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Home » Economia

“Lo Stato entri in Stellantis (come chiedeva FdI)”: intervista a De Palma (Fiom)

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Michele De Palma, segretario generale della Fiom-Cgil. Credit: AGF

“Tra gli azionisti della multinazionale c’è il governo francese. Per bilanciare le posizioni anche il nostro deve diventare socio. Lo diceva pure Urso, che oggi è ministro dello Sviluppo economico”. Parla il segretario generale della Fiom-Cgil

Michele De Palma, segretario generale della Fiom-Cgil, è preoccupato: «In Italia – analizza – si parla troppo poco del futuro dell’industria dell’automotive. A differenza di quanto avviene in altri Paesi, come Francia o Germania, il tema qui non è al centro di un confronto pubblico. E questo è un punto di debolezza per noi: rischiamo che i riflettori si accendano solo quando ormai non ci sarà più niente da fare, cioè quando i cancelli delle fabbriche chiuderanno».

De Palma, l’Ue ha stabilito che dal 2035 in Europa sarà vietato vendere auto nuove alimentate a benzina, diesel, metano e gpl. Giusto o sbagliato?
«Bruxelles ha preso questa decisione sulla scorta di valutazioni scientifiche: raggiungere gli obiettivi climatici è fondamentale per la salvaguardia dell’umanità e del Pianeta. Il tema è come si negozia la transizione industriale raggiungendo obiettivi sia ambientali sia sociali». 

Proprio in vista della transizione green, voi della Fiom, insieme ai colleghi della Fim-Cisl e della Uilm-Uil e agli imprenditori di Federmeccanica, avete lanciato un allarme: «Senza interventi di politica industriale, l’automotive in Italia perderà 73mila posti di lavoro entro il 2040». Cosa si può fare per scongiurare questo scenario?
«Il nostro Paese ha una capacità installata di produzione da 1,8 milioni di vetture all’anno che non viene sfruttata: nel 2021 ne abbiamo assemblate meno di 500mila. Per prima cosa occorre chiedere a Stellantis di produrre più modelli nel nostro Paese e “aprire” l’Italia ad altri produttori». 

E poi, cos’altro?
«Le auto elettriche hanno bisogno di batterie, semiconduttori, di ricerca e sviluppo… Ecco, tutte queste cose dovremmo programmare di farle in Italia, perché, se le andremo a comprare all’estero, qui perderemo posti di lavoro. Ma questa programmazione non la vedo: più che in una fase di transizione, siamo in una fase di dismissione dell’industria dell’automotive».

Ha citato i semiconduttori. Ma oggi quel mercato è stra-dominato dall’Asia: davvero l’Italia può dire la sua?
«Nel nostro Paese abbiamo già due aziende che producono semiconduttori: STMicroelectronics e  Micron: non abbiamo un problema di capacità, ma di scelta. Mi spiego: un’azienda, per produrre semiconduttori, ha bisogno di un’altra azienda che le fornisca le linee produttive necessarie a sfornare i chip. Quando dico che in Italia c’è un problema di programmazione mi riferisco a questo: va fatta l’analisi di quello che c’è installato, l’analisi dei bisogni che pone il mercato e in considerazione di tutto ciò attirare gli investimenti». 

Questa programmazione manca, dunque.
«Al ministero dello Sviluppo economico neanche sanno qual è lo scenario dentro il quale ci troviamo. Glielo posso confermare perché mi capita di frequentarlo spesso».

Lo scorso 18 gennaio voi dei sindacati metalmeccanici siete stati ricevuti dal neo-ministro, Adolfo Urso. Avete riscontrato discontinuità rispetto agli ultimi esecutivi?
«Era solo il primo incontro, quindi non esprimo giudizi. Ma non abbiamo apprezzato che il Governo abbia deciso di fare un tavolo con le imprese separato dal tavolo con i sindacati».

Cosa avete detto al ministro sulla crisi dell’auto?
«Che serve un grande piano specifico con risorse straordinarie».

Per fare cosa?
«Spesso in questi anni sono state erogate risorse alle imprese per agevolare trasversalmente i processi produttivi. Noi della Fiom riteniamo invece sia arrivato il momento di discutere di investimenti su determinati prodotti».

Può spiegare meglio?
«Significa che io, governo, finanzio te, impresa, se realizzi un certo prodotto finito in Italia. Non siamo più nella globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta. Il piano Usa da 750 miliardi di dollari innescherà un processo di reshoring delle attività produttive. A fronte di questo devono essere fatte delle scelte di politica industriale in termini di fiscalità, investimenti diretti e anche ingresso in equity». 

