2024: l’anno della democrazia
L’anno che verrà sarà cruciale: oltre 3,5 miliardi di persone si recheranno alle urne. Gli equilibri di potere che si determineranno da questo voto globale potrebbero cambiare in modo netto anche quelli del nuovo ordine mondiale che, nell’anarchia e nel caos di questi mesi, sta prendendo forma
Nel 2024 oltre 3,5 miliardi di persone si recheranno alle urne, in tutto il mondo, per eleggere un nuovo Parlamento e indicare un nuovo leader. Si terranno elezioni in quasi settanta Paesi, dagli Usa alla Russia passando per Bangladesh, India, Indonesia, Bielorussia, Taiwan, Messico e molti altri ancora. Comprese quelle Europee. Un dato storico e un record incredibile per la democrazia.
Ma il concetto stesso di democrazia, a guardar bene, è a rischio un po’ ovunque nel mondo a causa dell’insorgere di autoritarismi e pulsioni reazionarie che prendono d’assalto il mondo, dall’America Latina al continente africano, sino all’Estremo Oriente.
Ciò che un tempo era appannaggio sicuro della longa manus degli Usa è oggi messo in discussione dalle aspirazioni, a vario titolo, di chi offre una valida alternativa alla Pax Americana — cinese o russa che sia.
Il bluff degli Stati Uniti – prima in Medio Oriente poi anche in Estremo Oriente – è talmente palese da aver reso opinabili i principi del diritto internazionale cui l’Occidente si appella, una volta sì una volta no, a seconda del proprio tornaconto di facciata.
Così crolla un mito. E con esso tutte le sue certezze si frantumano. Accade perciò che “the west” sia sempre meno attraente “for the rest”. E che il sud del mondo d’improvviso si rivolga a un altro interlocutore. Anche per questo la democrazia, i suoi principi, i suoi valori assoluti, perdono appeal.
Solo la crisi dell’Europa, invertebrata e senz’anima, incapace di pensare per se stessa, subalterna agli Usa, può davvero spiegare il ritorno in auge della Nato, cui oggi mezzo mondo ex sovietico nell’Est del Vecchio continente vuole aderire.
Il grande ombrello militare dell’Alleanza atlantica offre la misura di quanto l’Occidente sia più un nonnulla, una rappresentazione ideologica di un modello giunto al capolinea.
La globalizzazione ha portato più danni che benefici al mondo occidentale: favorendo il primato tecnologico cinese, svantaggiando il mercato domestico delle imprese occidentali, azzoppando con regole inutili un intero continente e, per estensione, quelli da cui dipende.
Nemmeno il cambiamento climatico è riuscito nell’impresa di donare nuovo senso a una civiltà che non ha più radici, né più riferimenti, né più parametri.
Si è detto che la Russia di Putin abbia dimostrato, con l’invasione dell’Ucraina, le sue mire neo-imperialiste, ma non c’è nulla di più neo-imperialista di aver voluto forgiare per, oltre mezzo secolo, tre quarti di mondo (peraltro senza riuscirci).
Nel più recente conflitto ucraino abbiamo sostenuto, per quasi due anni, che dovessimo armare fino al collo una nazione di cui fino a febbraio 2022 sapevamo troppo poco, senza chiederci a chi finissero quelle armi e cosa avrebbe provocato una tale azione; abbiamo agito di impulso con il nodo alla gola dinanzi al rigurgito “folle” di uno Zar in preda ad aspirazioni Hitleriane, ma non ci siamo sforzati di comprendere, pur senza giustificarle, le ragioni profonde che hanno infine generato il già complesso rebus odierno: nessun vincitore e la pace come unica sconfitta.
Per quanto riguarda il Medio Oriente post-7ottobre il rischio era che si verificasse ciò che si è verificato: l’annientamento tout court di Gaza senza alcuna strategia, se non quella (boomerang) di rinforzare le leve del terrorismo radicale in quella regione e oltre confine. Una vittoria tattica inutile; una risposta che sa quasi unicamente di vendetta, anziché di giustizia.
L’anno che verrà, pertanto, sarà cruciale poiché gli equilibri di potere che si determineranno da questo voto globale potrebbero cambiare in modo netto anche quelli del nuovo ordine mondiale che, nell’anarchia e nel caos di questi mesi, sta prendendo forma.