Abdullah Öcalan: il Mandela curdo dimenticato in una prigione turca nel silenzio della comunità internazionale
Il 15 agosto ricorrono i 40 anni dell’inizio della guerra tra la Turchia e il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Un uomo in carcere da 25 anni però potrebbe mediare una soluzione politica. 69 Premi Nobel ne chiedono la liberazione. Ma Ankara continua i bombardamenti col tacito assenso degli Usa e dell'Europa
Da almeno quattro anni non vede i familiari, gli avvocati da cinque. Sta in cella 23 ore al giorno, e 24 durante il fine settimana. Non ha contatti con nessuno, gli sono vietate telefonate e lettere da più di tre anni, e dal giorno della sua cattura, nel 1999, le comunicazioni sono sempre state a singhiozzo. Le condizioni di detenzione di Abdullah Öcalan, leader del popolo curdo, da 25 anni in isolamento a İmralı, una piccola isola nel Mar di Marmara, in Turchia, violano tutte le convenzioni internazionali e persino le leggi locali. Da diversi anni, decine di organizzazioni in tutto il mondo si mobilitano con appelli alle istituzioni internazionali, veglie e marce, per chiedere che le sue condizioni migliorino, per la sua libertà, e per una soluzione politica alla questione curda. Ma la Turchia, da sempre, si oppone in tutti i modi.
Una figura centrale
Provano a fare breccia e scuotere le istituzioni 69 premi Nobel, indirizzando una lettera al presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, per domandare un nuovo avvio dei negoziati di pace, sepolti dal 2015. E inviando un’altra lettera, tra gli altri, all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr), alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) e al Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt).
«Öcalan è considerato dalla stragrande maggioranza dei curdi il loro leader politico, spirituale ed emotivo. Senza la sua partecipazione sarebbe molto difficile trovare una soluzione duratura alla questione curda. Per questo ho deciso di proporre un secondo appello (il primo è stato nel 2019) rivolto agli organismi internazionali che dovrebbero essere consapevoli del trattamento a cui Öcalan è sottoposto, alla tortura e all’illegalità dell’isolamento», ha spiegato a Mediya Haber la presidente della Nobel Women’s Initiative, Jodi Williams, premio Nobel per la Pace nel 1997 per aver contribuito a fondare la Campagna internazionale per la messa al bando delle mine (Icbl), che ha coordinato l’iniziativa.
«Sono un’attivista per la pace da moltissimi anni. La questione curda è un enorme problema irrisolto che deve essere affrontato a livello internazionale. Senza la partecipazione di Öcalan sarà molto difficile trovare una soluzione», ha aggiunto Williams.
Tra i tanti firmatari ci sono Nobel per la fisica e per la chimica. Poi medicina ed economia. Anche Shirin Ebadi, che ha ricevuto il premio per la Pace nel 2003; Charles M. Rice, che ha scoperto il virus dell’epatite C; e poi Herta Müller e Wole Soyinka, entrambi Nobel per la letteratura.
«La preoccupazione dei Premi Nobel firmatari di questa lettera aperta deriva non solo dall’isolamento di Öcalan e dalle continue violazioni dei suoi diritti, ma anche dall’apparente mancanza di sforzi significativi a suo favore da parte delle istituzioni europee a cui ci rivolgiamo e del Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite», si legge nella missiva indirizzata alle istituzioni internazionali. «Sebbene i suoi diritti siano garantiti dalla Costituzione turca e dalla legislazione nazionale, dagli statuti e dai regolamenti dell’Unione europea e dal diritto internazionale, nulla di tutto ciò sembra avere importanza».
In molti paragonano Öcalan a Nelson Mandela. Spiegano come il leader curdo, ormai 75enne, sia centrale per una risoluzione del conflitto e di come l’ostinazione di Erdoğan a non aprire una via per la pace sia un pericolo per tutto il Medio Oriente.
Nel frattempo la Turchia ha dato il via a una guerra clandestina, di cui la comunità internazionale non parla, nel nord dell’Iraq e continua le incursioni nella Siria del Nord Est. Tutte zone a maggioranza curda ben al di fuori dei confini nazionali turchi. Ma facciamo un passo indietro.
Quarant’anni di lotte
Abdullah Öcalan è nato in Turchia nel 1949, ha studiato Scienze Politiche all’università di Ankara, e nel 1978, con un gruppo di studenti ha fondato il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) con lo scopo di promuovere i diritti e il riconoscimento dei curdi. Inizialmente aveva come obiettivo la creazione di uno Stato curdo, negato dall’accordo Sykes Picot tra Francia e Impero britannico, e quindi ratificato dal trattato di Losanna nel 1923. La popolazione curda è stata divisa tra quattro Stati: Iraq, Siria, Iran e Turchia. Fin da subito hanno subito violenze e forme di assimilazione forzata.
