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Home » Economia

Pasquale Tridico a TPI: “Diamo ai giovani un lavoro (e un futuro) giusto”

Immagine di copertina

“Dobbiamo creare posti di qualità e migliori retribuzioni, anche per sostenere l’intero sistema del nostro Welfare. Il RdC ha ridotto il nero e l’evasione fiscale. Ci sono criticità sulle politiche attive, ma l’occupazione si crea con gli investimenti”. A TPI parla il presidente dell’Inps

Presidente Tridico, in questo libro lei ricorda anche la biografia di suo padre, e la sua storia.
«Se lo faccio, esponendo una parte della mia biografia più privata, è per dire una cosa importante: vede, io mi considero figlio del Welfare, un beneficiato della Stato sociale. E così cerco di amministrare l’Inps: con quello che oggi si definirebbe uno spirito di “restituzione”».

Perché questa definizione ha a che fare con la sua vita?
«Perché io sono figlio di un padre analfabeta di uno sperduto paesino della Calabria. Per la parte più importante della sua vita mio padre era a tutti gli effetti anche sordomuto».

Era?
«Poi, nel 1979 lo Stato sociale entra per la prima volta nelle nostre vite. La mia sorella maggiore, primogenita, vent’anni più grande di me, si trasferisce a Salerno per fare l’università. Con grandi sacrifici, e da fuorisede, si laurea».

E poi?
«Mentre studia, scopre che la sindrome di mio padre è curabile, e che la mutua poteva passargli – addirittura gratis! – un apparecchio acustico in grado di restituirgli quell’udito che lui pensava di non avere».

E così voi fate domanda alla mutua per l’apparecchio.
«Mio padre ottiene gratuitamente la sua protesi, torna a sentire, e questo per ovvi motivi gli cambia la vita».

In che modo?
«Recupera grazie alla protesi l’udito e – subito dopo – persino la parola. Anche se, per tutta la vita parlerà come un bambino, per lui sarà un salto enorme. Un cambio di condizione».

Quindi il figlio del Welfare è suo padre. Lei tuttalpiù è un nipote.
«Ma non è mica finita qui: un altro mio fratello, il secondo, va a studiare a Torino».

E cosa accade?
«Scopre che per le persone come mio padre esiste possibilità di quello che un tempo si chiamava “collocamento obbligatorio”».

Ovvero una possibilità di essere assunto. E dove lo trova il posto?
«Mio fratello convince mio padre a fare domanda per un posto da bidello in una scuola di Torino».

Riesce ad ottenerlo?
«Sì. Papà viene assunto nel 1981: così ci trasferiamo tutti sotto la Mole».

E così cambia anche la sua vita.
«Ci può giurare. È un viaggio non privo di traumi da un capo all’altro d’Italia».

Mi faccia un esempio.
«Le faccio il più banale, che riguarda proprio me. In Calabria, quando ero partito, ero il primo della classe».

E invece, nella nuova scuola?
«A Ferriera, in una periferia del Nord, divento subito l’ultimo. Per il mio inconfondibile accento calabrese forse, per le mie inflessioni dialettali, non so dire esattamente. Però accadde».

Cosa?
«Che io divento a tutti gli effetti “un terrone” e un “ultimo”. Per integrarsi bisogna avere fortuna e bisogna anche faticare molto. Però, dopo le difficoltà iniziali, la vita di tutti noi è cambiata in meglio».

Il cambio di condizione ha cambiato la sua prospettiva.
«Se tutto questo non fosse accaduto, io non sarei certo diventato professore universitario. E non sarei certo qui».

Lei, che di solito è riservato, ha scelto di raccontare questo episodio, e lo ha ricordato anche nel libro che ha scritto a quattro mani con il più grande esperto di previdenza, Enrico Marro del Corriere della Sera.
«Perché interpreto questo ruolo all’Inps con spirito istituzionale. Ma non posso negare neanche che nelle misure per cui mi sono impegnato – dal Reddito ai riders in passato e adesso al salario minimo – c’è sempre questa luce di passione che mi accompagna. L’idea di poter contribuire a cambiare la vita di qualcuno. E in meglio».

Nel libro scritto con Enrico Marro lei lancia un allarme.
«È il cuore del nostro saggio. Ed è un’emergenza che purtroppo oggi viene sottovalutata da tutti».

