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Il cardinale Zuppi a TPI: “Abolire la guerra non si può, ma fermare il conflitto si deve”

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“Oggi sul tavolo c’è solo la logica militare. Bisognerebbe impegnarsi per la pace almeno tanto quanto ci si dedica al riarmo. È una chimera? No, è da Homo Sapiens”. Intervista al presidente della Cei

«Quel giorno, il 24 febbraio quando avvenne l’invasione, ricordo che ho sentito subito paura. Sentivo che era l’inizio di qualcosa che non si sarebbe risolto facilmente. La sensazione di una svolta che avrebbe condizionato i mesi a venire. Non ho mai creduto che tutto si sarebbe risolto facilmente. Anche se all’inizio c’erano simulacri di dialogo fra Ucraina e Russia, che purtroppo non sono stati perseguiti. Bisognava forse fare di più. Almeno c’era la forma del negoziato, oggi non c’è più nemmeno quella».

Sessantasette anni, il cardinale Matteo Zuppi, alto e magro nel suo clergyman grigio che ha l’aria di un abito da lavoro, ha un solido passato di parroco. Di quelli antichi, che conoscono carne e ossa della propria gente, fedeli e non fedeli. Senza pompa, senza affettata spiritualità. Ha guidato due parrocchie di ambiente popolare e si sente. Santa Maria in Trastevere a Roma e poi Santi Simone e Giuda Taddeo alla periferia della capitale, Torre Angela. Altrettanto forte in lui è l’esperienza vissuta con la Comunità di Sant’Egidio, impegnata in missioni di pace in varie parti del mondo. Vescovo ausiliare di Roma nel 2012, Papa Francesco lo ha spinto rapidamente in prima linea in pochi anni, nominandolo arcivescovo di Bologna nel 2015 (per riequilibrare la gestione di rigidità dottrinale di due cardinali wojtyliani, Biffi e Caffarra) dandogli la porpora nel 2019 e affidandogli quest’anno la presidenza della Conferenza episcopale italiana.

Cardinale Zuppi, si allarga il disagio per l’escalation della guerra in Ucraina. Il movimento per la pace è attaccato a priori come “utile idiota” dell’aggressore. Pace è una parola sconcia?
«È l’unica parola che si coniuga con la vita. Non c’è vita senza pace. È la condizione per l’uomo di essere se stesso. Una parola da difendere e cercare come il pane, come l’aria. Ci accorgiamo dell’aria quando viene meno. Ci accorgiamo del bene della pace quando ci manca il respiro per quello che sta succedendo».

Parlare di pace, dicono i fautori della guerra ad oltranza, è un regalo fatto all’aggressore.
«Non è una novità. Il mio pre-pre-predecessore, che era arcivescovo di Bologna e diventò Papa con il nome di Benedetto XV, definì nel 1917 la Prima guerra mondiale una “inutile strage” e da ogni parte lo accusarono di essere un disfattista, un traditore, uno che delegittimava i combattenti o favoriva il nemico. Invece voleva favorire tutti.  Vorrei che tutti leggessero uno splendido libro intitolato “Tu non uccidere”, scritto da don Primo Mazzolari».

Francesco è stato alla sua tomba.
«Sì. Mazzolari aveva vissuto le due guerre mondiali e nella prima era stato anche interventista, cioè in qualche modo l’aveva giustificata. Il suo libro è un distillato della sapienza di ciò che aveva visto. Ma fu subito accusato di essere filosovietico, di fare il gioco del nemico. Invece avevano ragione Benedetto XV e Mazzolari. Parlare di pace è profetico perché partendo dal dolore e dalle sofferenze della gente si costruisce il futuro. Tutta la generazione che ha passato la Seconda guerra mondiale aveva ben chiaro che la terza sarebbe stata l’ultima. Bisognava fare di tutto, rinunciare anche alla sovranità per permettere alle nazioni di vivere insieme e garantire la pace. L’Onu e l’Unione europea sono nate così».

La sento inquieto.
«Oggi si registra solo la logica militare. Porta alla pace? Vuol dire vittoria di uno e sconfitta di un altro. Per arrivare a questo nella Seconda guerra mondiale ci sono voluti cinque anni, milioni di morti e l’uso dell’atomica. Credo sia decisivo provare a pensare che ci siano modi per raggiungere la pace senza che sia il prezzo della sconfitta di qualcuno».

E allora?
«Dico subito che c’è il problema della giustizia. Pace e giustizia vanno insieme. La pace, perché sia veramente tale, richiede giustizia. Ma se non c’è pace, è difficile arrivare alla giustizia, se non quella del vincitore. Allora bisogna sapere quale è il conto che si deve pagare… l’eventualità della guerra nucleare. Come ha detto intelligentemente Kissinger, se c’è una logica solo militare, è solo geometria: in un conflitto si usano le armi, tutte, comprese quelle. È tragico ma è così. Non è vero che le armi possono garantire l’equilibrio. Se non c’è più l’equilibrio, salta tutto. Bisogna trovare il modo che le armi nucleari non vengano usate».

