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Home » Economia

Leonardo fa affari d’oro con le guerre, ma allo Stato azionista restano pochi spiccioli

Immagine di copertina
Credit: Leonardo

In una primavera funestata ancora una volta da eventi climatici estremi, dalla crescente instabilità geopolitica che potrebbe influenzare l’esito delle elezioni europee e da una costellazione di proteste che infiammano gran parte del mondo relativamente a quanto accade in Medio Oriente, ci sono degli appuntamenti a cui guardare per conoscere una particolare modalità adottata dalla società civile per cambiare le pratiche controverse di grandi realtà economiche e arginare gli impatti negativi innescati da queste ultime sul piano sociale e ambientale.

Maggio è infatti il mese delle Agm, acronimo che sta per “annual general meeting” e che designa le assemblee annuali durante le quali le imprese quotate incontrano i loro azionisti per discutere di questioni aziendali rilevanti e decisioni strategiche.

Ed è nell’ambito di questi rendez-vous che agiscono gli azionisti critici, vale a dire persone o organizzazioni che, attraverso la sottoscrizione simbolica di un numero limitato di azioni, acquisiscono il diritto di confrontarsi con il management di grandi imprese, di interrogare questi ultimi sugli effetti non finanziari delle scelte economiche, chiedendo conto di incongruenze e contraddizioni, di politiche di greenwashing e proponendo cambiamenti nelle policy.

Durante il Covid-19 una pratica come l’azionariato critico è stata ostacolata dalla necessità di tenere le assemblee da remoto, una modalità naturalmente imposta dall’emergenza sanitaria che, però, come è intuibile, compromette la normale dialettica di questi incontri.

Ma anche dopo la fine della crisi pandemica e nonostante le proteste degli azionisti critici, alcune assemblee di grandi quotate hanno continuato a tenersi a porte chiuse. È il caso di Leonardo, colosso italiano protagonista dell’exploit del nostro Paese nel comparto della Difesa, che continua a imporre la modalità disposta nel Decreto legge Cura Italia del 17 marzo 2020, impedendo l’interazione dal vivo, grazie all’assist del Governo Meloni che con il Ddl Capitali ha sdoganato per sempre le assemblee a porte chiuse, pur non essendovi una reale necessità.

L’obiettivo è probabilmente quello di penalizzare gli azionisti retail e i piccoli investitori e, come candidamente dichiarato dai rappresentanti legali di alcune grandi quotate italiane, arginare gli interventi dei “soci disturbatori”, comprimendo di fatto un legittimo spazio di democrazia e confronto attraverso una muscolosa reazione avallata dalla politica.

Dunque anche quest’anno gli azionisti critici di Fondazione Finanza Etica, la fondazione culturale del Gruppo Banca Etica, e di Rete Pace e Disarmo che, in virtù del possesso di tre azioni, da otto anni partecipano alle assemblee di Leonardo Spa, sono stati costretti a inviare per iscritto le loro domande, nella fattispecie circa quaranta, al gigante operante nel settore nei settori della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza, partecipato anche dallo Stato Italiano attraverso il Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Le risposte, analogamente a quelle ricevute in occasione dell’assemblea del 2023, presentano, a detta degli azionisti critici, ancora tratti di opacità. La società oppone infatti motivi di riservatezza per evitare di fornire risposte dettagliate su performance relative ad alcuni siti produttivi situati nel nostro paese in termini di produzione, fatturato e posti di lavoro.

Tra i quesiti più “scomodi”, inoltre, quelli relativi alla produzione di sistemi d’arma a potenzialità nucleare: secondo Simone Siliani, direttore di Fondazione Finanza Etica, “le risposte sul coinvolgimento di Leonardo nella produzione di armi nucleari sono sconfortanti”. L’ex Finmeccanica infatti partecipa al 25% in un consorzio (Mbda) con Airbus (Francia) e Bae Systems (Regno Unito) per la produzione di un vettore che trasporterà testate nucleari. E tuttavia, a detta della società, poiché si tratta di un progetto classificato come “Special France”, Leonardo non sarebbe nella condizione di accedere ad alcuna informazione sullo stesso a causa delle rigide normative francesi sulla sicurezza strategica.

