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Lettera dalla Bosnia

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A vent'anni anni dal conflitto in Bosnia ed Erzegovina, le divisioni etniche sono ancora il primo ostacolo. Reportage

E così, tra il cielo, il fiume e le montagne, una generazione dopo l’altra imparava a non compiangere troppo ciò che la torbida acqua si portava via; ché la vita è un miracolo impenetrabile perché si fa e disfà incessantemente, eppure dura e sta salda, come il Ponte sulla Drina” (dal romanzo di Ivo Andrić, Il Ponte sulla Drina)

Il confine tra Serbia e Bosnia è a pochi chilometri dal ponte protagonista del romanzo del premio Nobel jugoslavo Ivo Andrić, nato nell’attuale Bosnia ed Erzegovina.

Quel ponte è il grande custode della storia, simbolo della dominazione turca, crocevia di culture e religioni diverse, ma anche testimone di conflitti e odio fino ai giorni nostri. Il fiume Drina scorre sotto di lui e accompagna per molti tratti la frontiera bosniaca.

Questi luoghi sono stati resi celebri non solo dallo scrittore Andrić, ma anche dal regista serbo Emir Kusturica. In Serbia, poco prima della frontiera con la Bosnia, il regista ha costruito il villaggio di Drvengrad, nei pressi di Mokra Gora, per utilizzarlo come set cinematografico per il film Life is a miracle.

Al di là del confine, nella parte serba della Bosnia ed Erzegovina, Kusturica ha poi costruito Andricgrad, dedicata allo scrittore Andrić e nata con lo scopo di celebrare le radici ortodosse della regione. 

Oggi questi due villaggi sono diventati note attrazioni turistiche, con bar, ristoranti e piccoli negozi che propongono prodotti e oggetti tradizionali.

Kusturica celebra il suo genio – e il suo narcisismo – tramite l’arte visiva: murales e disegni raffiguranti scene dei suoi film riempiono le porte e i muri delle piccole case di Mokra Gora.

— Leggi anche: La rinascita della Serbia 

Superando il confine, la continuità con il territorio serbo è evidente. Le strade tortuose che percorriamo – perdendoci più volte – ci conducono verso piccoli centri abitati nascosti da pendii dalla vegetazione sempre più fitta.

La Republika Srpska – una delle due federazioni bosniache nate alla fine del conflitto in Bosnia ed Erzegovina, con gli accordi di Dayton, nel 1995 – ha una precisa identità ortodossa, che si respira in tutti i villaggi dove svettano fiere le bandiere a strisce orizzontali rossa, blu e bianca.

La risoluzione del conflitto serbo-bosniaco (1992 – 1995) ha seguito lo schema della separazione etnica. Poco importa se, come ci spiega Zejna Smajić, giornalista del quotidiano bosniaco Sarajevo Times, “prima della guerra le percentuali di ortodossi e cattolici in Bosnia e di musulmani in Republika Srpska erano maggiori, con una convivenza pacifica che è durata oltre tre decenni.”

Oggi non è più così. L’occidente rimasto sconvolto dal genocidio di Srebrenica – dove oltre 8.000 bosniaci musulmani (numero di vittime non ancora definitivo) vennero uccisi dalle truppe del generale serbo Ratko Mladić – decise di dividere il territorio in due stati federali: la Republika Srpska, chiamata anche Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina.

Le tensioni attuali create da questa separazione sono la naturale conseguenza di tale scelta. 

Sulla strada che ci conduce in Bosnia – la parte a maggioranza islamica della repubblica federale – incontriamo per caso Jasmin, gestore di un negozio di souvenir a Sarajevo che appartiene alla famiglia da generazioni.

È un gigante di quasi due metri con uno sguardo mite. A poco più di vent’anni si ritrovò al fronte senza sapere bene il perché. Non capiva come mai nel giro di pochi mesi molti suoi colleghi ortodossi diventarono nemici.

