Dopo il Recovery torna l’austerity: Schaeuble e l’Europa avvisano Draghi e l’Italia
L'ex ministro tedesco Wolfgang Schaeuble, oggi presidente del Bundestag, scrive sul Financial Times che "urge tornare a una severa disciplina fiscale". E avverte: "Ne ho parlato più volte con Draghi, siamo d'accordo"
Il ritorno del patto di stabilità, le critiche alle misure di protezione sociale e una vecchia quanto insistente proposta che puzza di commissariamento. È il quadro che emerge negli ultimi mesi in Europa dove, con particolare riferimento all’Italia, si torna a discutere di disciplina di bilancio, riduzione del debito e ritorno a una normalità in cui le percentuali del deficit dominano le scelte di politica economica, come se la crisi innescata dalla pandemia di Covid fosse già conclusa e non appena all’inizio.
Nel giro di poco meno di un mese, si sono susseguiti una serie di segnali indirizzati al nostro Paese (e non solo) e al presidente del Consiglio, Mario Draghi. A partire dalle previsioni economiche di primavera divulgate nella prima metà di maggio dalla Commissione europea, da Bruxelles e oltre si moltiplicano gli allarmi sullo stato di salute dell’economia italiana e le valutazioni sulle scadenze delle misure di sostegno.
Tra le raccomandazioni approvate collegialmente dalla Commissione figura ad esempio una critica al blocco ai licenziamentivoluto dal governo di Giuseppe Conte, considerato “superfluo” e dannoso per certe categorie, e l’appoggio alla linea dell’attuale esecutivo volta a superare gradualmente il provvedimento, offrendo un assist a Confindustria.
Inoltre, secondo la Commissione, il nostro Paese continua a soffrire di “eccessivi squilibri macroeconomici” dovuti a un elevato livello del debito, alla bassa produttività e a un mercato creditizio in sofferenza. Di fatto, pur figurando tra gli Stati membri in maggiore difficoltà dal punto di vista macroeconomico, grazie alla sospensione del Patto di stabilità finora l’Italia ha potuto evitare di incorrere nella procedura di infrazione ma deve comunque fare attenzione alle finanze pubbliche nonostante la sospensione delle regole di bilancio confermata anche per il 2022.
In questo clima, la scorsa settimana il vicepresidente lettone della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, ha paventato il ripristino del Patto di stabilità nel 2023, mentre sono arrivati i primi avvertimenti a Italia, Cipro e Grecia ad usare prudenza nello spendere i fondi europei, a “limitare la crescita delle spese”, favorendo gli investimenti “in ricerca, istruzione e infrastrutture pubbliche” in luogo della spesa corrente. Il ritorno alle regole di bilancio, nelle intenzioni del commissario all’Economia ed ex premier Paolo Gentiloni, sarebbe comunque accompagnato da una volontà di riforma del Patto, considerato “troppo complesso” e di fatto ormai obsoleto nel quadro creato dalla pandemia, un progetto però già avversato da diversi Paesi membri, tra cui Austria, Germania, Finlandia e Svezia.
A questo punto riemerge una vecchia proposta, che suona quasi come una minaccia di commissariamento, rimessa sul tavolo dall’ex ministro delle Finanze tedesco e attuale presidente del Bundestag Wolfgang Schaeuble che, citando espressamente l’Italia e il presidente del Consiglio Mario Draghi, dalle colonne del Financial Times ha riproposto “un patto di riscatto del debito per la zona euro” sul modello dello storico fondo di ammortamento istituito da Alexander Hamilton nel 1792 per gli allora nascenti Stati Uniti, un’idea già presentata a metà maggio sulle pagine de Il Sole 24 Ore.
