“Dovevo fermarmi per tornare a respirare”: le storie dei ragazzi che hanno lasciato il proprio lavoro
Arianna, Debora, Gianmarco, Dario e Chiara sono alcuni dei tanti giovani che hanno lasciato il proprio impiego volontariamente. Tutti avvertono il desiderio di lavorare, ma ha prevalso il bisogno di cambiamento
«Andavo a lavoro piangendo. Non ero più serena, in ufficio e a casa. Avevo studiato tanto ma in azienda mi sentivo sfruttata, lavoravo dieci ore al giorno, anche nel weekend. Il mio capo mi trattava come se dovessi ringraziarlo ogni giorno per lo stipendio che mi dava, ma era lui a dover ringraziare me». Debora ha 29 anni e ha alle spalle un lungo percorso di studi e di specializzazione. Fino a tre mesi fa lavorava per un’azienda di Vicenza e si occupava di comunicazione e marketing. Aveva un contratto a tempo determinato e guadagnava bene ma poi ha deciso di lasciare il suo impiego. La sua è solo una delle tante storie di giovani lavoratori che in questo ultimo anno hanno lasciato il proprio impiego volontariamente. Sono ragazzi che hanno studiato e che hanno voglia di lavorare, ma a un certo punto della loro vita tutti hanno avvertito il bisogno di fermarsi «per tornare a respirare».
Dopo la pandemia il fenomeno delle dimissioni volontarie, soprattutto nella fascia di età 26-35 anni, ha avuto una crescita esponenziale. Secondo i più recenti dati dell’Inps nel primo semestre del 2022 le persone che in Italia hanno dato le dimissioni dal lavoro sono state circa 307mila. Un numero mai così alto negli ultimi otto anni. Rispetto al 2021, l’Istituto ha registrato un incremento delle dimissioni del 35 per cento. Da un’indagine di Aidp, l’Associazione italiana per la direzione del personale, è emerso che negli ultimi 12 mesi episodi di dimissioni volontarie si sono verificati nel 60 per cento delle aziende e a “salutare” l’ufficio sono stati soprattutto gli impiegati delle regioni del Nord Italia. I settori maggiormente coinvolti dal fenomeno sono l’informatica, il digitale, la produzione, il marketing e il commerciale. Prima di lavorare a Vicenza, durante i mesi più duri della pandemia Debora era stata assunta da un’altra azienda a Verona: «Quella volta ho dato le dimissioni perché lavoravo troppe poche ore a settimana dato che ero in cassa integrazione. Volevo lavorare di più e avere così più stimoli». Nel nuovo ufficio, però, non ha trovato ciò che cercava ed è venuta a contatto con una realtà che l’ha mortificata: «Avevo tante buone intenzioni ma – racconta – lì c’erano persone che non sapevano nemmeno cosa fosse il marketing. La pandemia ha fatto crollare il budget per gli investimenti e pretendevano che li facessi guadagnare senza spendere niente. Non si lavora così, la loro era una mentalità vecchia e fallimentare. Un giorno ho detto basta». Il suo datore di lavoro era basito, e anche i suoi genitori. «Mio padre ha costruito la sua carriera dal niente, per lui il lavoro è importantissimo. Non capiva come potessi lasciare tutto senza avere un piano». Debora però non aveva scelta, la sua vita non aveva senso e doveva reagire. «Ora sto bene, finalmente. Lavoro in una scuola dell’infanzia e i bambini mi danno la dolcezza di cui avevo bisogno. Il futuro? Non ho paura di quello che accadrà fra cinque o sei mesi, l’importante è stare bene adesso».
I giovani che lasciano il lavoro – rivela lo studio di Aidp – lo fanno, nella metà dei casi, perché sono convinti di riuscire a trovare un altro impiego grazie alla ripresa del mercato del lavoro, ma anche perché sono alla ricerca di condizioni economiche più favorevoli e aspirano a un maggior equilibrio tra vita privata e vita lavorativa. Uno su quattro, poi, è alla ricerca di un nuovo senso della vita. Il 20 per cento degli intervistati giustifica la propria scelta con la necessità di allontanarsi dal “clima negativo” dell’ufficio. Ascoltando i protagonisti di questo fenomeno le ragioni sembrano fondersi ed esplodere. Grazie alle maggiori possibilità di trovare un nuovo impiego chi sentiva montare in sé un sentimento di insofferenza ha trovato le condizioni ideali per chiudere con le esperienze passate e ripensare il proprio futuro. In più, per molti la pandemia ha rappresentato un’epifania. Ha dimostrato che tutto è possibile, che si può vivere con poco e che a volte questo poco è anche meglio del tanto.
«La pandemia ha messo un bastone tra le ruote a una macchina che viaggiava a mille», dice Dario, 31 anni. «In quelle settimane mi sono fermato e mi sono guardato dentro, ho capito che non volevo più essere sfruttato, non volevo continuare ad avere contratti da schiavo». Con una laurea e una specializzazione in comunicazione, ora Dario cambia spesso lavoro: ha rinunciato a cercare un impiego nell’ambito del suo campo di studi e sta cercando di ottenere i requisiti necessari per diventare un insegnante.
