Stellantis al palo, se salta la gigafactory di Termoli salta l’intero automotive italiano
La fabbrica di batterie di Termoli è l’ultima speranza di sopravvivenza per l’auto tricolore. Ma la multinazionale ex Fiat ha deciso di sospendere il progetto perché vuole abbassare i costi. E intanto nel resto d’Italia continua a tagliare il personale e delocalizzare all’estero
La sera dell’8 luglio 2021, nelle case dei 2mila operai Stellantis di Termoli, si era brindato. L’amministratore delegato Carlos Tavares aveva appena annunciato che la vecchia fabbrica molisana di motori a scoppio sarebbe stata trasformata in un moderno polo produttivo di batterie per auto elettriche. «Gigafactory», l’aveva chiamata.
Alle orecchie dei lavoratori termolesi, spaventati dall’elettrificazione imposta dalla Commissione europea al settore automotive, che dal 2035 manderà in pensione i propulsori a benzina e diesel, le parole del manager portoghese erano suonate come una garanzia di occupazione a lungo termine, la rassicurazione sul fatto che nell’industria automobilistica del futuro ci sarebbe stato spazio anche per loro.
Tre anni dopo, invece, il sollievo ha di nuovo lasciato il posto all’inquietudine. Lo scorso giugno Stellantis ha improvvisamente messo in stand-by l’idea della gigafactory. «Dobbiamo fare i conti con un rallentamento della penetrazione dell’auto elettrica nel mercato che gli automaker europei non si aspettavano», ha spiegato Tommaso Pavoncello, responsabile comunicazione di Acc (Automotive Cells Company), la joint venture cui fa capo il progetto, guidata da Stellantis e partecipata da Mercedes e Total.
L’azienda assicura che la fabbrica di batterie è ancora nei piani, ma ha deciso che per costruirla e renderla operativa bisognerà aspettare lo sviluppo di nuove tecnologie in grado di abbassare i costi delle celle. Il progetto – del valore di 2 miliardi di euro – è rinviato a tempo indeterminato, anche se qualche indicazione più precisa dovrebbe arrivare entro il primo trimestre del prossimo anno.
Di conseguenza, lo scorso 17 settembre il Governo italiano – per bocca del ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso – ha comunicato che il finanziamento pubblico all’opera da 400 milioni di euro che era previsto dal Piano nazionale di Ripresa e Resilienza sarà dirottato altrove.
Intanto nello stabilimento di Termoli si stanno progressivamente dismettendo le produzione di cambi e motori endotermici. E si sta facendo massiccio ricorso alla cassa integrazione.
Tutta Europa in crisi
«Se la gigafactory non dovesse farsi, sarebbe una notizia drammatica per l’intero automotive italiano», dice a TPI Michele De Palma, segretario generale del sindacato Fiom-Cgil. «La presenza di una fabbrica di batterie è indicatrice del numero di veicoli elettrici che vengono prodotti in quel territorio e il nostro è ormai l’unico tra i grandi Paesi europei a non averne nemmeno una». Detto in altri termini: una gigafactory garantisce un futuro non solo a chi ci lavora ma anche a chi è impiegato negli stabilimenti vicini che producono veicoli elettrici e che da quella fabbrica di batterie si riforniscono.
Termoli oggi è ai primi posti nella lunga lista dei problemi del settore automobilistico che i sindacati dei metalmeccanici sventolano unitariamente da almeno due anni e mezzo. I ritardi sul fronte elettrico e digitale, i rincari sui costi dell’energia e delle materie prime e il crollo del potere d’acquisto dei consumatori deprimono sia la produzione sia le vendite.
Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm-Uil hanno indetto per il 18 ottobre uno sciopero nazionale di 24 ore – con manifestazione di protesta a Roma – che coinvolgerà l’intero comparto industriale dell’auto, incluse le aziende della componentistica: un sistema che conta complessivamente 272mila lavoratori e che vale 100 miliardi di euro di fatturato annui, pari all’11% dei ricavi totali generati dalla manifattura italiana.
«La situazione è sempre più critica: in assenza di una netta inversione di direzione, rischia di essere irrimediabilmente compromessa la prospettiva industriale e occupazionale», sottolineano le sigle.
In Italia siamo passati dagli 1,2 milioni di veicoli prodotti da Fiat nel 2007 ai 751mila di Stellantis del 2023 e nei primi nove mesi del 2024 si è registrato calo del 31,7% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: di questo passo, si rischia di arrivare al 31 dicembre sotto quota 500mila veicoli, ben lontani dall’obiettivo «un milione» che il Governo e Stellantis hanno concordato di raggiungere entro il 2030.
Il nostro Paese – che a differenza di altri vanta un solo costruttore e porta con sé bollette energetiche più care – è tra i malati più gravi nel contesto di un’industria automobilistica europea in profonda difficoltà, come dimostrano i licenziamenti paventati dai tedeschi di Volkswagen e gli ultimi dati sulle vendite (-18,3% nell’Ue ad agosto).