“La guerra sconvolse tutto e la religione diventò un problema”, così ci racconta mentre siamo ospiti nel suo negozio. Dopo un anno, Jasmin venne ferito da due proiettili per salvare un compagno e passò il resto della guerra in convalescenza.

Il compagno venne portato in salvo, scappò in Italia e pochi anni fa ha voluto rincontrare Jasmin, presentandogli uno dei due figli che porta il suo nome come segno di riconoscenza.

Jasmin è musulmano e ha una moglie cattolica: oggi le coppie loro rappresentano un’eccezione in una città come Sarajevo, da sempre multietnica.

La Bosnia ed Erzegovina è così divisa, ma così simile.

La classe media è formata dai contadini sparsi nei piccoli centri sperduti tra le Alpi Dinariche e i dipendenti pubblici delle principali città come Sarajevo, Banja Luka, Tuzla.

Contadini e dipendenti pubblici hanno gli stessi problemi: corruzione politica e poche risorse che spesso consistono in finanziamenti esteri provenienti dalla Russia per la parte serba e dall’Unione europea per l’area bosniaca e croata.

Il lavoro manca, ma non sembra essere questo il problema principale. L’integrazione tra le varie comunità è la vera necessità della popolazione. 

La politica invece punta verso una divisione etnica ancora più forte. Tanto da aver ricevuto un numero crescente di denunce per discriminazione razziale da parte di cittadini bosniaci e Ong, presentate davanti alla Corte di Giustizia Europea per i Diritti Umani.

Konjević-Polje è l’esempio di come l’integrazione non sia una necessità per i politici. In questo paesino vicino a Srebrenica, non solo il genocidio del 1995 è ancora un tabù, ma agli alunni musulmani della scuola elementare non può essere insegnato l’alfabeto bosniaco, diverso da quello cirillico.

— Leggi anche: Scuole a metà

I genitori dei bambini dopo diversi appelli inascoltati ai tribunali di Srebrenica, Banja Luka e alla Corte istituzionale di Bosnia ed Erzegovina, hanno deciso di portare la questione direttamente davanti alla Corte europea per i diritti umani.

Questo purtroppo non è l’unico caso. A sud di Monstar, nel paese di Stolac, i bambini di origine croata e di origine bosniaca hanno classi differenti nello stessa scuola. Ancora una volta l’integrazione non è una necessità. La politica sembra fare di tutto per ravvivare l’identità religiosa.

Lo sport già durante la guerra aveva invece agito da collante nazionale. Predag Pasic, ex ala destra della nazionale Jugoslava è l’esempio di questa volontà. Pasic ha collezionato oltre 200 presenze con la maglia dell’F.C. Sarajevo e ha partecipato con la selezione yugoslava ai mondiali del 1982. È uno dei cinque protagonisti del documentario di Eric Cantona ribelli del calcio.

A Sarajevo, durante la guerra, Pasic iniziò ad allenare bambini senza dare importanza alla loro origine o alla loro religione. Predag e i suoi ragazzi giocavano a calcio appena fuori il centro della città, senza preoccuparsi dei cecchini serbi appostati sui tetti delle case. La voglia di sentirsi uniti nell’orrore della guerra era più forte di tutto.

Così nacque Bubamara (coccinella in bosniaco), un progetto educativo che ha insegnato a giocare a calcio a più di 15mila ragazzi. 

“L’abitudine alle trasferte, la fiducia nel nostro gruppo, il clima che si respira a Bubamara permette alle famiglie dei ragazzi di fidarsi e comprendere lentamente che le differenze possono essere una forza e un arricchimento, e non un problema.”

Pasic è ortodosso, ha una moglie cattolica e un genero musulmano. È il simbolo vivente di un’integrazione che sembra appartenere a un tempo lontano.

Sigaretta sempre in bocca a emulare i gradi tecnici del passato e voce rauca, scavata dal tempo e dalle urla sui campi da gioco. È amante dell’arte, infatti ci ospita nella sua galleria privata a due passi dal centro di Sarajevo.