Tra i primi militanti del Pkk c’erano anche molti turchi, e il partito aspirava a democratizzare la Turchia caduta in una spirale di violenza e arrivata sull’orlo di una guerra civile tra il blocco di sinistra, tra cui molti comunisti, e gli ultra nazionalisti di destra impegnati, tra le altre cose, a imporre una sola identità, quella turca. Intanto, i giovani del Pkk andavano in giro tra i villaggi e, in segreto, parlavano di Kurdistan. Dopo decenni di violenta assimilazione molte famiglie evitavano di parlare delle proprie origini e cultura. Rinnegavano la propria identità sperando, invano, di evitare le violenze. «Nessuno parlava così apertamente di Kurdistan. Da quel momento io e le mie compagne di classe abbiamo aperto gli occhi», ha raccontato Gültan Kişanak parlando del suo incontro con Sakine Cansiz, una delle prime militanti del partito, durante l’adolescenza.
Due anni dopo la nascita del Pkk, il 12 settembre 1980, alle 4,30 del mattino, la popolazione è stata informata via radio di un nuovo golpe militare, il terzo dal 1960. Allora, i generali, spiegarono che il Parlamento era stato sciolto e il Paese era passato sotto il controllo delle forze armate. Erano dovuti intervenire per salvare la Turchia dal collasso economico, dalla frammentazione e dalla violenza. Quella che seguì fu una pagina nera per il Paese: in un lasso di tempo molto breve tra le 250 e le 650 mila persone vennero arrestate. Di queste, 230 mila vennero processate, 50 giustiziate, 14 mila persero la cittadinanza, 171 furono uccise mentre erano in arresto, centinaia di migliaia vennero torturate, migliaia risultano ancora disperse. Tutti i partiti politici, i sindacati e le fondazioni vennero chiusi. Molti militanti del Pkk vennero arrestati, tra cui Sakine Cansiz, mentre Öcalan fuggì in Siria. Nelle carceri cominciò una strenua resistenza, che portò a scioperi della fame e auto-immolazioni.
Così dal 15 agosto 1984, il Pkk ha abbracciato la lotta armata come strumento di difesa contro la violenza di Stato. Ad oggi è il movimento guerrigliero più longevo al mondo e si concentra sulle montagne del Kurdistan iracheno al confine tra Turchia e Iran. Influenzato dai tanti movimenti di liberazione della fine degli anni ’70, di stampo maoista, il Pkk inizialmente perseguiva la costruzione di uno Stato. Ma alla fine degli anni ’90 e all’inizio degli anni 2000, ispirato dagli scritti di Öcalan, ha abbracciato un nuovo paradigma, il Confederalismo Democratico. Un sistema di auto-governo dal basso che si basa su tre principi cardine: democrazia radicale, ecologia e liberazione delle donne.
Venticinque anni di isolamento
Il 15 febbraio 1999, dopo un lungo pellegrinaggio in Europa, Abdullah Öcalan venne arrestato in Kenya dai servizi segreti turchi (Mit) e della Cia. I curdi lo chiamano il giorno nero, puntano il dito contro il mondo occidentale, parlando di una cospirazione. «Nessuno ha avuto il coraggio di ospitarlo e portare avanti una soluzione di pace per la regione, così lo hanno consegnato ai turchi», dicono all’unisono molti militanti. Öcalan, nel 1998, venne anche in Italia dove fece richiesta di asilo politico. L’allora governo guidato da Massimo D’Alema prese tempo e la richiesta venne accolta due mesi dopo il suo arresto.
Dopo un processo considerato illegittimo da Amnesty International e su cui Human Right Watch ha sollevato molti dubbi, il 29 giugno 1999 Öcalan fu condannato alla pena capitale con l’accusa di alto tradimento e separatismo. La pena è stata commutata in ergastolo senza possibilità di appello; la Turchia ha quindi abolito la pena di morte nel tentativo di diventare un membro effettivo dell’Unione europea. Durante il processo, il leader curdo si è offerto più volte come mediatore in un possibile processo di pace.
Fin dal suo arresto Öcalan è stato trasferito nell’isola prigione di İmralı sul Mar di Marmara. Lunga otto chilometri e larga tre, nell’isola c’è un solo porto e una decina di edifici militari e amministrativi. Per dieci anni, Öcalan è stato in completo isolamento, in condizioni durissime.
Nella sua cella minuscola l’unico sguardo sull’esterno era una piccola feritoia da cui poteva scorgere un albero. Le autorità lo hanno abbattuto dopo che ha raccontato agli avvocati come quella pianta gli desse speranza. Nel 2009 a Imrali sono arrivati altri quattro detenuti, tutti curdi. Ora in totale sono quattro, guardati da un centinaio di soldati. Si possono incontrare tra loro una volta alla settimana per un’ora. Per il resto, Öcalan passa le sue giornate in cella con la possibilità di un’ora d’aria soltanto durante la settimana, mentre nel weekend è confinato per 24 ore al giorno. Non ha nessuna possibilità di contattare l’esterno. I suoi familiari negli ultimi cinque anni hanno fatto richiesta di vederlo 79 volte, tutte negate. Öcalan non vede i suoi avvocati dal 2019.