Il politico tedesco prende le distanze dalla propria reputazione di falco dell’austerity, ricordando di aver sempre avuto soltanto a cuore il tema della sostenibilità del debito. “Prendere a prestito in tempi di crisi per stabilizzare l’economia ha senso, purché non si dimentichi la questione del rimborso”, scrive Schaeuble. In quest’ultimo caso, secondo l’ex ministro, si rischia di alimentare una continua espansione del debito sovrano e quindi di accrescere le pressioni inflazionistiche.
Dopo aver citato l’economista John Maynard Keynes e le sue valutazioni sull’inflazione come potenziale fattore in grado di “rovesciare le basi esistenti della società”, il presidente del Bundestagprosegue il ragionamento collegando l’eccessivo debito pubblico ai rischi “per la tenuta del tessuto sociale“. “La maggior parte dei creditori degli Stati sono individui ed entità benestanti. Il debito pubblico aumenta la loro ricchezza, allargando il divario tra ricchi e poveri”, sottolinea l’ex ministro tedesco, secondo cui il divario tra “abbienti” e “meno abbienti” rappresenta un’enorme minaccia per la coesione sociale.
La soluzione proposta da Schaeuble è il ritorno “alla normalità monetaria e fiscale”, ossia al Patto di stabilità aumentando però i controlli, magari attraverso un’istituzione ad hoc con nuovi poteri. “L’esperienza mostra che i bilanci in pareggio nei Paesi con alti livelli di debito sono quasi irraggiungibili, senza pressioni esterne”, afferma il politico tedesco, cheindirizza esplicitamente il discorso all’Italia.
“Ho discusso più volte di questo ‘azzardo morale’ con Mario Draghi. Siamo sempre stati d’accordo che, data la struttura dell’Unione monetaria europea, la competitività e le politiche finanziarie sostenibili siano responsabilità degli Stati membri. Sono sicuro che intende sostenere questo principio come Presidente del Consiglio italiano. È importante per l’Italia e per l’Ue nel suo insieme”, scrive l’ex ministro tedesco, che prosegue con un avvertimento. “Altrimenti avremo bisogno di un’istituzione europea con poteri in grado di far rispettare le regole concordate insieme. Ciò richiederebbe delle modifiche ai trattati. Eppure, anche senza queste ultime, la Commissione europea sta assumendo maggiore importanza in questo ambito”.
Al di là della risibile quanto orribile idea che per tutelare la coesione sociale si debba adottare uno strumento coercitivo della sovranità finalizzato a far rispettare “una disciplina di bilancio più rigorosa”, il cui effetto primario è stato storicamente proprio il ridimensionamento della spesa per il welfare, le ultime righe sembrano alludere a una sorta di commissariamento. Si tratta in realtà di una proposta di dieci anni fa del Consiglio degli esperti economici della Germania, il cosiddetto “European redemption pact“.
L’iniziativa prevede l’istituzione di un Fondo europeo di rimborso a cui tutti i Paesi membri dell’Ue dovrebbero conferire la quota di debito eccedente la soglia del 60 per cento prevista dal Patto di stabilità, assumendosi l’obbligo di rimborsare le somme erogate entro 25 anni e impegnandosi a non oltrepassare ulteriormente tale livello di indebitamento. Il vantaggio per gli Stati molto indebitati è che pagherebbero tassi di interesse inferiori sulla quota trasferita al Fondo, obbligandosi in cambio a rispettare una serie di condizioni, come l’accantonamento del gettito di una specifica imposta per assicurare il rimborso dei debiti, il deposito di determinate garanzie e l’adozione di una serie di riforme strutturali.
Insomma ben più di un semplice strumento finanziario. Come ha scritto Schaeuble sulle colonne del Financial Times, “non è un semplice problema economico”, ma una questione politica e di primaria importanza. Prima di impegnare il Colosseo, o meglio una quota delle riserve del Paese, dovremmo forse guardare il calendario. Non siamo più nel Settecento.
