattare foto con una piccola fotocamera che tenevo nascosta in una sciarpa avvolta intorno alla mano.
Le restrizioni dei talebani rendevano estremamente difficile il lavoro: era proibito, per esempio, fotografare tutti gli esseri viventi, sia animali che uomini.
Un giorno stavo fotografando una fila di persone fuori da una panetteria. La vita in quel momento era difficile, le persone erano senza lavoro, i prezzi dei beni erano saliti alle stelle. Alcuni talebani mi si avvicinarono.
“Cosa fai?” mi chiesero.
“Niente”, risposi. “Sto fotografando il pane!”
Fortunatamente questo accadeva nell’era precedente alle fotocamere digitali, quindi non poterono controllare che stessi dicendo la verità.
Afp all’epoca non aveva un vero e proprio ufficio, avevamo una casa nello stesso quartiere, Wazir Akbar Khan, dove ancora oggi lavoriamo. Gli inviati speciali arrivavano seguendo le turnazioni, e di volta in volta andavamo in prima linea nella pianura di Shomali, dove l’Alleanza del Nord si opponeva ai talebani.
A parte la Bbc, solo tre agenzie – Afp, AP e Reuters – erano rimaste in città. Poi, nel 2000, tutti gli stranieri furono finalmente cacciati e io fui lasciato in pace a mantenere il “presidio” nell’ufficio di Afp.
Vidi gli attacchi dell’11 settembre 2001 alla Bbc, senza pensare nemmeno per un secondo che ci sarebbero state ripercussioni sull’Afghanistan. Fu l’ufficio di Islamabad che mi avvertì alcuni giorni dopo: “Secono indiscrezioni gli americani attaccheranno”.
Gli attentati iniziarono meno di un mese dopo, il 7 ottobre, per colpire la città di Kandahar vicino al confine pakistano, che i talebani avevano fatto diventare la loro capitale.
Ero nel bel mezzo di una telefonata con l’ufficio di Islamabad quando sentii gli aerei su Kabul. Le prime bombe erano state lanciate vicino l’aeroporto. Quella notte non dormii, ma non potei uscire.
Il mattino seguente mi diressi all’aeroporto con la mia auto. Non lontano da lì, mi imbattei in un gruppo di diverse dozzine di combattenti talebani, vestiti di nero.
Uno di loro si avvicinò a me. “Ascolta, sono buono oggi, quindi non ti ucciderò, ma esci subito da qui”.
Tornai indietro e lasciai la macchina in ufficio. La città era deserta. Feci lo stesso percorso in bici, come una persona qualunque e una sciarpa avvolta intorno alla mano per nascondere la macchina fotografica. Quel giorno scattai sei foto, solo sei. Ne mandai solo due.
Poi una mattina, i talebani se n’erano andati, svanendo nel nulla. Avresti dovuto vederlo. Le strade erano piene di gente. Era come se le persone uscissero dall’ombra nella luce della vita.
I colleghi giornalisti iniziarono ad arrivare a frotte. Afp inviò subito un giornalista e un fotografo di Mosca e prima che te ne potessi accorgere, eravamo in una dozzina. Kabul divenne “Journalistan”. L’ufficio non rimase mai vuoto.
Fu incredibile vedere tutti quegli stranieri dopo i tanti anni di isolamento sotto i talebani. Venivano da ogni parte del mondo. I bambini correvano loro incontro nelle strade.
Ricordo un giovane con in mano un dollaro che ripeteva all’infinito: “È il primo dollaro che abbia mai avuto!”
Era un momento di grande speranza. Gli anni d’oro. Nessun combattimento in città. Le strade erano piene di truppe provenienti da Regno Unito, Francia, Germania, Canada, Italia, Turchia. I soldati pattugliavano la città a piedi, salutando, rilassati e sorridenti. Potevo fotografarli quanto volevo.
Si poteva viaggiare in qualunque direzione: a sud, a est, a ovest. Ovunque eri al sicuro.
Poi, nel 2004, i talebani tornarono. Prima nella provincia di Ghazni nel sud-est. Poi nel 2005 e nel 2006, iniziando a diffondersi come un virus. Iniziarono gli attacchi a Kabul, prendendo di mira luoghi frequentati da stranieri. La festa era finita.
Oggi i talebani sono di nuovo ovunque e siamo bloccati a Kabul per la maggior parte del tempo. I T-Walls, quei blocchi di cemento progettati per proteggere dalle auto e dai camion, sono germogliati in tutta la città.
Le persone non sono più amichevoli verso chi possiede una macchina fotografica. Spesso diventano aggressivi. La gente non si fida di nessuno, specialmente di qualcuno che lavora per un’agenzia di stampa straniera: “sei una spia?”, chiedono.
Non c’è più speranza
Quindici anni dopo l’intervento americano, gli afghani si ritrovano senza soldi, senza lavoro, solo con i talebani alle loro porte. Con il ritiro delle truppe occidentali nel 2014, molti stranieri se ne sono andati, così come i miliardi di dollari versati in questo paese.
Ho nostalgia di quegli anni, subito dopo l’arrivo degli americani. Naturalmente la città è cambiata molto dal 2001. Sono stati costruiti nuovi edifici, grandi viali hanno sostituito le piccole strade. I segni della guerra sono quasi scomparsi – tranne per il vecchio palazzo reale di Darulaman, non si vede più la rovina della città. I negozi sono pieni e puoi trovare quasi tutto.
Ma non c’è più speranza. La vita sembra essere ancora più difficile rispetto al periodo dei talebani, a causa dell’insicurezza. Non oso portare i miei bambini a fare una passeggiata. Ne ho cinque e passano il loro tempo rinchiusi in casa.
Ogni mattina mentre vado in ufficio e ogni sera quando torno a casa, penso solo alle auto che possono essere trappole esplosive, o ai kamikaze che escono dalla folla. Non posso correre il rischio. Quindi non usciamo.
Ricordo fin troppo bene il mio amico e collega Sardar, che è stato ucciso con sua moglie, una figlia e un figlio mentre era in gita in un albergo, solo suo figlio piccolo è sopravvissuto all’attacco.
Non ho mai sentito così poche aspettative nei confronti della vita e non vedo una via d’uscita. È un momento di ansia.