Il quadro rimane, dunque, di estrema opacità e poco confortante per i contribuenti italiani “se un’azienda strategica in larga parte di proprietà pubblica è tenuta all’oscuro su come le sue risorse vengono impiegate in un programma militare”, sottolineano gli azionisti critici. Ma non solo.

A preoccupare questi ultimi c’è anche il tema dell’impatto economico. Per quanto la spesa militare mondiale, trainata dal conflitto in Ucraina e da quello che devasta Gaza, abbia toccato la cifra record di 2,2 trilioni di dollari a livello globale e prodotto un aumento vertiginoso delle quotazioni in borsa per i titoli del settore, non si può non pensare che, oltre agli effetti distruttivi prodotti dal comparto, a beneficiare del boom è esclusivamente una ristretta cerchia, a discapito della collettività.

Il report “Arming Europe”, uscito qualche mese fa e commissionato dai tre uffici nazionali di Greenpeace in Germania, Italia e Spagna a un team di esperti, è uno studio focalizzato sulla spesa militare in Europa e rivela il basso impatto economico e occupazionale di quest’utima, concentrandosi sui tre Paesi committenti.

A conferma di questo, Fondazione Finanza Etica sottolinea come la decisione di aumentare la spesa militare, che si prevede raggiungerà i 290 miliardi di euro entro il 2025, rappresenti non solo un enorme impegno economico, ma anche una potenziale deviazione di risorse da settori fondamentali come istruzione, sanità, transizione ecologica, peraltro senza produrre vantaggi significativi sul piano occupazionale.

Il caso di Leonardo Spa, che da sola controlla oltre il 70% della produzione e il 75% delle esportazioni italiane, a questo proposito è emblematico: sebbene la società abbia beneficiato economicamente dello spostamento delle sue attività verso il settore della difesa (la componente produttiva militare è passata negli ultimi 15 anni dal 56% all’83%), ciò non ha impedito la riduzione del 24% dei suoi dipendenti in Italia, evidenziando una disconnessione tra spesa militare e crescita occupazionale sostenibile.

Dal 2007 al 2022, infatti, nonostante le molte acquisizioni di commesse nel settore militare (come la partecipazione alla produzione dei nuovi caccia F-35 per la quale in Parlamento il governo aveva promesso 10.000 nuovi posti di lavoro) e le svariate acquisizioni d’impresa, gli occupati totali sono scesi da 42.666 a 32.327 nel settore aeronautico, dimostrando che l’investimento in difesa non si traduce necessariamente in benefici economici estesi.

Il settore militare d’altra parte è fra quelli a minore intensità di lavoro. Non solo: in termini di dividendi, lo Stato italiano, come azionista di Leonardo, incasserà per l’anno 2023 appena 49 milioni di euro. Mentre sono stati molto significativi i vantaggi degli altri azionisti che – a differenza del Ministero del Tesoro, azionista di lungo periodo – comprano e vendono azioni di Leonardo liberamente sui mercati azionari.

Chi ha acquistato azioni di Leonardo nel gennaio del 2023 e le ha rivendute a fine dicembre, ha guadagnato circa il 70%. Dunque vantaggi economici minimi per lo Stato a fronte del rischio, ben più grave, di rendersi complici di gravi violazioni dei diritti umani.

Un esempio per tutti: un’inchiesta di Altreconomia ha rivelato come l’Italia abbia continuato a esportare armi e munizioni verso Israele anche dopo il 7 ottobre.

In queste attività sarebbero coinvolti anche siti produttivi appartenenti al gruppo Leonardo, per quanto la società, appellandosi anche in questo caso a vincoli di riservatezza con i clienti, non fornisca chiarimenti su questo fronte e rimandi gli azionisti critici alle relazione inviata al parlamento, secondo i dettami della legge 185/90 che, peraltro, l’attuale maggioranza vuole modificare privandola delle sue più preziose prerogative in termini di trasparenza, di fatto facendo il gioco dei colossi del settore e dei loro clienti.

Ma gli azionisti critici non demordono e promettono di continuare a dar battaglia, forti di una certezza: la militarizzazione è un cattivo affare da qualunque punto di vista la si guardi.

LEGGI ANCHE: Addio alla trasparenza: il regalo di Giorgia Meloni ai mercanti di armi

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