All’inizio del mese Francesco ha fatto una dichiarazione precisa: Putin si fermi, Zelensky sia aperto a «serie proposte di pace», la comunità internazionale si mobiliti. E si vada ad un immediato cessate il fuoco.
«È una richiesta realistica. Potrebbe sembrare ingenua perché quando stai combattendo ti viene da dire: lasciami finire. Ma quando finisci di combattere? Le pressioni per un cessate il fuoco, pur con tutti i rischi, sono la via migliore per cominciare un dialogo almeno esplorativo. C’è una sfumatura in quello che ha detto il Papa. Capisce le difficoltà di Zelensky e viene incontro a queste difficoltà. Gli dice: accetta qualcosa di serio. Essendo aggredito e avendo un terzo del Paese occupato da forze straniere, è chiaro che devi avere un minimo… però fallo!».

Il Vaticano ha denunciato ufficialmente, attraverso il dicastero della comunicazione, il dispiegarsi di un pensiero unico, che predica solo l’elmetto da indossare e la continuazione dell’escalation. Così, ha dichiarato un suo esponente, Andrea Tornielli, si scivola verso l’abisso nucleare.
«A volte c’è anche il vizio dell’armiamoci e partite! In realtà il problema principale è che oggi sul tavolo c’è solo la logica del riarmo. Ad essere benevoli si potrebbe dire: riarmati ma dedica almeno la stessa pressione per mettere in campo un meccanismo di pace. Invece non si fa».

L’appello del Papa è più ampio.
«Infatti non è solo rivolto alle due parti in causa. Coinvolti siamo tutti, perché c’è il coinvolgimento militare e poi lo si è a livello internazionale. Un impegno internazionale, forte e univoco, può rassicurare le parti che la pace è possibile ed è la via migliore».

L’opinione pubblica è rimasta colpita da certe uscite del Papa. «Qui non siamo con cappuccetto rosso e il lupo… Non è una storia di cowboy…».
«Francesco usa un linguaggio chiaro e diretto. Semplice ma non superficiale. Fotografa atteggiamenti, chiama le cose con il proprio nome. Avere un linguaggio che arriva al punto è il suo grande dono. Non siamo ingenui! La guerra non è come il film “Ombre Rosse”, che la mia generazione – almeno in parte – ha visto al cinema dell’oratorio. Non “arrivano i nostri!”. Non è neanche un videogioco. Le immagini sono tragicamente vere, i morti sono reali».

Francesco propone una nuova governance mondiale, un nuovo patto di Helsinki per superare la logica del confronto tra blocchi militari.
«Ha detto anche un’altra cosa. Cosa dobbiamo ancora aspettare per scegliere l’unica via di uscita dalla situazione? Le Nazioni Unite sono nate nel dopoguerra per dotarsi di strumenti atti a risolvere i conflitti. Se l’unico strumento è la logica delle armi, allora si afferma la logica del più forte. Non possiamo abolire i conflitti ma possiamo lavorare per la soluzione dei conflitti senza la logica delle armi. Questo è utopico? No, è da Homo Sapiens. Fare tesoro di immani sofferenze già accadute. È veramente folle aspettare che ce ne siano altre. Per questo l’appello del Papa a trovare una composizione internazionale, una nuova Helsinki è positivo. Vedere quali strumenti non hanno funzionato e crearne di più forti. Se per arrivare a questo bisogna avere altri migliaia di morti, dobbiamo agire per evitarlo».

Il resto del mondo, sottolineano molti analisti cattolici, è restio a partecipare al duello fra Occidente e Russia.
«È comprensibile. Papa Francesco invita a ragionare sulla complessità. Bisogna capire i problemi anche se ci sembrano lontani. Lo tsunami della guerra arriva dappertutto. Arriva con la fame in Africa. Arriva con la mancanza di energia in Italia e in Europa. Ogni guerra produce radiazioni, inquinamento di odio e altre tensioni, Per esempio il fatto che moltissimi Paesi non siano schierati con l’Occidente, e anzi sia diffusa una ricostruzione – evidentemente distorta – per cui l’Occidente sarebbe     “l’aggressore” deve spingere a capire meglio il resto del mondo ed essere ancora più decisi nell’agire per risolvere insieme i problemi. Nel mondo interconnesso le soluzioni vanno cercate insieme».

Ad Assisi gruppi cattolici hanno cominciato a collegarsi per manifestare insieme per la pace. È un’utopia?
«Anche se fosse un’utopia… qualcuno dice del tutto inutile, controproducente… Ma dipende da come si fa. Chiedere pace e scegliere la pace è sempre nella direzione giusta. Non è ingenuità, è un manifestare a tutti una determinazione. Consapevoli dei problemi. Qualche volta il pacifismo può essere ridotto a buonismo e buoni sentimenti. Però come il buono non c’entra con il buonista, così l’operatore di pace non c’entra con il generico pacifista. È molto di più. È una indicazione chiara per spingere per una soluzione che costringa a una pace giusta L’operatore di pace non confonde le cause, se le ricorda molto bene. Non confonde l’aggressore con l’aggredito ma cerca tutti gli spazi possibili per evitare che la pace arrivi dopo ulteriori lutti. La pace non sia quella dei cimiteri o non sia pagata a prezzo di ulteriore odio».

