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Home » Esteri

Accordi di Abramo: anatomia di un fallimento geopolitico

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Dovevano mettere fine ai conflitti tra arabi e Israele e risolvere la questione palestinese. Ma hanno solo moltiplicato gli affari e permesso all’Iran di presentarsi come l’unico baluardo regionale contro Tel Aviv e gli Usa

Quando nell’ottobre del 2020, poco più di un mese dopo la firma degli Accordi di Abramo tra Israele, Emirati Arabi e Bahrein (a cui poi si accoderanno Marocco e Sudan), il Dipartimento per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti avvertì l’allora amministrazione Trump che la normalizzazione delle relazioni tra le due monarchie del Golfo e lo Stato ebraico avrebbe esacerbato la violenza in Medio Oriente, l’intelligence Usa dedicò un intero paragrafo della sua informativa all’Iran, che avrebbe sfruttato l’occasione per accusare Abu Dhabi e Manama di aver tradito il popolo palestinese presentandosi, insieme a Hamas, come un baluardo nella lotta al colonialismo israeliano e americano. Oltre tre anni e mezzo dopo possiamo dire che mai altra previsione fu più azzeccata.

Annunciati da Donald Trump come uno «storico accordo di pace» ed elogiati anche dal suo successore Joe Biden come capaci di rendere «più sicura e più prospera» la regione, in realtà l’obiettivo ufficiale degli Accordi è stato finora del tutto disatteso. Come mostrano i brutali attentati del 7 ottobre, la violentissima reazione ancora in corso sulla Striscia di Gaza e gli attacchi incrociati tra Israele e Iran, non solo non si è mai registrato alcun passo avanti nell’attenuazione del conflitto israelo-palestinese ma si sono moltiplicati i rischi di uno scontro tra le opposte fazioni progressivamente consolidatesi all’indomani della firma delle intese, che hanno creato nuove opportunità economiche e assicurato una cooperazione senza precedenti tra i Paesi membri ma non hanno ridotto la tensione internazionale, anzi.

Presupposti sbagliati
Il cinico presupposto degli Accordi elaborati dal genero del presidente Usa, Jared Kushner, era che gli affari avrebbero soppiantato le rivendicazioni storiche dei palestinesi che, a parte qualche vaga rassicurazione su una soluzione negoziata del conflitto, vengono citati appena nel testo dei trattati. La questione principale, cioè la continua occupazione della Cisgiordania da parte di Israele e il mancato riconoscimento di uno Stato di Palestina, non viene mai affrontata.
Le intese e i loro contraenti hanno tutt’altri obiettivi, legati alla supremazia nella regione. Malgrado la normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Iran, raggiunta grazie alla mediazione della Cina, e la riammissione della Siria nella Lega Araba, i regni del Golfo continuano a vedere una minaccia in Teheran e nel suo coacervo di alleanze con Damasco e una serie di milizie che controllano vasti interessi in Libano, Yemen, Palestina e Iraq.

Basta leggere la prima “Visione per la sicurezza regionale” approvata solo a fine marzo, a oltre 40 anni dalla sua fondazione, dal Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc), che riunisce Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi. Il documento si sofferma su quindici aree di “sforzo comune”, tra cui partenariati strategici, mercati energetici, cambiamenti climatici, sviluppo economico e soprattutto sicurezza marittima e stabilità internazionale.

Al centro di quest’ultima c’è la questione palestinese con il rilancio dell’Iniziativa di pace araba proposta da Riad nel 2002, che non mira affatto a liberare la Palestina “dal Giordano al mare” come promettono Hamas e l’Iran, ma punta a riconoscere i confini di Israele del 1967, come invece prevedono le risoluzioni Onu. Tradotto: l’esistenza dello Stato ebraico, mai citato come Gaza o il 7 ottobre, non è affatto in discussione.

Questa posizione non sorprende visto che due dei membri del Consiglio (Bahrein ed Emirati) hanno normalizzato le relazioni con Tel Aviv e almeno altri due (Qatar e Arabia Saudita) mantengono rapporti, ormai nemmeno più sottobanco, con Israele. Doha è infatti impegnata da anni nella mediazione con Hamas a Gaza e Riad ha addirittura partecipato alla difesa del Paese dalla rappresaglia iraniana del 13 aprile.

