Il cambiamento climatico rischia di essere un boomerang per i Petro-Stati, svalutando i giacimenti
Su TPI il capitolo dedicato alla Bolla del Carbonio del libro "Tutte le colpe dei petrolieri", edito da Piemme, di Stefano Vergine e Marco Grasso
L’abbandono dei combustibili fossili in favore delle energie rinnovabili non sarà indolore, ma è tecnicamente possibile oltre che auspicabile. La notizia è che non comporterà necessariamente un impoverimento, ma anzi potrà rappresentare uno stimolo importante per l’economia mondiale del futuro. TPI pubblica il capitolo dedicato alla Bolla del Carbonio del libro di Marco Grasso e Stefano Vergine “Tutte le colpe dei petrolieri”:
LA BOLLA DEL CARBONIO
Il valore delle società petrolifere è dato da tanti fattori, ma fra i principali rientrano sicuramente le riserve di greggio, i giacimenti posseduti dalle compagnie in giro per il mondo e non ancora sfruttati. L’oro nero è l’asset su cui per decenni hanno basato il proprio valore azionario centinaia di compagnie e – fatto ancora più importante – anche diversi Paesi proprietari di queste aziende.
Basti pensare all’Arabia Saudita e alla sua controllata Saudi Aramco, oppure alla Russia e alle maggiori compagnie di Stato Gazprom e Rosneft. Oggi, però, quei barili di petrolio qualcuno ha iniziato a chiamarli stranded assets. Letteralmente: “beni bloccati”. In pratica sono miliardi di dollari che rischiano di andare in fumo, portandosi dietro anche chi rimarrà attaccato al barile.
Perché? Il ragionamento di fondo di chi sostiene questa tesi è lineare. Se la temperatura media terrestre deve essere tenuta sotto controllo, bisognerà ridurre drasticamente le emissioni di gas serra. E siccome petrolio e gas sono tra i maggiori responsabili di queste emissioni, l’estrazione e la produzione andranno ridotte notevolmente. Diversi scienziati lo sostengono ormai da anni.
Uno studio pubblicato nel 2015 sulla rivista scientifica Nature ha stimato per esempio che, per mantenere l’aumento della temperatura media mondiale sotto i 2 °C, come previsto dall’Accordo di Parigi sul clima, un terzo delle riserve mondiali di petrolio, la metà delle riserve di gas e l’80% di quelle di carbone dovranno rimanere inutilizzate. Un enorme problema per compagnie che basano il proprio valore finanziario sulle riserve di idrocarburi intrappolati sotto terra.
Se infatti questi assets diventassero di colpo inutilizzabili, le compagnie vedrebbero svanire in un attimo buona parte del loro valore. È come se da domani nel calcio venisse vietato il dribbling: un giocatore come Messi, che basa la sua forza straordinaria proprio sulla capacità di saltare gli avversari come birilli, diventerebbe un calciatore simile a tutti gli altri, e così il valore del suo cartellino crollerebbe.
La probabilità che buona parte delle riserve petrolifere mondiali sia destinata a rimanere sottoterra aumenta proporzionalmente alla crescita delle temperature, al ripetersi di catastrofi naturali come i già citati straordinari incendi avvenuti in Australia tra la seconda metà del 2019 e l’inizio del 2020. E, più in generale, alla crescita della consapevolezza sociale della pericolosità dei combustibili fossili.
Come abbiamo sottolineato all’inizio di questo capitolo, infatti, gli appelli di leader carismatici come papa Francesco o Greta Thunberg possono mobilitare ampie proteste di piazza e arrivare fino a orientare in modo significativo il voto degli elettori. Forse proprio per questo, dopo anni di dichiarazioni e appelli rimasti inascoltati da parte di scienziati e associazioni ambientaliste, ultimamente anche la politica sembra aver preso sul serio la questione climatica.
