“Marchionne? Era un duro ma solo con i deboli”: parla un’attivista di Pomigliano
"Sapeva vendersi ma non aveva spessore umano e nemmeno lontanamente la caratura del leader"
“Sono gasatissimo dai progetti di Marchionne!”, dichiarò il presidente Renzi a Mirafiori, alla presentazione della Maserati Levante.
Guardo la foto allegata all’articolo, penso all’uomo fiorentino che abbiamo conosciuto in questi anni e non stento ad immaginare che avrebbe potuto aggiungere: “che fi’ata!” se non ci fosse stato Marchionne a squadrarlo.
L’ad della Fiat aveva l’età di mio padre e a volte mi turbava quanto si assomigliassero: il taglio di capelli, il maglioncino blu scuro e la camicia sotto, gli occhiali e anche quell’aria un po’ austera, da chi sa quello che vuole e non ha tempo da perdere.
Nella foto non si vede, ma c’era pure Lapo Elkann, un ometto con cui la sorte sembra essersi divertita un po’ e che metterei insieme agli altri due nella categoria appena inventata dei “ricottari che sanno vendersi”.
Attorno a loro, oltre a qualche servetto benvestito, c’era un gruppo di lavoratori sorridenti, davanti a chi avrebbe beneficiato dei loro sforzi. “Ottimo lavoro, schiavi” sembra dirgli.
Eppure non riesco a provare disprezzo per i sorrisi sui volti di chi solitamente soffre come un cane per colpa di quei tre, grazie ai quali, però, porta pure il pane a tavola.
Li giustifico? No, perché lo trovo umiliante e non riesco a sbeffeggiare chi mostra la propria debolezza.
Provate a vedere un servizio su Mirafiori, su Melfi, su Pomigliano da quando è arrivato Marchionne: impossibile intervistare chi usciva dai cancelli, con scritto “Fiat” sul petto, cucito grande.
Tra quelli che avevano votato Sì al referendum del 2010 ce ne fosse stato uno che diceva “Certo che ho votato Sì! Marchionne ha ragione! Qua o si smette di fare assemblee, scioperi e queste stronzate, oppure l’azienda chiude”.
Oppure, che ne so “Sì, perché sennò delocalizza e i polacchi ci rubano il lavoro perché si prendono di meno”. Nemmeno. Scappavano tutti, a testa bassa. Al massimo qualcuno borbotta qualcosa sui figli, l’unica cosa che sente di possedere davvero in quanto essere umano.
Ma sulle vittime che Sergio Marchionne ha mietuto sul campo di battaglia della lotta di classe ci sarebbero troppe storie da raccontare, troppi miei compaesani, dell’età dei miei genitori, si sono tolti la vita, perché nemmeno la lotta riusciva a guarire il male che la Fabbrica Italia aveva consegnato loro.
Molti non sono ancora biologicamente morti, trasformati in personaggi di Dylan Dog; molti altri, tra cui me, ignari, sono stati feriti dalle radiazioni e dalle schegge della “Bomba Marchionne”, volate via per tutta l’Italia.
Sono finite prima in tutti gli stabilimenti del gruppo Fiat, poi in altre aziende, poi nel pubblico, nella scuola. È il “modello Marchionne”, adatto a ogni occasione.
E a furia di referendum-ricatti, a furia di presentazioni di progetti (non sempre realizzati), a furia di cacciate di sindacati dall’azienda, a fronte di pause ridotte, di turni massacranti, a furia di delocalizzazioni in Zone Economiche Speciali, a furia di “io sono Marchionne e faccio il cazzo che mi pare”, ci ero cascata.
Quando lo odiavo pensavo di odiare un uomo che ne sapeva, che aveva sicuramente letto L’Arte della guerra di Sun Tzu, pensavo di odiare uno spietato membro della controparte.
Perché Marchionne è quello dell’“Acquario di Pomigliano”, una sala a vetri dove i lavoratori che avevano sbagliato, a cui era caduto un pezzo e cose del genere, dovevano entrare e scusarsi di fronte ai superiori, oltre che agli altri lavoratori.
Non so se li incitassero a pronunciare delle frasi come se fossero stati dei poliziotti nazi, ma ho letto un articolo che riportava che “song’ n’omm ‘e merd” erano state le parole che un lavoratore aveva consegnato in quel microfono d’umiliazione.
Marchionne era quello che ti fotte senza fare troppa caciara, presentando il nuovo contratto con dei video rassicuranti che ti fanno pensare a quanto sia professionale introdurre il “sospetto di assenteismo anomalo” per sospendere il diritto di mettersi in malattia.
E se non ne noti il vantaggio sono cazzi tuoi. Marchionne ne ha colpiti davvero tanti e qualcuno ha resistito con tenacia e a testa alta.
Ma Marchionne era quello che faceva tremare pure i dirigenti, che a dicembre ha cancellato loro gli straordinari accumulati in mesi, tatticamente in avvicinamento a Natale, quello che li licenziava in tronco se pensavano di consegnare il resoconto richiesto dopo aver pranzato…
Sergio Marchionne era un duro, ma alla fine lo faceva soprattutto con i deboli.
Uno di quelli che non si preoccupava troppo del consenso dei suoi sottoposti di vario grado, ma che doveva fare il compitino al meglio, per diventare il migliore alunno a cui i padroni hanno mai messo il massimo dei voti, per avere una grossa ricompensa, disposto a farlo con qualsiasi mezzo.
Non era, come Renzi, un secchione leccaculo, ma uno che voleva dimostrare di meritarsi ammirazione e rispetto.
Ma l’immagine del grande manager spietato comincia a sbiadirsi e lascia il posto a quella di “quello che si sa vendere” dopo aver osservato Marchionne all’opera, in un po’ di interviste che negli anni mi ero persa, che mi hanno dato gli elementi per chiudere il cerchio.
Niente spessore umano, nemmeno lontanamente la caratura del leader. Ciliegina sulla torta: totale impreparazione di fronte a domande scontate.
Erano “domande scomode”, certo (tipo “che fine faranno quei lavoratori che dovevano rientrare e stanno ancora fuori?” “come mai la Fiom deve stare fuori l’azienda anche se era la più rappresentativa?”)… ma, dico io, poniti il problema ché hai fatto una cosa eclatante e qualche giornalista potrebbe chiedertene conto!
Costruiscila una “narrazione” attorno al fatto, pure ridicola, pure di quelle palesemente inventate alla Renzi (che ha imparato da Berlusconi)! Prova a cambiare discorso dando la colpa ai comunisti!
Devo dargli atto che un po’ ci ha provato quando ha risposto “la Fiom è fuori non per mia scelta, io vendo macchine”, riuscendo a fare “specchio-riflesso”, dicendo indirettamente che è colpa dei comunisti e concludendo con una cosa che non c’entra niente.
Il problema, in conclusione, è che la sua sicurezza si nutriva, più che di una sicurezza data dai buoni risultati raggiunti, dell’arroganza padronale, della sicurezza dell’ impunità, della consapevolezza di avere il culo parato.
E io non riesco a provare gioia per quest’uomo che conclude la sua vita. Né, chiaramente, posso provare dispiacere per la sua dipartita.
Penso che abbia fatto tanto male in vita sua e che, alla fine dei conti, non era nient’altro che un “gallo sulla monnezza” tra i tanti manager italiani.
Ripubblichiamo, con il consenso dell’autrice, il post pubblicato il 25 luglio 2018 sulla pagina Facebook dell’ex Opg occupato di Napoli, scritto da un’attivista di Pomigliano d’Arco