Lo racconti in modo semplice.
«In fondo è un problema complesso, ma facile da spiegare. In nessun campo come in quello previdenziale, il passato, il presente e il futuro sono strettamente connessi tra di loro».

E dunque?
«Le pensioni dei pensionati di oggi non si pagano attingendo a qualche misterioso pozzo di San Patrizio, ma con la contribuzione di chi è attualmente al lavoro».

I giovani pagano le pensioni ai vecchi.
«Esatto. Come abbiamo spiegato con Marro, quando abbiamo dovuto scegliere un titolo che fosse anche uno slogan ideale, abbiamo fatto questa sintesi: “Il lavoro di oggi contiene la pensione di domani”».

Pasquale Tridico mi riceve nel suo ufficio di Palazzo Wedekind, un’ampia stanza di uno dei plessi più belli di Roma, proprio di fronte a Palazzo Chigi. In Italia potere politico e la previdenza si guardano da vicino, ogni giorno. Lui, il padre del Reddito di cittadinanza, si trova a convivere con il governo di una maggioranza che ha fatto campagna elettorale per cancellare quella misura. Tridico precisa che – per quel che lo riguarda – il suo rapporto con il governo «è ispirato al principio civico sacro della correttezza e della continuità istituzionale». Ma – anche se non lo dice – di sicuro registra con una qualche soddisfazione il fatto che l’attuale ministro del Welfare, e diverse componenti del centrodestra, abbiamo attenuato il proposito iniziale dell’azzeramento totale della misura, costretti ad ammetterne il valore e (in alcuni casi, vedi la posizione di Forza Italia) la sua insostituibilità sociale. Tridico ha ancora un anno di mandato da svolgere in coabitazione con questo governo: quando fu nominato alla guida dell’ente per la prima volta, infatti, era “commissario”. Così il presidente dell’Inps non solleva polemiche, non organizza nessuna “guerriglia”, ma in questo saggio (pubblicato da Solferino) spiega numeri alla mano, e si concentra sul tema del salario minimo. Quella che per lui – sostiene – «dovrebbe essere la prossima battaglia di civiltà».

pasquale tridico
Nel libro “Il lavoro di oggi la pensione di domani” (Solferino Editore) scritto da Pasquale Tridico con Enrico Marro, il presidente dell’Inps spiega come sono nati il Decreto Dignità e il Reddito di cittadinanza e perché il futuro del Paese passa dall’Istituto di previdenza sociale

Professor Tridico, lei ha appena festeggiato i 125 anni del suo istituto alla presenza del presidente Mattarella.
«Poco fa abbiamo parlato del mio privato: ma pensi al ruolo della previdenza in Italia e al suo intreccio con la nascita e lo sviluppo dello Stato sociale».

Cioè?
«Discutevano con Andrea Riccardi, il presidente della fondazione Dante Alighieri e fondatore di Sant’Egidio, di un ricorso storico che mi affascina molto».

Quale?
«L’Inps e la prima previdenza in Italia non nascono con il fascismo, come recita una “fake news” purtroppo molto diffusa, ma nel 1919, quasi in contemporanea con le prime elezioni che nel nostro Paese si celebrano a suffragio universale (sia pure, all’epoca, solo maschile). O ancora prima, nel 1898, con la Cassa Nazionale di previdenza per l’invalidità e per la vecchiaia degli operai, allora facoltativa».

E poi?
«Poi, lo ricordavo nel mio discorso per il 125esimo anniversario dell’istituto, quando nel 1945 si libera l’Italia dalla dittatura, e nel 1946 con la Costituzione si estende il voto anche alle donne, arriva la prima importantissima riforma universalistica della previdenza».

Quale?
«Quella che per la prima volta estende il diritto alla pensione anche a chi non ha versato contributi a capitalizzazione, attraverso il fondo a ripartizione, primo strumento di solidarietà universalistica intergenerazionale».

Interessantissimo: lei che legame individua, fra questo doppia corrispondenza?
«Quando le masse entrano nella storia lo fanno chiedendo diritti. Quando arrivano i diritti elettorali, nel nostro Paese, arrivano anche i diritti sociali, e poi – di conseguenza – anche quelli previdenziali. Dovremmo sempre pensare a questo, quando parliamo di pensioni, di Stato sociale, di garanzie economiche e di assistenza».

Cioè?
«Non si tratta di un problema tecnico, o di un tema per addetti ai lavori. Ma di una questione che è intrecciata in modo indissolubile con la storia della democrazia in Italia. Mi consente una battuta?».

