L’Occidente scappa, i talebani esultano. Ma in Afghanistan sta arrivando la Cina
Cinicamente, adesso non resta che aspettare che anche i cinesi, i vincitori del momento, al tavolo della geo-politica, si ritrovino vittime della maledizione afghana che ha travolto l’uno dopo l’altro il Regno Unito, fittizia potenza coloniale per un secolo, poi l’Unione Sovietica, potenza occupante per un decennio, e infine gli Stati Uniti e tutto l’Occidente, presenze militari per vent’anni, ma incapaci di costruire una parvenza di democrazia sostenibile.
Come molti altri Paesi, l’Afghanistan è più insofferente alle presenze straniere che alle proprie ineguaglianze, iniquità, contraddizioni, divisioni. Certo, Pechino affronta il Grande Gioco consapevole degli errori altrui. Tanto per cominciare, zero presenza militare: solo “assistenza” economica e commerciale e “consulenza” diplomatica.
La Cina, poi, ha già dimostrato in Africa e altrove che la corruzione e gli autoritarismi dei regimi con cui collabora non sono un suo problema. “The Great Game” è il nome dato alla partita giocata sull’Afghanistan e i territori adiacenti dagli imperi russo e britannico tra il XIX e il XX secolo ed è poi stato utilizzato sia dopo l’occupazione sovietica che dopo l’invasione occidentale. Fino ad ora ai margini del Grande Gioco, la Cina prova a vincere là dove tutti gli altri hanno perso.
L’Occidente, che ci ha appena perso le penne, non potrà fare altro che stare a guardare, a meno che l’Afghanistan non ridiventi un’incubatrice di terrorismo a casa nostra (ma Pechino non è mai condiscendente con il terrorismo). L’Iran e il Pakistan vorranno soprattutto evitare contraccolpi dell’onda afghana.
Ci sono le condizioni perché almeno il prossimo decennio sia nel segno cinese: vedremo se l’impatto sulla realtà afghana sarà labile e controverso come quello occidentale o più duraturo e meglio accetto.
L’Afghanistan, tornato ora Emirato dopo essere stato ufficialmente fino a ieri Repubblica islamica, è un Paese senza sbocco sul mare, grande due volte l’Italia e con meno di 40 milioni d’abitanti. Ai tempi delle colonie, quando mettevano le mani su tutto ciò che faceva Impero, gli inglesi cercarono di metterlo nel loro carniere, a partire dal 1823, lasciandoci migliaia di uomini e infine le pive.
Poi, dopo che guerre di indipendenza in serie culminarono nel 1919 nella creazione di un Regno, per mezzo secolo o giù di lì, non abbiamo più badato all’Afghanistan: bastava che ne arrivasse l’oppio che noi consumiamo (e di quel che succedeva alle donne e alla gente, che certo non stavano meglio di adesso che sono tornati i talebani, non importava niente a nessuno).
Quando l’Urss lo invase a Natale del 1979, noi però lo eleggemmo a nostra frontiera della libertà e dell’indipendenza nazionale. Ma, cacciati i sovietici e cantata vittoria lì e nella Guerra Fredda, tornammo a disinteressarcene, fino all’11 settembre 2001 e nonostante i campanelli d’allarme – fragorosi e sanguinosi – nel 1998 di Nairobi e di Dar Es Salaam. Allora, vi scoprimmo i ‘santuari’ dei terroristi di al Qaeda, protetti dai talebani, che costringevano le donne a vivere in un medioevo d’ignoranza e sottomissione.
Adesso che ce ne siamo andati, anzi ne siamo scappati, rivivendo a Kabul nel 2021 la Saigon del 1975, ci facciamo un mito dell’emancipazione femminile degli ultimi vent’anni. Ma foto degli anni Ottanta mostrano maestrine in gonna e camicetta che insegnano a classi di bambine nel Paese occupato dall’Urss e “liberato” dai talebani, che allora chiamavamo mujaheddin, armati da Donald Rumsfeld – pace all’anima sua – per cacciare i sovietici. E mai ci chiedemmo che fine abbiano fatto le maestrine e le loro scolarette.
Era sbagliato andare in Afghanistan nel 2001? Forse. Ma era praticamente impossibile non farlo, almeno per gli americani, in quel clima: quando George W. Bush annunciò l’inizio delle operazioni, dallo Studio Ovale, domenica 7 ottobre 2001, a metà giornata, negli stadi dell’Unione dove si giocavano le partite del campionato di football, la gente, avvertita dagli altoparlanti, si alzò in piedi, cantò l’inno e scandì in coro “U-S-A, U-S-A”.
Abbiamo sbagliato a restarci vent’anni? Certo. Ma lo sapevamo, tutti: Barack Obama venne eletto e rieletto con un programma che prevedeva il ritiro dall’Afghanistan (e la chiusura di Guantanamo), Donald Trump venne eletto contestando a Obama di non essersi ritirato e negoziò con i talebani senza coinvolgere il governo perché voleva “portare i ragazzi a casa” prima delle presidenziali 2020, Joe Biden lo ha fatto.
È stato fatto nel modo sbagliato, dando alla ritirata l’apparenza di una fuga? Si poteva fare meglio, provare a organizzare una transizione non traumatica. Era il momento sbagliato, per venire via? Non ci sarebbe stato un momento giusto: i militari, e pure i diplomatici e i politici, erano consci che il governo di Kabul, corrotto e inetto, impopolare e pusillanime, sarebbe crollato come un castello di carte.
Abbiamo scelto come interlocutori uomini sbagliati, ammesso che ce ne fossero di giusti: passi Ahmid Karzai, il primo presidente, uomo della Cia dotato di buon carisma e d’una fisicità ieratica, ma Ashraf Ghali, il “fuggitivo in capo”, era uno che – per vincerle – doveva truccare elezioni già addomesticate. E, in Afghanistan, il mestiere di capo dello Stato – monarchia o repubblica che fosse – è sempre stato pericolosissimo, perché non molti sono quelli che ne sono usciti vivi e pochi quelli che ne sono usciti a fine mandato. Karzai è l’unica eccezione recente.