Raffaele Mattioli, la solitudine del banchiere
Cinquant’anni fa moriva il grande banchiere della Comit, protagonista della rinascita del Paese. Esponente di una classe dirigente colta e aperta. Che resistette al fascismo e costruì la democrazia. Guardando sempre e solo all’interesse generale
Ben prima che manager, finanzieri, industriali, capi-azienda fossero affascinati dalle tentazioni del facile arricchimento, dalla sbornia delle stock options, dai premi di risultato, dai privilegi dei rialzi in Borsa, l’Italia ha avuto una classe dirigente di altissimo livello. Una classe dirigente preparata, responsabile, colta, aperta alle innovazioni e ai cambiamenti.
Questo Dna traspariva in uomini capaci di perseguire il profitto, il positivo risultato di bilancio, l’adeguata remunerazione del capitale, ma nutrendo l’ambizione di operare per l’interesse generale, un’aspirazione quasi illuministica, un’idea progressista nel Novecento ma che oggi, nell’epoca dell’epidemia sovranista e populista, rischia di essere sospettata di simpatie socialiste per non dire di peggio.
L’interesse generale era per Raffaele Mattioli, banchiere della Banca Commerciale Italiana e protagonista dell’economia del dopoguerra, la bussola per muovere interessi, investimenti, finanziamenti, sviluppo.
Una bussola capace di stimolare il pensiero, di aprire ogni porta intellettuale e politica (fosse il confronto con il leader del Partito comunista Palmiro Togliatti o l’amicizia con il filosofo Benedetto Croce), di resistere al regime di Mussolini, pur guidando una banca di interesse nazionale posseduta dall’Iri, di far espatriare in Sud America i suoi stretti collaboratori di origine ebraica Antonello Gerbi e Giovanni Malagodi per salvarli dalle retate fasciste, di nascondere “I Quaderni del carcere” di Antonio Gramsci per mettere al sicuro un patrimonio che, così riteneva Mattioli, avrebbe dovuto nutrire la formazione culturale della classe dirigente della Repubblica.
Altri tempi, altre personalità dotate di un’anima europea, sensibili alla prospettiva di integrazione pacifica perché avevano vissuto il dramma della guerra, delle persecuzioni, delle distruzioni del Vecchio Continente.
A cinquant’anni dalla morte di Mattioli (sepolto all’Abbazia di Chiaravalle alle porte di Milano dove ogni anno per ricordare l’anniversario Enrico Cuccia faceva una delle sue rarissime uscite pubbliche) la sua opera e la sua figura di banchiere e di intellettuale sono state ricordate, analizzate e anche rimpiante da molti, sui quotidiani e in particolare in una giornata di studi a Milano organizzata da Intesa Sanpaolo, non solo per una giusta valutazione storica, ma quasi per cercare inconsapevolmente rifugio e consolazione in positivi esempi del passato alle tristi condizioni in cui versa l’élite che guida il Paese.
Mattioli, originario di Vasto, in Abruzzo, si arruola volontario nella Prima guerra mondiale, segue D’Annunzio nell’impresa di Fiume e, dopo la laurea alla Bocconi, entra a metà degli anni Venti alla Commerciale, dove lavorerà per quasi cinquant’anni. Mattioli appartiene al secolo delle tragedie e delle grandi speranze del Paese, ai disegni ambiziosi, al salvataggio pubblico delle imprese crollate con la crisi degli anni Trenta, alla sfida della ricostruzione post-bellica, alla trasformazione di un Paese prevalentemente agricolo in una potenza industriale.
Non deve sorprendere che larga parte della classe dirigente nazionale si formi durante la guerra e nella faticosa costruzione dello Stato democratico. Gli esempi sono molti, la storia parla e dovrebbe convincere anche i più severi tra i critici della presenza pubblica in economia.
Tocca a Mattioli e al collega Cuccia inventarsi Mediobanca, che esordirà nel 1946 come polo di finanziamento a medio e lungo termine e poi pronto soccorso per le ripetute difficoltà della grande industria privata.
Guglielmo Reiss Romoli, un nome che probabilmente oggi dice poco o niente ai consumatori accaniti di smartphone, creò quasi dal nulla la rete telefonica nazionale, unificando nella gloriosa e vituperata Stet quello che Ernesto Rossi definiva «lo spezzatino», cioè le piccole e inaffidabili compagnie locali.
Enrico Mattei, ex partigiano, sfidò i padroni mondiali del petrolio e garantì al Paese l’energia per l’industria e per le nostre case. Oscar Sinigaglia era l’uomo dell’acciaio, il propugnatore di una siderurgia moderna al servizio dell’industria, per alimentare le fabbriche del Nord da cui uscivano auto, frigoriferi, lavatrici, i beni di consumo del “miracolo” italiano.
Giuseppe Luraghi costruì, nel gruppo Iri-Finmeccanica, il mito dell’Alfa Romeo, lanciò il progetto di industrializzazione del Sud con Pomigliano d’Arco, combattendo la voracità dei partiti e la prepotenza della Fiat. E ancora va ricordato Donato Menichella, prima direttore generale dell’Iri, poi governatore della Banca d’Italia che accompagnò Alcide De Gasperi in America per ottenere il prestito che sarebbe servito per avviare la rinascita di un Paese distrutto.
Questi banchieri, questi manager nascono e operano in larga misura sul fronte pubblico perché dopo due conflitti mondiali, dopo la crisi del ’29, tocca allo Stato intervenire per mettere insieme i cocci e avviare un percorso di crescita.
Prima dell’invadenza dei partiti, prima della proliferazione dei “boiardi” che ammorba il sistema delle Partecipazioni Statali, la presenza dello Stato come azionista di controllo di grandi banche e gruppi industriali non pregiudica, almeno per diversi anni, la crescita e il successo delle imprese, né limita l’autonomia dei manager, della classe dirigente che assume la responsabilità di quelle imprese strategiche per il Paese.
Mattioli scendeva a Roma una volta l’anno, in treno. Prendeva il vagone-letto, si recava dai vertici dell’Iri, il suo azionista di controllo, ai quali illustrava il bilancio d’esercizio prima di portarlo all’esame dell’assemblea dei soci. Quindi riprendeva il treno per Milano. Niente di più.
La Commerciale, così come Mediobanca, appariva come una Repubblica autonoma che funzionava e Mattioli sapeva mantenere la barra dritta, difendeva l’autonomia con i buoni risultati. Non era subalterno all’azionista o alla politica che premeva, così come, per un altro verso, non esitava a sferzare gli egoismi, l’aridità culturale e la visione ristretta di certi capitalisti tricolori. Sempre così, fino al suo ultimo bilancio.
«Signori azionisti, anche questa volta, nel riferirvi sulla nostra gestione, ci limiteremo ad illustrare le voci e le cifre del nostro bilancio, che rispecchiano l’attività da noi svolta nell’interesse della nostra azienda che coincide con l’interesse dell’economia del Paese», spiega Mattioli nell’aprile 1972 intervenendo alla sua ultima assemblea dei soci, come racconta Sandro Gerbi in uno dei suoi volumi sul banchiere (“Mattioli e Cuccia. Due banchieri del Novecento”. Einaudi, 2011).
La filosofia è sempre la stessa: l’interesse della banca deve essere l’interesse del Paese. Mattioli muore un anno dopo. Presidente della Comit viene nominato l’ex ministro Gaetano Stammati, il suo nome emerge presto tra gli iscritti alla loggia P2 di Licio Gelli. Un segno dei tempi.