Certo.
«Siamo tutti “figli del Welfare” molto più di quanto non pensiamo».

Lei è orgoglioso di quello che siete riuscire a fare durante la pandemia.
«Sono stati giorni incredibili. Non è stato il successo di un singolo, o di qualche dirigente illuminato, ma il prodotto di un intero istituto, dal primo all’ultimo dipendente».

Pasquale Tridico
Tridico con il presidente della Repubblica Mattarella in occasione delle celebrazioni per i 125 anni dell’Inps. Credit: Ufficio Stampa Quirinale

Mi faccia un esempio.
«Durante la fase dei “ristori” abbiamo lavorato giorno e di notte, dormivamo negli uffici. Non sono stato io a sostenere la più grande erogazione di sussidi della nostra storia, ma tutti i dipendenti che hanno lavorato senza tregua per tagliare tutti i tempi e “arrivare prima”».

Tutto molto lontano dalla vecchia idea del “carrozzone”.
(Scuote la testa). «Non posso tollerare di sentire ancora quell’espressione. Nessuno si è risparmiato. Ecco perché voglio invece raccontare la nuova Inps».

«Nuova»?
«Sì, anche nelle funzioni. L’istituto non si occupa più di pensioni, ma ormai compiutamente di Welfare. Di assistenza e di previdenza insieme».

Lei vuole dire che la pandemia ha avuto un ruolo da acceleratore in questo processo?
«Certo. In questi anni si è celebrato un ulteriore scatto sul percorso di “universalizzazione” dei diritti di assistenza. E non solo con il Reddito di cittadinanza, ma anche con l’assegno unico, che oggi serve 9 milioni di bambini. Prima lo avevano solo 5 milioni di figli, quelli dei lavoratori dipendenti. Oggi tutti».

Mi racconti un altro passo sulla via del diritto all’assistenza universale.
«Il primo sostegno mai ricevuto da un lavoratore autonomo. Si chiama bonus, una parola che vuole significare che prima non esisteva nulla al suo posto per certe categorie, non altro».

I famosi 600 euro…
«Che poi sono cresciuti, evolvendosi in quello che abbiamo chiamato Iscro: cioè il primo germe di una indennità per gli autonomi».

Si è detto che l’Unione europea non vedesse di buon occhio le vostre misure.
«Al contrario, direi. L’Europa oggi ci chiede di istituire un reddito minimo per tutti, e poi di estendere a tutti le tutele di un reddito universale».

Anche l’Inps sta cambiando in questo viaggio?
«Ah, senza dubbio. Pochi anni fa gestiva solo previdenza e casse. Oggi amministra oltre 400 diversi tipi di prestazioni e ha oltre 800 miliardi di bilancio tra entrate e uscite correnti, includendo 145 miliardi di trasferimenti dello stato! Non si regge più solo sui contributi previdenziali. Oggi un terzo della spesa assistenziale è nel bilancio dell’istituto».

Mi faccia degli esempi.
«Oltre all’assegno? Il bonus asilo nido. E il bonus baby sitter. E lei sa che il più grande ostacolo all’occupazione delle donne sono la carenza degli asili nido, la limitazione dei congedi parentali, la mancanza di incentivi».

Lei combatte lo stereotipo delle donne che devono rinunciare al lavoro per fare le madri.
«I dati dicono il contrario: più occupazione c’è, più fecondità si produce. Soprattutto nei Paesi avanzati».

Stiamo investendo in questo?
«Solo l’assegno unico mette sul piatto 20 miliardi».

E il Reddito?
«Fino al 2018 conoscevano solo i pensionati. Adesso, grazie al Reddito di cittadinanza, abbiamo scoperto e imparato a conoscere i poveri».

Lei e Marro combattete l’idea, che talvolta fa capolino anche a sinistra, che più flessibilità produca più lavoro.
«Perché i numeri dimostrano che è esattamente il contrario. Sono gli investimenti che producono il lavoro».

Lei polemizza con tutti coloro, dagli imprenditori ai politici, secondo cui il Reddito di cittadinanza ha fatto concorrenza al lavoro, spingendo i giovani «sul divano».
«Questa è una pura invenzione. Se c’è una certezza è quella che il Reddito ha fatto concorrenza ad una sola tipologia di lavoro. Quello in nero».

