30 ore di treno in Birmania
Il paese di Aung San Suu Kyi ha aperto da poco le frontiere, ma molte aree sono ancora chiuse agli stranieri
Dopo tre mesi di viaggio tra Cambogia, Vietnam e Laos, mi trovo nel paese più desiderato, la meta conclusiva: la Birmania, il Myanmar.
Ho visitato i luoghi classici: Yangon, Bago, Kyaikto, Inle Lake, Kalow, Bagan, Mandalay e Amarapura. Sono stanca, non mi sono mai fermata, ho i polpacci doloranti, ma non andrò a riposarmi in una spiaggia bianca col mare cristallino come avevo programmato.
Voglio andare a Putao nell’estremo nord, nello stato del Kachin, al confine con la Cina, ultima città ai piedi della grande catena montuosa dell’Himalaya, terra delle minoranze Kachin e Lisu. Da qui si raggiunge Hkakabo Razi, la vetta più elevata del Sudest Asiatico con i suoi 5,886m.
Occorre però un permesso speciale per gli stranieri. La Birmania ha aperto da poco le frontiere, in seguito alle aperture democratiche del presidente Thein Sein. Molte aree rimangono però chiuse sia a causa dei conflitti interni tra governo e minoranze etniche, sia a causa di scontri religiosi tra buddisti e mussulmani.
Nello stato del Kachin, dove si trova Putao, dopo 17 anni di relativa calma, il conflitto tra l’esercito birmano e il KIA (Kachin Independence Army) è ripreso nel giugno del 2011, e per motivi di sicurezza gli stranieri non possono accedere a tutte le aree. Ma a Myitkyina, la capitale, si può andare. Decido di rinunciare a Putao, per il momento.
Al nord gli stranieri si recano in aereo o con il treno, ma io non voglio volare, voglio attraversare il paese, vederlo con i miei occhi. Stazione di Mandalay, enorme, monumentale.
Chiedo informazioni e dopo più di due ore, dopo decine di telefonate, dopo aver parlato con addetti alla biglietteria, polizia, militari, riesco ad avere il mio biglietto Mandalay-Myitkyina, ordinary class, 400km, sedili di legno, partenza alle 19.30, arrivo imprecisato, durata stimata più di 22 ore.
Sono state invece 30 le ore, passate come in una giostra, tra sorrisi e chiacchiere, tra sacchi contenenti riso e foglie di banano, militari per terra a dormire sulla loro stuoia con la bocca aperta, bottiglie di Gran Royal (il whisky locale) e donne sdraiate sul pavimento accanto ai bagni ad allattare i piccoli.
Pesce, verdure, sticky rice, birra, mango verde piccante, semi dolciastri di girasole, elefanti di legno, cheroot (sigari birmani) e sigarette, pozioni per dolori allo stomaco e unguenti miracolosi. L’odore di Kon ya, la noce di Areca avvolta nelle foglie di pepe di Betel, spolverata di calce e con aggiunta di tabacco e spezie, che viene masticate dalla maggiornaza della popolazione, è intenso.
I militari sono così gentili e affabili con me che mi chiedo se anche quando torturano qualcuno hanno quel sorriso. Human Rights Watch ha documentato, con la ripresa delle ostilità nello stato del Kachin nel 2011, attacchi a villaggi, torture e stupri ai danni di civili da parte dell’esercito birmano.
Io sono qui, seduta su questo sedile di legno, tra militari e minoranza Kachin e stento a credere alla sofferenza di questo popolo guardando i loro sorrisi. Le fermate a volte sono interminabili, nelle stazioni in cui ci fermiamo arrivano soprattutto donne a vendere cibarie trasportate su vassoi in bilico sulla testa.
Scendo a sgranchirmi le gambe, quasi tutti mi guardano: sono una foreigner, una straniera, ma indosso il longyi, la gonna portata da tutti (uomini e donne); e ho il thanaka sul viso, una pasta ricavata dall’albero di Linoria Acidissima, usata come cosmetico dalla maggior parte delle donne e dei bambini.
Sguardi divertiti, sorrisi e saluti mi riaccompagnano sul treno. Alcuni ragazzi ubriachi iniziano a cantare canzoni d’amore, sono canzoni occidentali degli anni Settanta riadattate e con il testo in birmano.
Il treno scorre su pianure, si infila nelle gallerie, passa attraverso foreste, villaggi con capanne di bambù, la strada ferrata è costellata di accampamenti dell’esercito.
Il freddo della notte arriva anche dalle fessure di questi finestrini di metallo, mi avvolgo nel longyi e penso più che mai che non è importante la meta, ma il viaggio.