Dall’inizio della sua detenzione, non può avere più di un libro alla volta, e può prendere pochissimi appunti. Nonostante queste costrizioni, all’inizio degli anni 2000 ha scritto le sue memorie difensive da portare davanti alla Corte europea per i diritti umani (Cedu). Una collezione di analisi puntuali sul concetto di Stato, sul capitalismo, sulla necessità di democratizzare la società, e quindi sulla proposta di istituire il Confederalismo Democratico come strumento di pace non solo per il popolo curdo ma come soluzione dei tanti conflitti intorno al mondo. I suoi libri, tradotti anche in italiano, hanno ispirato tanti movimenti, e in particolare quelli delle donne. Öcalan considera le donne la prima colonia della storia e argomenta come nessuna società potrà mai essere libera se le donne non lo sono. È stato lui a ispirare il famoso slogan “Jin, Jiyan, Azadi”, “Donna, Vita, Libertà”, urlato per le strade iraniane e nel mondo intero.
E in questi 25 anni di prigionia, il partito è cresciuto in modo esponenziale, così come il movimento al suo interno. Una svolta è arrivata nel 2014 quando le milizie del Pkk sono scese dalle “loro” montagne per salvare la popolazione yazida dal massacro del sedicente Stato Islamico (Isis) che ha ucciso 30mila persone e schiavizzato almeno ottomila tra donne e bambini. I guerriglieri sono riusciti a proteggere centinaia di migliaia di persone e con l’aiuto di organizzazioni alleate della Siria del Nord Est, hanno aperto un corridoio umanitario.
Lo stesso anno la Corte di Giustizia europea si è espressa sull’etichetta di organizzazione terroristica che la Turchia e i suoi alleati gli hanno attribuito. Secondo i giudici, il Pkk è parte belligerante di una guerra civile e quindi non può essere considerato un’organizzazione terroristica. Ma l’Europa ha continuato con la repressione, ed è decisa ad affiancare la Turchia nella distruzione del partito ignorando gli organi internazionali. Nel frattempo, però, il movimento ha raggiunto milioni di persone intorno al mondo grazie alla Rivoluzione del Rojava, in Siria.
La Rivoluzione riuscita
Nel 2012, infatti, milizie curde riuscirono ad allontanare i soldati del regime di Bashar al-Assad dalla loro regione chiamata anche Rojava, o Kurdistan Occidentale. Lì, ispirandosi ai libri di Öcalan, hanno creato una zona autonoma dove viene implementato il Confederalismo Democratico. Grazie al suo carattere fortemente democratico, e alla necessità di difendersi dalla minaccia islamista, questa esperienza di autogoverno è riuscita ad arrivare a gestire un terzo della Siria e a coinvolgere cinque milioni di persone. Sotto a questo ombrello vivono tante etnie e religioni. L’area oggi è denominata “Amministrazione Autonoma della Siria del Nord Est” che riconosce lo Stato siriano per alcune funzioni ma ha una propria forza militare di auto-difesa.
Nella Siria del Nord Est tutte le minoranze sono rappresentate, e ogni istituzione ha due co-presidenti, una donna e un uomo. Le forze armate sono organizzate sotto l’ombrello delle Forze Democratiche Siriane (Fds), sotto il quale ci sono anche le Ypg e le Ypj (unità di difesa del popolo e delle donne). Sono state loro prima a fermare e poi a sconfiggere il sedicente Stato Islamico (Isis) nel 2019 in Siria. Una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti ha armato le Fds ma subito dopo la sconfitta dell’Isis ha abbandonato gli alleati alla mercé della Turchia.
Ankara però combatte una guerra senza frontiere e indisturbata su più fronti. Nel Nord Est della Siria porta avanti una guerra con i droni e a cosiddetta “bassa intensità”. Ha occupato diverse zone lungo la frontiera commettendo, anche secondo le Nazioni Unite, una pulizia etnica.
Mentre sulle montagne del Kurdistan iracheno la Turchia vuole arrivare allo scontro finale con il Pkk. La seconda potenza della Nato ha stabilito 71 basi militari nel nord dell’Iraq. Ha mandato oltre confine circa 300 carri armati e migliaia di soldati. Nove villaggi sono stati sgomberati e i militari hanno stabilito posti di blocco violando la sovranità dell’Iraq. Secondo i dati ufficiali, la sua aviazione, tra droni e caccia, solo quest’anno ha colpito 381 volte anche a centinaia di chilometri dalla frontiera turca. Erdoğan ha dichiarato di voler eliminare il Pkk entro l’estate, mentre i guerriglieri sono pronti a resistere.
Per questo ora più che mai è necessario far ripartire i colloqui di pace, dicono i Nobel. La questione curda non potrà mai essere risolta solo militarmente. Soprattutto preoccupano le condizioni di Öcalan. Una delegazione del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) è riuscita a fargli visita nel 2022. Ma la Turchia ha bloccato la pubblicazione della sua relazione. Sono stati gli ultimi a vederlo.