Per questo i sindacati italiani chiedono «urgenti interventi» non solo al Governo Meloni, a Stellantis e alle aziende della componentistica, ma anche alla Commissione europea: Bruxelles, secondo Fiom, Fim e Uilm, è chiamata a «imprimere più forza ai cambiamenti tecnologici, accompagnando questo cambiamento con un serio e deciso piano di salvaguardia occupazionale».
Ferdinando Uliano, segretario generale della Fim, punge anche l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi, che nel suo rapporto sulla competitività dell’Ue ha incluso il tema della crisi dell’automotive: «Sul settore industriale più importante d’Europa – osserva Uliano – si sta abbattendo una tempesta perfetta e ci dispiace che Draghi se ne accorga solo ora. Quando era premier, Fim, Fiom e Uilm denunciavano con forza la necessità di un fondo europeo sull’auto, perché gli 8 miliardi di euro in 8 anni stanziati dal suo governo non erano sufficienti».
Arrivano i cinesi
La principale minaccia per l’automotive del Vecchio Continente arriva, come noto, dalla Cina. Fino a vent’anni fa il Paese del Dragone sfornava appena 2,5 milioni di autovetture all’anno, oggi con 25 milioni assorbe da solo un terzo della produzione mondiale ed è ormai leader assoluto nel mercato dell’elettrico. Nel 2023 su 10 auto a batteria vendute nel mondo, 6 sono state immatricolate nella Repubblica popolare. Dazi permettendo, le quattro ruote cinesi sono pronte a invadere il mercato europeo.
Di fronte a questo scenario, il Governo italiano da una parte si agita a Bruxelles per rinviare l’entrata in vigore dello stop ai motori endotermici, ma dall’altra tratta con i cinesi di Dongfeng per convincerli a venire a produrre veicoli elettrici nel nostro Paese.
Anche Stellantis cerca di rosicchiare qualcosa dallo tsnuami proveniente dall’Asia. Un anno fa la multinazionale nata dalla fusione tra Fiat-Chrysler e Peugeot ha comprato per 1,5 miliardi di euro il 20% della cinese Leapmotor, specializzata nella fascia di mercato medio-alta, assicurandosi l’esclusiva su commercializzazione e fabbricazione all’estero dei modelli a batteria del marchio.
Ma il mercato dei veicoli elettrici in Italia e in Europa fa una gran fatica a decollare. Nei primi otto mesi del 2024 le vendite sono calate del 12,3% nel nostro Paese e dell’8,3% nell’Ue rispetto allo stesso periodo dell’anno passato. Nel solo mese di agosto la perdita è stata addirittura del 40,9% in Italia e del 43,9% nell’Unione. Per questo Stellantis e Acc hanno sospeso il progetto della gigafactory di Termoli.
A marzo erano iniziati i lavori propedeutici per la costruzione del nuovo stabilimento – su un’area da 1,2 milioni di metri quadrati – con la prospettiva di avviare la produzione all’inizio del 2026 e di convertire alle batterie entro il 2030 tutti i 2mila operai oggi impiegati sui motori a scoppio. Poi però – a giugno – è arrivato il dietrofront. «La mobilità elettrica in Europa non gode di quella salute che gli automaker si aspettavano», ha motivato il manager di Acc Pavoncello.
La frenata non ha riguardato solo Termoli, ma anche Kaiserslautern, nel sud della Germania, dove era prevista l’edificazione di un’altra gigafactory. Erano in tutto tre le fabbriche di batterie che Acc aveva programmato di realizzare in Europa: la terza si trova a Douvrin, nella Francia nord-orientale, ed è stata inaugurata il 30 maggio 2023. Ciascuna delle tre avrebbe dovuto produrre batterie per 40 gigawattora all’anno, tuttavia per ora ci si dovrà accontentare di ciò che assembleranno i soli operai francesi.
Prima di procedere con i due stabilimenti in Molise e Renania, Stellantis e i suoi soci Mercedes e Total vogliono valutare tecnologie alternative in grado di abbassare del 20/30% il costo delle batterie, che – va sottolineato – incide circa per il 40% sul prezzo finale di un’auto elettrica.
Inizialmente Acc puntava sulle celle agli ioni di litio, ma ora ci si potrebbe riorientare su quelle al litio ferro fosfato (Lfp), meno potenti ma più economiche.
La società leader mondiale nella produzione di batterie Lfp è la cinese Catl, con cui lo scorso novembre Stellantis ha stretto un accordo di fornitura. E negli ambienti dell’automotive già si vocifera di una gigafactory da realizzare in partnership in Spagna.
Molise specchio d’Italia
La vicenda di Termoli è per certi versi emblematica dell’incertezza che avvolge i lavoratori italiani della multinazionale presieduta da John Elkann.
