Nessuno dice come stanno davvero le cose: Facebook e Twitter hanno censurato Trump unicamente per tutelare i loro interessi
Premessa: questa analisi farà arrabbiare presumibilmente tutti. Chi ritiene che Facebook e Twitter abbiano rimosso gli account di Trump per corrette ragioni “politiche” e chi è convinto che si sia trattato di un’ingiusta censura, da perseguire con la legge. Con la cancellazione degli account e dei tweet, Facebook e Twitter hanno fatto una scelta dettata da convinzioni presumibilmente molto più semplici: il mercato.
Qualunque azienda si muove, nel mercato, spinta dall’incentivo di creare valore per i propri consumatori, investitori e dipendenti. Questa mission è chiara a chiunque abbia lavorato almeno un giorno della propria vita in un’azienda, e questa condizione esclude probabilmente la maggior parte dei politici e commentatori che in questi giorni hanno affollato testate e social media con le loro analisi.
Per perseguire la propria mission, le aziende possono anche mettere in atto azioni di responsabilità sociale d’impresa, scelte considerate “etiche” che premiano le società migliorando la loro reputazione, aumentando le vendite, riducendo rischi d’impresa e molto altro. Le azioni di responsabilità sociale hanno il duplice vantaggio di creare esternalità positive per il pubblico, e, potenzialmente, generare vantaggi per le aziende.
In questo caso, i due colossi social hanno probabilmente agito con questo duplice obiettivo: ricevere il plauso di almeno una fetta (consistente) di utenti e di opinione pubblica e poter conservare i propri profitti. Sono infatti numerosissime le società multinazionali e americane che in questi giorni si sono apertamente schierate contro Donald Trump, identificandolo come “mandante morale” dell’assalto al Congresso.
Tra i tweet e i comunicati stampa possiamo citare le dichiarazioni dei CEO di Microsoft, Dell, 3M, Jp Morgan Chase oltre che il comunicato del Business Roundtable, un’organizzazione che rappresenta i 200 CEO delle società più importanti degli Stati Uniti. Aziende che investono fino al 15% dei profitti in pubblicità, di cui oltre il 70% sui social network e che avrebbero potuto, con un solo clic, rimuovere campagne del valore di milioni di euro per protesta.
Non solo, all’inizio del 2017, 98 aziende (principalmente del settore tecnologico, come Google e Uber) avevano intentato un’azione giudiziaria contro il presidente Trump contestando la legge sull’immigrazione, che avrebbe limitato sensibilmente la concessione di visti di lavoro. Oltre a quell’episodio ci sono state anche le manifestazioni di “Black lives matter”, appoggiate apertamente da numerosi brand, ed indirettamente contrari alle azioni e alla cultura promossa da Trump.
Insomma, la guerra delle aziende di servizi, della moda, della tecnologia e persino della finanza al tycoon era già apertamente avviata. Un altro rischio era legato alle reazioni degli utenti. Immaginiamo un’onda di protesta, un movimento e magari un hashtag creati per segnalare l’indignazione provocata per non aver cancellato Trump dalla piattaforma. Avremmo potuto vedere milioni di utenti cancellare i propri account, migliaia di piccole aziende boicottare gli investimenti in ADV e chissà quante altre conseguenze.
Per i social network più famosi al mondo, la scelta di rimuovere Trump può essere stata inserita in una strategia di cautela e tutela dell’interesse dei maggiori investitori sulle piattaforme. Una scelta consentita dai “Termini e condizioni”, un documento contrattuale che ogni utente accetta prima di iscriversi ad un sito, ma che in pochi leggono. Le scelte di Facebook e Twitter, prima che politiche, potrebbero quindi essere economiche, ed una cosa è certa: continueranno a far discutere.
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