I vescovi cosa faranno?
«L’episcopato italiano ha già seguito con grande attenzione le iniziative di tanti organismi che hanno manifestato solidarietà concreta con il popolo ucraino e portato tanti aiuti e favorito l’accoglienza. I vescovi italiani fanno proprio l’appello del Papa e aiuteranno come possono, in piena solidarietà, affinché le sue richieste non cadano nel vuoto ma siano seguite da iniziative seriamente esplorative».

L’Avvenire, giornale dei vescovi, ha denunciato in un recentissimo editoriale l’esistenza di un “partito della guerra” trasversale, con il rischio che ci si abitui ad un conflitto atomico.
«Guai ad abituarsi, anche solo nel linguaggio. Noi siamo figli di una generazione che aveva orrore del conflitto atomico. In questi giorni ricorre una data importante: 60 anni dall’inizio del concilio Vaticano II. In molti documenti si parla di pace. Specie nella Gaudium et Spes. C’è la grande consapevolezza di vivere un tempo di “tregua”, sapendo dove porta la logica della guerra. Noi, nati subito dopo, in fondo avevamo la sensazione che una nuova guerra non si sarebbe ripetuta. Guardavamo avanti, negli anni Cinquanta e Sessanta c’era una spinta incredibile per risorgere e costruire benessere in Italia, per costruire l’Europa. Forse ricordarci dell’orrore per la potenza degli ordigni nucleari deve darci consapevolezza del pericolo che incombe sempre. Abituarsi, abbassando il livello di difesa psicologica, è un errore. L’allarme deve rimanere altissimo, perché il rischio è altissimo. Che si arrivi all’uso di un qualunque ordigno nucleare, anche uno solo, sarebbe il realizzarsi di un pezzo disastroso della terza guerra mondiale».

Cosa ricorda di quegli anni?
«Il discorso bellissimo di Paolo VI all’Onu il 4 ottobre 1964. In cui ammonisce che sono le vittime della guerra a chiedere di costruire la pace. E qui cita il sangue di milioni di uomini, le innumerevoli sofferenze, il fatto che le nuove armi nucleari si siano trasformate in un incubo. Paolo VI si presenta come colui che dà voce ai morti caduti “sognando la concordia” e plaude all’impegno delle Nazioni Unite per evitare la guerra».

Lei sa bene che la frase fatta in circolazione suona: Putin si ritiri oltre i suoi confini e tutto torna a posto.
«Giusto, Non c’è dubbio. Ma il problema è come arrivarci. Il nodo è come si compone il conflitto. Il conflitto ha cause e le cause non sono solo da una parte, attenzione! Certo che Putin deve tornare da dove è venuto, ma vanno risolte tutte le cause del conflitto. L’obiettivo è una pace giusta. Ma se non sono risolte le radici, si generano altri conflitti».

In questi giorni casualmente sono stati pubblicati due progetti di pace. Uno del presidente dell’Accademia sociale delle scienze, professor Zamagni, e uno del supermiliardario businessman Elon Musk. È un segnale che anche ambienti imprenditoriali e gruppi di interesse sono preoccupati della piega che stanno prendendo gli eventi?
«È segno che la Chiesa e i credenti non sono mai degli ingenui o sprovveduti idealisti. Compiono la fatica di tradurre l’ideale in scelte concrete. Sono davvero “artigiani” di pace. Guardiamo l’enciclica “Fratelli tutti”: è un testo che ha parole molto chiare sulla guerra e sulle responsabilità di avere indebolito l’Onu e gli strumenti di composizione pacifica dei conflitti. Si rivolge a tutti gli uomini. Presenta un ideale che nasce dal Vangelo ma supera il Vangelo, rivolgendosi all’umanità. È una forma di esperanto di pace che può fare capire a tutti che la pace è possibile e che senza la pace siamo tutti minacciati e tutto è perduto».

Lei ha vissuto le trattative di pace fra le fazioni in Mozambico. Ha vissuto quel clima di odio e vendetta per morti, distruzioni, torture. Tutto questo si può superare?
«È vero, è stata un’esperienza forte. Bisogna anzitutto interrompere la catena di odio e spegnere violenza. L’odio ha una radice antica, profonda. Si trasmette per generazioni, il male cresce, diventa pregiudizio, produce altra violenza. Però in Mozambico ho anche visto che tutto può cambiare. La pace che sembrava impossibile può arrivare e tiene. Una suora uccisa recentemente in un attacco islamista raccontava che il giorno della pace, 4 ottobre 1992, arrivò nel loro villaggio un gruppo di militari. La gente aveva paura e allora tutti si misero a danzare. “Lì ho visto Dio”, mi disse quella suora».

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