È questo uno dei rischi principali per le compagnie petrolifere. Perché se qualche Paese dovesse per esempio bandire le trivellazioni, oppure imporne una forte riduzione, il valore delle riserve in pancia alle compagnie dell’oil & gas scenderebbe di parecchio. A ciò si aggiunge il fatto che le cosiddette energie alternative, come per esempio l’energia solare o quella eolica, sono sempre più economiche, cioè meno costose da produrre.
Il mondo finanziario ha già iniziato a fare i conti sulle conseguenze di tutto questo. Lazard, una delle maggiori banche d’investimento del pianeta, nel 2018 ha calcolato che già oggi il costo dell’energia (Levelized cost of energy, Lcoe) prodotto da impianti solari ed eolici onshore, in assenza di sussidi, è simile a quello dell’energia prodotta usando il carbone. La banca americana prevede che la discesa dei costi di produzione delle rinnovabili continuerà nei prossimi anni, facendo di vento e sole fonti energetiche persino più economiche di petrolio e gas.
Il discorso è ovviamente molto complesso, perché nel calcolo rientrano parecchie variabili: per esempio il prezzo dei combustibili fossili, che in futuro potrebbe anche essere più basso di quello preso in considerazione da Lazard nel 2018; o i costi delle batterie, indispensabili per immagazzinare l’energia prodotta da sole e vento. La tendenza sembra però chiara.
Le rinnovabili sono sempre più convenienti dal punto di vista economico, mentre le energie fossili stanno subendo un calo costante di popolarità. Un recente rapporto della Iea suggerisce che la pandemia di Covid-19 sia il più grande shock per il sistema energetico globale dalla Seconda guerra mondiale: determinerà una diminuzione della domanda di energia del 6% nel 2020 rispetto all’anno prima. Per capirci, quel −6% equivale all’intera domanda di energia dell’India o a quella combinata di Francia, Germania, Italia e Regno Unito. In questo contesto, tuttavia, le energie rinnovabili dovrebbero crescere del 5% e fornirebbero il 30% della domanda mondiale di elettricità.
Secondo la Carbon Tracker Initiative tutto questo «porterà inevitabilmente a migliaia di miliardi di dollari di stranded assets in tutta l’industria privata e colpirà i Petro-Stati che non saranno riusciti a reinventarsi». Con stranded assets, come dicevamo all’inizio, si intendono tutti i combustibili fossili che resteranno sottoterra a causa del crollo della domanda da parte dei consumatori di energia.
Le previsioni della Carbon Tracker Initiative sono state prese seriamente in considerazione non solo dalle associazioni ambientaliste, ma anche da autorevoli rappresentanti del mondo finanziario, come vedremo successivamente. Se le stime dovessero rivelarsi corrette, si tratterebbe di una svalutazione di proporzioni epocali.
«La più grande bolla economica della storia» l’ha definita l’economista e sociologo americano Jeremy Rifkin citando uno studio pubblicato nel 2015 da una divisione di Citibank. Secondo la banca d’investimento americana, infatti, circa cento trilioni di dollari di assets potrebbero rimanere inutilizzati. È una cifra pari a cinque volte il prodotto interno lordo annuale degli Stati Uniti, tanto per fare un paragone.
Stiamo parlando di stime, di scenari possibili, e va sempre ricordato che al contempo ci sono anche esperti che sostengono l’infondatezza di queste previsioni. Di sicuro c’è che se l’Accordo di Parigi sul clima verrà rispettato, anche se non da tutti i firmatari, l’uso di combustibili fossili nel mondo dovrà essere ridotto di molto. Una certezza che si accompagna a un fatto.
La diminuzione del costo dell’energia prodotta con fonti rinnovabili ha già portato alcuni settori produttivi a ridurre l’uso di elettricità derivata dalla combustione di energie fossili. Se la tendenza proseguirà, è inevitabile che gli assets petroliferi si svalutino. Forse non sarà la fine della civiltà basata sui combustibili fossili, come prevede qualcuno, ma sicuramente il mondo sarà molto diverso da come lo conosciamo oggi.