Nonostante le inquietanti pulsioni verso la progressiva contrazione della rappresentanza, alimentate in Italia da quasi tre decenni di martellanti campagne per la presunta “governabilità” e il “voto utile” a tutto discapito del principio elementare “un cittadino, un voto”, non possiamo riportare il dibattito a un salotto frequentato da gentiluomini à la Alexander Hamilton, Benjamin Constant o John Stuart Mill.
Il caso storico citato dal presidente del Bundestag riguarda un fondo di ammortamento del debito concepito come uno degli strumenti di una politica di mutualizzazione delle responsabilità volta alla nascita di uno Stato federale e non un semplice metodo di riscossione dei prestiti. Un mezzo politico deve presupporre un fine politico e se fosse questo il caso un tale salto istituzionale richiederebbe ben più della modifica di qualche trattato.
Come ricordato qualche anno fa da Mario Draghi in audizione al parlamento dei Paesi Bassi, citando il pensiero di uno dei padri dell’integrazione europea quale Jean Monnet, la zona euro si fonda su due principi fondamentali: la convergenza e la fiducia.
Assolvendo l’ex ministro delle Finanze tedesco da qualsivoglia intento di supremazia di una nazione sulle altre mascherata da commissariamento di uno o più Stati membri per il bene di tutti, l’idea di fondare semplicemente “un’istituzione europea con il potere di far rispettare le regole” sulla base dell’assunto che “senza pressioni esterne, è pressoché impossibile realizzare bilanci equilibrati nei Paesi ad alto debito” non va nella direzione dell’integrazione, al contrario.
Se il processo di convergenza dei Paesi europei segue la strada tracciata dalla nascita del mercato comune e dall’aver coniato una moneta unica per concludersi idealmente con un’unione politica (non ancora raggiunta), ogni forzatura promette solo di aumentare i rischi di disgregazione proprio perché mina la fiducia. Ed è questo il punto: la fiducia di chi? Non dei mercati, degli Stati o dei creditori ma degli europei.
Il problema del “controllo politico” a livello comuntario, che sia del debito o di altro, è intrinsecamente legato alla questione di un’adeguata rappresentanza dei cittadini, a cui oggi è privilegiata quella degli Stati. Un principio decisamente non garantito dall’organo citato dall’ex ministro delle Finanze tedesco, quella Commissione europea che starebbe “assumendo maggiore importanza nel far rispettare le regole” e di cui non si riesce nemmeno ad assicurare l’elezione indiretta del presidente attraverso le consultazioni per il Parlamento europeo.
Unico organismo quest’ultimo veramente eletto e sottoposto per lo meno all’andamento del consenso ma con poteri molto limitati rispetto alla propria controparte, quel Consiglio europeo che decide effettivamente le sorti dell’Unione e in cui i ministri (nelle sue varie configurazioni) e i leader dei singoli Stati membri (nella sua composizione anomala) governano di fatto l’Ue.
Ammesso che i popoli europei abbiano intenzione di dare vita a un progetto confederale o addirittura federale, la convergenza degli indicatori politici, economici, civili e sociali dei singoli Paesi andrà accompagnata all’aumento della fiducia dei cittadini nelle nuove istituzioni, un obiettivo che potrà essere raggiunto soltanto attraverso la progressiva partecipazione e un salto di qualità nella rappresentanza, ad esempio riequilibrando ulteriormente i poteri tra Parlamento e Consiglio e magari trasformando in seggi elettivi i voti controllati in questa sede da ciascuno Stato con la proporzionale riduzione dei parlamentari.
Eppure nessuna di queste ricette potrà mai funzionare né sarà possibile un vero rilancio del progetto europeo senza due fattori fondamentali: la crescita e la giustizia sociale. È solo questa la soluzione principe ai problemi del debito come del consenso all’integrazione continentale, non certo la coercizione ma i diritti.
Per la maggior parte degli oltre 446 milioni di cittadini europei infatti la politica è limitata al lavoro e alla salute, la cui garanzia resta imprescindibile per il successo dell’Unione europea e in generale di qualsiasi comunità politica.