La galleria però non produce reddito e se non fosse per gli sponsor di Bubamara avrebbe già dovuto chiudere bottega.

Parliamo di tutto: dai mondiali di Spagna del 1982 all’Inter dell’ex patron Moratti, fino ai racconti sul suo amico Eric Cantona e la vita notturna a Sarajevo.

Con il suo inglese un po’ incerto ci spiega di come Sarajevo sia cambiata andando man mano a perdere quell’identità multiculturale che ha sempre caratterizzato la sua storia.

I primi a voler soffocare questo spirito sono stati i partiti che governano la Federazione, decisi a eliminare qualsiasi tipo di integrazione culturale.

Sotto la mannaia della divisione etnica è caduta anche Bubamara. Nonostante gli sponsor internazionali raccolti negli anni, l’associazione ha iniziato a subire continue pressioni da parte dei funzionari governativi.

Finché la scorsa primavera la F.C. Sarajevo – squadra proprietaria delle strutture sportive – ha deciso di non rinnovare le sue concessioni all’associazione.

Pasic non si espone sulle ragioni di questa decisione, ma senza ombra di dubbio la fine di Bubamara è stata una ferita per la collettività che lascia un grande vuoto.

Ma come tutti i rivoluzionari Pasic non si arrende e ha già aperto un nuovo progetto, Bosna Sema. In collaborazione con l’Istituto universitario turco Sema, verrà creato un network di 4mila giovani atleti che avranno la possibilità di studiare e coltivare il sogno di giocare nella squadra che ambisce quest’anno a un posto tra i professionisti.

A parte la tenacia di Pasic e il suo spirito rivoluzionario, molti sono gli interrogativi irrisolti. Una divisione priva di alcun senso oggettivo pone la Bosnia Erzegovina in un immobilismo senza prospettive per il futuro.

L’Unione europea, che ha posto le sue basi nel Paese dalla fine della guerra nel 1995, è distante e lo sarà sempre di più. Come sarà possibile invertire il corso degli eventi ed evitare gli errori del passato?

Serbia e Bosnia sono due nazioni molto differenti tra loro. La prima operaia e industriale, lontana dal suo recente passato e ansiosa di raggiungere un nuovo futuro.

La Bosnia invece resta ancora immobile in preda ai suoi demoni e ai suoi conflitti. Entrambe sono caratterizzate da un’energia e da un passato che le ha rese più consapevoli ma che ne condiziona ancora in parte gli sviluppi.

Se per la Serbia è fondamentale trovare un bilanciamento tra lavoro e diritti sociali, per la Bosnia ed Erzegovina resta la certezza che trovare un’identità comune aiuterebbe a rivolgere lo sguardo verso il futuro.

— Leggi anche: La rinascita della Serbia 

Il progetto

Stefano Bandera e Stefano Sbrulli sono due fotoreporter italiani. A vent’anni dalla fine del conflitto nell’ex-Jugoslavia (1991-95), che causò la morte di circa 140mila persone, Bandera e Sbrulli si sono recati in Serbia e in Bosnia per raccontare come sono cambiati questi due Paesi, che aria si respira e che cosa riserva il futuro. Nella pagina multimediale Behind Balkan Wall hanno condiviso le storie, le foto, i video, i dati e le testimonianze raccolti durante il viaggio. 

“Abbiamo viaggiato in mezzo alla storia, alle tante etnie della regione, alla musica gipsy e al folle cinema di Kusturiça”, hanno spiegato. “Ma questa miscela esplosiva è stata solo la punta di un iceberg che valeva la pena raccontarvi attraverso le storie dei tanti personaggi conosciuti lungo la nostra strada. Fotocamera in spalla, auto a noleggio e smartphone sempre a portata di mano per non perderci nel labirinto stradale tra Serbia e Bosnia – vera ossessione per tutto il viaggio – iniziamo il nostro racconto a Belgrado a 20 anni di distanza da uno dei capitoli più tragici dell’Europa contemporanea”.

Il trailer del progetto

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