Cosa sappiamo sul dossier segreto dell’11 settembre che potrebbe scatenare una guerra diplomatica
Un rapporto secretato della Commissione d'inchiesta sugli attentati del 2001 proverebbe i rapporti tra funzionari dell'ambasciata saudita e i terroristi di al-Qaeda
Ventotto pagine di un rapporto segreto degli investigatori americani sono al cento di una crisi tra Stati Uniti e Arabia Saudita che rischia di avere ripercussioni pesantissime nei rapporti tra le due nazioni.
Il Congresso degli Stati Uniti sta considerando di approvare una legge per riconoscere le possibili ed eventuali implicazioni dell’Arabia Saudita nell’attentato dell’11 settembre che consentirebbe ai parenti delle vittime di citare in giudizio e ottenere la confisca delle proprietà dei sauditi negli Usa.
La questione ha gettato un’ombra sulla visita del presidente americano Barack Obama in Arabia Saudita. In risposta il paese arabo, il principale alleato degli Usa nel Medio Oriente, ha minacciato di ritirare tutti i suoi capitali, stimati in miliardi di dollari, investiti nelle attività finanziarie statunitensi.
Il dossier, stilato dalla Commissione d’inchiesta parlamentare congiunta sull’attività dei servizi segreti, non è mai stato pubblicato e fa parte del report del governo americano sugli attacchi dell’11 settembre e chiamerebbe in causa presunti finanziatori sauditi nell’attentato che costò la vita a più di tremila persone.
L’ex inquilino della Casa Bianca, George W Bush, decise di secretarlo perché il rapporto avrebbe potuto danneggiare la sicurezza nazionale, rivelando “fonti e metodi e dunque rendere più difficile la lotta al terrore”.
Ma negli ultimi anni sono aumentate le pressioni per renderlo pubblico. L’ultimo politico a chiederlo è stati Rudolph Giuliani, il sindaco di New York al tempo dell’attentato, che avrebbe anche accusato un principe saudita di aver tentato di corromperlo per convincerlo a ritirare le sue accuse all’Arabia Saudita.
Secondo alcune fonti interne alla Casa Bianca, l’amministrazione sarebbe adesso intenzionata a desecretare i documenti.
L’ex senatore Bob Graham, che di quella Commissione era co-presidente, ha più volte in passato assicurato di essere sicuro che l’Arabia Saudita era coinvolta ai massimi livelli negli attentati.
“I sauditi sanno cosa hanno fatto e sanno che il governo Usa lo sa e lo vuole tenere segreto: questo ovviamente li induce a continuare a fare lo stesso. Al Qaeda è stata una creatura saudita”.
Il legame tra il regno ultra-conservatore dell’Arabia Saudita e l’islam sunnita oscurantista dei Wahaabiti risale agli inizi degli anni Novanta, quando uno degli imam più influenti di fatto minacciò una rivolta popolare a meno che la famiglia reale non permettesse agli wahaabiti di giocare un ruolo centrale nella politica saudita.
Nacque così il ministero per gli Affari Islamici, controllato dai religiosi, con funzionari in tutte le ambasciate saudite nel mondo. E, secondo le accuse contenute nelle ventotto pagine, l’ambasciata saudita a Washington avrebbe avuto rapporti finanziari e contatti diretti con i diciannove attentatori dell’11 settembre, quindici dei quali erano di nazionalità saudita.
Si parla, per esempio, di una fitta rete di rete di telefonate intercorsa, appena prima dell’11 settembre, tra l’ambasciata saudita e un uomo considerato tra gli addestratori dei dirottatori.
Inoltre, il certificato di volo di un terrorista di al Qaeda, Ghassan Al-Sharbi, che aveva preso lezioni di volo per la missione suicida, è stato trovato in una cartella dell’ambasciata saudita durante una perquisizione. Al-Sharbi non prese parte agli attentati dell’11 settembre, ma fu arrestato nel 2002 in Pakistan e da quel momento è rinchiuso a Guantanamo.
Vi sarebbero anche le prove dei rapporti tra alcuni funzionari sauditi e Nawaf al-Hamzi e Khalid al-Mindhar, i primi degli attentatori che arrivarono nel 2000 negli Stati Uniti. A trovare loro un appartamento a San Diego e ad aiutarli per i documenti fu Al-Bayoumi, un funzionario saudita, che riceveva finanziamenti dal governo di Riad attraverso la compagnia di aviazione saudita Dallah Alco e visitiva frequentemente l’ambasciata di Washington e il consolato a Los Angeles.
Interrogato dall’Fbi Al-Bayoumi riconobbe di avere incontrato Fahad al-Thumairy, un funzionario del ministero degli Affari Islamici del consolato di Los Angeles, da lui definito come il suo mentore spirituale, il giorno stesso dell’arrivo dei terroristi negli Usa. Due anni dopo al-Thumairy fu costretto ad abbandonare gl Stati Uniti perché sospettato di avere legami con al-Qaeda.
Un altro saudita che passò tempo con i due futuri dirottatori fu Osama Basnan. L’uomo ricevette 75mila dollari dalla principessa Haifa bin Sultan, la moglie del principe Bandar bin Sultan, l’ambasciatore saudita negli Stati Uniti.
La donazione fu giustificata in seguito con delle spese mediche per la moglie di Basnan, ma secondo gli investigatori, una parte arrivò ad Al-Bayoumi e tramite lui agli attentatori dell’11 settembre.
Bandar è tornato nelle cronache per questioni di terrorismo nel 2012, quando era capo dei servizi di intelligence sauditi. In un summit a Mosca, fonti diplomatiche sostengono che abbia lanciato una velata minaccia al presidente russo Vladimir Putin, suggerendogli che gli islamisti ceceni avrebbero potuto compiere degli attentati alle Olimpiadi invernali di Sochi se la Russia avesse continuato ad appoggiare Assad in Siria.
Riad ha sempre negato qualsiasi responsabilità e la Commissione d’inchiesta del Congresso ha sostenuto che non esistono prove del legame tra il governo saudita e i 15.