Pensa che lo Stato italiano debba entrare come azionista in Stellantis?
«L’ho sempre pensato. Già nel 2020 dissi che il famoso prestito Covid da 6 miliardi di euro concesso a Stellantis dallo Stato tramite Sace dovesse essere convertito in ingresso in equity. Sarebbe un modo per bilanciare la presenza nell’azionariato del governo francese».

Questa è sempre stata la posizione anche di Fratelli d’Italia. Tra l’altro l’anno scorso anche il Copasir presieduto dallo stesso Urso disse che lo Stato doveva entrare in Stellantis. Ne avete parlato con il ministro?
«No: faremo un incontro specifico su Stellantis e sarà quella l’occasione per discuterne. Certo, sarebbe un elemento che darebbe maggior equilibrio nel settore in Europa. Consideriamo anche che lo Stato della Baviera è socio di Volkswagen».

Torniamo all’auto elettrica. Prendiamo un operaio 50enne che ha assemblato per tutta la vita motori a scoppio: quale mansione può andare a svolgere?
«Spesso, da un punto di vista di assemblaggio, i processi dell’auto elettrica non richiedono capacità straordinariamente differenti da quelle delle endotermiche. Serviranno ammortizzatori sociali e formazione. Ma questo si collega a un altro problema».

Quale?
«In diverse aziende del settore l’età media è molto elevata: bisogna costruire un percorso che, da un lato, mandi in pensione chi è prossimo all’età pensionabile e, dall’altro, faccia entrare nuova forza lavoro più giovane».


Per produrre auto elettriche, serve che ci sia qualcuno che poi le compra. Ma oggi il prezzo scoraggia molti clienti: le ricaricabili rappresentano appena l’8,6% delle nuove immatricolazioni in Italia. L’amministratore delegato di Stellantis, Tavares chiede incentivi pubblici all’acquisto. È d’accordo?
«Gli incentivi servono, ma vanno commisurati ai redditi dei clienti: e per fortuna nell’ultima Legge di Bilancio questo punto è passato. Tuttavia i bonus drogano il mercato, quindi bisogna considerare anche il rapporto tra la marginalità delle imprese e il prezzo delle auto: e se si guarda ai conti e agli obiettivi raggiunti non mi sembra che Stellantis stia soffrendo sulle marginalità. Tavares vuole i bonus, ma servono anche investimenti sull’industria».

Nel 2022, su 700 milioni di eco-incentivi, quasi 300 milioni sono rimasti inutilizzati. Perché secondo lei?
«Non vorrei che si sottovalutasse la crisi del mercato dell’auto: i beni durevoli sono quelli che pagano per primi lo scotto dell’inflazione e delle conseguenti paure».

Intanto le auto elettriche cinesi a basso costo sono pronte a invadere l’Europa…
«C’è bisogno di un consorzio europeo dei produttori della mobilità: non ha senso spendere risorse nazionali per competere fra Paesi e multinazionali in Europa. Il confronto con gli Usa e la Cina è possibile soltanto se ci mettiamo insieme. Ma per questo serve la politica».

Che aria si respira nelle fabbriche e negli uffici italiani di Stellantis?
«Con la fusione Fca-Psa ci si aspettava un miglioramento, e invece le cose sono persino peggiorate. C’è una fortissima sfiducia: 5mila lavoratori hanno lasciato l’azienda negli ultimi due anni fra prepensionamenti e uscite volontarie incentivate. E intanto si va avanti ancora con gli ammortizzatori sociali. A tutto questo va aggiunto che con i piani di efficientamento decisi dal management le condizioni di lavoro sono peggiorate».

Non rimpiangerà l’era Marchionne?
«No, perché tutto questo è iniziato proprio con quell’era. Marchionne di fatto aveva impostato la discussione con i sindacati così: “Voi mi date il contratto specifico e io vi do il lavoro e i salari tedeschi”. Abbiamo visto com’è andata».

La decisione di costruire una delle tre gigafactory europee del gruppo a Termoli, però, è una buona notizia. No?
«Per ora abbiamo visto solo l’annuncio di Stellantis e lo stanziamento di fondi statali, ma sul quando l’operazione inizierà e come si farà, ad oggi non sappiamo nulla».

Fino a trent’anni fa l’Italia era il terzo produttore europeo di auto, oggi siamo scivolati al settimo posto. Possiamo ancora competere con Francia e Germania?
«Sì, perché nel nostro Paese abbiamo un “saper fare” e un “saper pensare” che resiste. C’è ancora, nonostante le scelte sbagliate fatte in questi anni da certe imprese».

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