Il convitato di pietra infatti è proprio l’Iran, anch’esso mai citato nel documento ma molto presente negli obiettivi prefissati dai firmatari. I regni del Golfo sottolineano infatti l’importanza della non proliferazione nucleare, alludendo al programma atomico di Teheran, sottolineano la necessità di garantire la sicurezza marittima, accennando alla minaccia degli Houthi nel Mar Rosso, e pretendono lo stop al trasferimento di droni e missili a “milizie terroristiche e gruppi settari”. Chissà quali.

Grandi affari, scarsi risultati
Non solo: la Vision del Gcc identifica anche una serie di settori di cooperazione come l’energia e la gestione delle risorse idriche, tutti aspetti già oggetto di specifiche intese raggiunte, soprattutto dagli Emirati, nell’ambito degli Accordi di Abramo.

Nel 2023, secondo l’Abraham Accords Peace Institute (Aapi), questi hanno portato a oltre 4 miliardi di dollari gli scambi tra Israele e i firmatari Emirati Arabi, Bahrain e Marocco. Nemmeno gli attentati del 7 ottobre e l’offensiva a Gaza hanno fermato gli affari: secondo l’Ufficio centrale di statistica israeliano (Cbs), nel quarto trimestre dell’anno scorso il commercio tra i Paesi aderenti è calato solo del 4% rispetto al -18% registrato dallo Stato ebraico negli scambi complessivi con l’estero. Aggiungendo al conto le esportazioni israeliane di gas naturale verso l’Egitto e di gas e acqua verso la Giordania e gli accordi in materia di difesa, servizi e informatica non conteggiati dal Cbs, secondo l’Aapi, il commercio con i Paesi della regione che riconoscono Israele ha superato nel 2023 i 10 miliardi di dollari.
Numeri impressionanti in tempi così difficili, considerando il fatto che queste intese avrebbero dovuto portare pace e sicurezza in Medio Oriente. Come mostra invece il caso della Msc Aries, sequestrata dai Pasdaran iraniani il 12 aprile nello Stretto di Hormuz, Teheran non gradisce la presenza di Israele e dei suoi interessi nel Golfo e segnatamente negli Emirati Arabi, che non a caso sono entrati a far parte del formato mini-laterale I2U2 con Israele, India e Stati Uniti, una vera e propria alleanza politica.

Frutti avvelenati
Invece di provare a risolvere la questione palestinese e a ridurre la tensione con l’Iran sul suo programma nucleare, gli Accordi hanno infatti puntato tutto sugli affari gettando le basi di quella larga coalizione che nella notte tra il 13 e il 14 aprile ha difeso Israele dalle oltre 60 tonnellate di esplosivi a bordo dei quasi 400 tra droni, razzi e missili sparati in diverse ondate da Teheran e dai suoi alleati.

La tacita premessa degli Accordi era mettere da parte le legittime rivendicazioni palestinesi in cambio della sicurezza regionale ma alla fine non si è avuto né l’uno né l’altra. Le prime sono state raccolte da Teheran e dai gruppi armati affiliati alla Repubblica islamica che ricorrono a modalità terroristiche per raggiungere i loro scopi, come mostrano i quasi 1.200 morti del 7 ottobre scorso. La seconda, com’è evidente, resta ancora un miraggio.

Intanto la violenza dei coloni nei Territori occupati è aumentata ancora, soltanto negli ultimi sei mesi Israele si è appropriato di altri mille ettari di terreni nella Cisgiordania occupata, dichiarandoli territorio statale, il che significa che potranno essere utilizzati per nuovi progetti di sviluppo immobiliare, e decine di membri del governo e parlamentari di maggioranza hanno promosso la riannessione di Gaza, dove dal 7 ottobre sono stati uccisi oltre 34mila palestinesi, per lo più donne e minori. Altro che «storico accordo di pace».

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