Tra il 2021 e il 2023 l’azienda ha intrapreso un imponente piano di uscite incentivate che ha convinto – stando ai sindacati – 7mila dipendenti a licenziarsi in cambio di una lauta buonuscita: significa una riduzione di circa il 14% della forza lavoro nel giro di appena trentasei mesi. E nel 2024 sono previsti ulteriori 3.800 esodi.
L’amministratore delegato Taveres ha recentemente inaugurato a Mirafiori un hub per i veicoli commerciali che impiegherà 80 colletti bianchi, mentre un altro centinaio di tecnici lavora nel Battery Technology Center dove si testano le batterie. Ma intanto la maxi-fabbrica torinese è pressoché ferma da luglio: nei primi nove mesi del 2024 la produzione è crollata del 68% rispetto all’anno precedente. A Melfi il calo è stato del 62%, a Cassino del 52%, a Modena del 75%, a Pomigliano dell’8%.
I sindacati stimano che nel corso del 2025 ci saranno 25mila lavoratori, tra dipendenti diretti e indotto, che vedranno scadere i propri ammortizzatori sociali. A meno di un’assai improbabile inversione di tendenza nella congiuntura, sarà quindi necessaria l’ennesima iniezione di denaro pubblico per sostenere le difficoltà di Stellantis.
«La situazione è diventata irreversibile», denuncia Rocco Palombella, segretario generale della Uilm. «Non c’è nessuna prospettiva di rilancio degli stabilimenti in grado di assicurare la piena occupazione».
In compenso, la multinazionale ha scelto di produrre all’estero alcuni dei nuovi modelli a marchio Fiat. La Topolino elettrica è assemblata ad Amy, in Marocco; la Grande Panda elettrica a Kragujevac, in Serbia; la Lancia Ypsilon a Saragoza, in Spagna; la Seicento a Tichy, in Polonia, così come la Alfa Romeo Junior, che avrebbe dovuto chiamarsi “Milano” prima del battibecco sull’italianità avuto col Governo Meloni. Non solo: tutte queste – tranne la Topolino – hanno motori francesi Peugeot.
Delle 505mila auto vendute nel nostro Paese da Stellantis nel 2023, meno della metà sono uscite da stabilimenti italiani. «In Italia abbiamo solo fabbriche vuote e cassa integrazione. C’è da indignarsi», ha dichiarato pubblicamente nei giorni scorsi Luca Cordero di Montezemolo, ex presidente di Fiat e Ferrari, non certo un bolscevico sindacalista.
Tute blu in ansia
Alla luce di tutto questo, si comprende meglio il ruolo di traino vitale che un polo produttivo proiettato nel futuro come la gigafactory di Termoli avrebbe per l’intero sistema industriale nazionale.
Il sito molisano era un’eccellenza della meccanica italiana sui motori a benzina: fino a non molto tempo fa qui lavoravano 3.600 operai e si arrivava a costruire anche un milione di propulsori all’anno. Oggi invece lo stabilimento si sta pericolosamente svuotando: all’inizio del 2024 è stato smantellato l’impianto per la realizzazione dei cambi, mentre i motori Fire, Gse, Gme e V6 registrano fortissime flessioni produttive, tanto da rendere necessario il ricorso alla cassa integrazione.
Dopo aver messo in stand-by la fabbrica di batterie, Stellantis si è impegnata a portare a Termoli nei prossimi mesi i motori per la Cinquecento ibrida e la Panda ibrida, ma questo non basta a tranquillizzare i lavoratori.
«Se non si producono almeno 6/700mila motori all’anno, il posto per tutti i 2mila dipendenti non c’è», fa notare Marco Laviano, segretario regionale della Fim Molise. «Il progetto di reindustrializzazione attraverso la gigafactory deve assolutamente essere confermato, altrimenti c’è il forte rischio di chiudere». Anche perché Stellantis sta andando avanti con il suo piano che prevede di vendere solo auto elettriche a partire dal 2030: i motori ibridi, insomma, possono essere solo una soluzione transitoria, perché nel giro di cinque anni non saranno più in produzione.
«Per il futuro sentiamo molti proclami, ma la fotografia dell’oggi vede produzione in esaurimento e cassa integrazione. E fare programmi anche solo da qui a tre anni, con questo mercato e queste tecnologie così in evoluzione, è problematico», lamenta Gianluca Falcone, segretario regionale della Fiom.
Davanti all’incertezza manifestata da Acc, il ministro Urso ha revocato il finanziamento pubblico alla gigafactory previsto dal Pnrr – perché quei soldi vanno spesi tassativamente entro il 2026 – ma si è detto disponibile a sostenere il progetto con altri fondi quando l’azienda avrà le idee più chiare.
Entro fine mese sarà convocato un nuovo vertice al ministero, ma prima del nuovo anno difficilmente cambierà qualcosa.