Perché, cosa è accaduto?
«Il Reddito di cittadinanza ha contribuito a far diminuire il lavoro nero, da 3,4 a 3,2 milioni di persone stimate. E insieme – se serve una conferma – anche l’evasione è diminuita: da 130 miliardi a 100 miliardi».

Come lo spiega?
«Che molti cittadini, grazie al Reddito, hanno potuto permettersi di dire no ad un lavoro nero».

Cosa non ha funzionato, allora?
«Ci sono delle criticità, e non le nego, che riguardano le politiche attive. L’Anpal, i centri per l’impiego».

Mi faccia un altro esempio.
«Pensi alla Naspi. La prendono, in Italia, 1,5 milioni di persone. Ma lei pensa che l’Anpal riesca trovare degli impieghi a questi lavoratori?».

Cosa si dovrebbe fare?
«Il lavoro nero è diminuito ma ci sono ancora 3 milioni di persone che vivono di sommerso. La Francia, con una popolazione molto simile alla nostra, ha 7 milioni in più di lavoratori di noi, toccando quota 30 milioni di assunti».

Quindi respinge l’idea che i percettori del reddito sono «rimasti sul divano»?
«Frottole. Bisogna aumentare la domanda di lavoro con gli investimenti. E le faccio un altro esempio: già oggi servono 80mila lavoratori che le imprese sarebbero disposte a stabilizzare subito».

E perché non lo fanno?
«Perché non li trovano. Ma lei pensa che i percettori di sussidio del reddito abbiamo profili adeguati per rispondere a quella domanda?».

La risposta è no?
«Ma ovvio: servono giovani, possibilmente in grado di parlare l’inglese, pratici di linguaggi informatici e digitali. Secondo lei queste posizioni possono essere coperte dai 600mila lavoratori che hanno bassi titoli di scolarità e istruzione?».

Ovviamente la risposta è no. Mi dia un’altra controprova.
«Noi abbiamo perso al Sud 1,5 milioni di giovani che sono emigrati al Nord, soprattutto in Europa per cercare quei lavori. Ovvero: abbiamo dei lavoratori alto scolarizzati che negli ultimi trent’anni sono partiti per cercare quei posti di lavoro, perché in Italia non si sentivano garantiti e non avevano retribuzioni soddisfacenti».

Un bel problema. Cosa manca allora?
«La capacità produttiva. Ecco perché servono gli investimenti».

Chi è “il nemico”?
«La precarietà che fa partire i nostri ragazzi, disegnando per loro un futuro incerto. Perché se tu li fai lavorare in nero, o senza tutele, poi devi immaginarti una pensione di garanzia perché non vivano di stenti da vecchi. E i bassi salari, oltre a una inflazione a due cifre che richiede urgentemente di rialzare i salari reali».

È una vostra proposta, nel libro.
«È la risposta al buco di copertura previdenziale che si è creato per una intera generazione. Se vuole è un paracadute. Ma il fatto che io voglia che sull’aereo ci siano sempre dei paracadute non significa certo che io sia contento se qualcuno lo usa quando quell’aereo precipita!».

Chiarissimo. Da dove si riparte?
«Da un nuovo Welfare, fondato su strumenti di sostegno universale al reddito. E poi da lavori di grande qualità. Più remunerati, più garantiti. Solo spingendo sui lavori di innovazione si può rompere questo circolo vizioso».

Lei vuole cambiare il mercato del lavoro?
«Sì. Ma aggiungo che a me non piace l’espressione “mercato del lavoro”. Qui non si vendono ortaggi o carciofi, ma qualità della vita. Se vuole è una sartoria su misura e di eccellenza».

Il salario minimo può aiutare anche le pensioni?
«Sì. Ma attenzione: un salario minimo a 9 euro per trent’anni farebbe crescere le pensioni di tutti del 10%, grazie all’aumento dei contributi».

Il che sarebbe straordinario.
«Sì, ma non immagini che sarebbero pensioni ricche. Con il salario orario a 9 euro, bisogna lavorare quarant’anni per avere pensioni sopra i mille euro. Se lavori trent’anni ti fermi a 750 euro al mese».

Quindi si ritorna a quello che diceva prima.
«Esatto. Un altro paracadute. Ma c’è un’unica chiave di volta per cambiare il futuro – previdenziale ma non solo – del Paese. Questa chiave di volta si chiama lavoro di qualità ad alta retribuzione».

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