Chiara, invece, è combattuta. Non ha ancora lasciato il suo posto di lavoro ma da mesi consulta gli annunci in cerca di un’opportunità che spazzi via il suo malessere. Ha già fatto un paio di colloqui, che però non sono andati a buon fine. «Sono consapevole di essere una privilegiata perché ho un contratto a tempo indeterminato, guadagno bene e ho tutte le tutele possibili, mentre molti ragazzi della mia età non hanno un lavoro o trovano solo impieghi precari. Non vorrei lamentarmi, ma non ce la faccio più». Chiara ha 28 anni, è laureata in lingue moderne e ha una specializzazione nel campo del turismo. Da tre anni lavora come assistente di viaggio sui treni ad alta velocità. «Ho messo un po’ di soldi da parte, ho comprato una macchina, ma a che serve tutto questo se nei miei giorni di riposo sono così stanca che non riesco a fare niente? Non mi godo la vita. Sono giovane e indosso le calze contenitive perché la mia mansione mi porta a stare sempre in piedi e questo mi provoca problemi di circolazione alle gambe. Non posso continuare così». Chiara racconta di rimpiangere, in parte, il periodo della pandemia perché aveva più tempo libero, faceva attività fisica, leggeva, vedeva più spesso il suo fidanzato. «Ora trascorro la maggior parte del mio tempo su un treno in giro per l’Italia. Oppure sono sdraiata a letto, stanca morta. Invidio le mie amiche che viaggiano, fanno esperienze, vivono».
Arianna racconta una storia simile, ma lei alla fine ha mollato tutto davvero, ha fatto un «salto nel buio». Racconta di una sensazione costante di fiato corto: la sua è stata una carriera brillante, si è laureata e ha lavorato nel settore della moda, ha raggiunto presto la posizione di manager e si è occupata dell’organizzazione di molti eventi glamour. «Amavo il mio lavoro, lavoravo per un’azienda fantastica, era quello che avevo sempre sognato. Il mio lavoro mi permetteva anche di viaggiare, cosa che adoro. Era tutto perfetto, fino a quando è arrivata la pandemia. È stato un periodo difficile». In quelle settimane, in lei, si è fatta strada la voglia di fare un’esperienza diversa, avvertiva un forte bisogno di libertà. Ha lasciato il lavoro pochi mesi fa e ha deciso di girare il mondo con i soldi che ha messo da parte. Sa che se qualcosa dovesse andare storto potrà sempre tornare dalla sua famiglia, ed è sicura di aver fatto la scelta giusta. «Prima della pandemia la mia vita era una corsa continua: lavoro, aperitivi, eventi, amici, shopping. Poi si è fermato tutto. Il Covid ci ha obbligati a stare da soli. Sono stata costretta ad ascoltarmi, a fare i conti con la persona che ero. Con i ritmi di prima riuscivo a fare finta che quella vita mi piacesse, ma in fondo sapevo che c’era qualcosa che non andava. Le immagini dei camion militari che portavano via da Bergamo le bare dei morti per Covid sono state come uno schiaffo in faccia. Ho pensato che la vita è breve, che sono giovane ma non onnipotente. Ho capito di dover fare più attenzione al mio corpo e alla mia mente». Quando è tornata in ufficio, dopo il lockdown, Arianna ha capito di essere cambiata. La sensazione di fiato corto che aveva avvertito per molto tempo era diventata ormai mancanza di ossigeno: «Lavoravo nella moda, per me i vestiti e le borse erano il paradiso. Poi ho guardato il mio armadio a sei ante e ho pensato: “A cosa mi serve tutto questo?”. Ho deciso di partire portando con me solo uno zaino leggero». Il suo datore di lavoro ha reagito male, ma comunque meglio dei genitori: «Per mio padre è stato uno shock, sia perché ho lasciato un posto fisso sia perché ho deciso di partire e viaggiare da sola. Quello che i miei genitori non riescono a capire è che ho bisogno di dare un senso alla mia vita. La generazione dei miei nonni ha vissuto il lavoro come una necessità, qualcosa che permetteva loro di mangiare. Per la generazione dei miei genitori era invece lo strumento con cui ottenere il riscatto personale, l’affermazione del proprio essere. Per me, ora, la cosa più importante è capire chi sono, stare bene con me stessa. Il lavoro deve essere funzionale a questo altrimenti è nocivo». Arianna è partita per Tenerife, presto andrà in Asia e poi forse in Sud America. Vorrebbe che questa esperienza fosse un’occasione anche per elaborare un modo diverso di lavorare, un modo che le permetta di conciliare le sue passioni con i suoi bisogni: «Mi piacerebbe essere una nomade digitale, poter lavorare qua e là. Con lo smart working potrei lavorare a distanza senza dover rinunciare a quello che mi piace fare».
Lo smart working è una soluzione che soddisfa molti di quei giovani che durante la pandemia hanno trovato un nuovo equilibrio fra lavoro e vita privata. Elena, 31 anni, è un’avvocatessa e lavora da tre anni per l’ufficio legale di una grande azienda a Roma. Si è sposata da qualche mese e negli ultimi due anni ha lavorato soprattutto da casa, così come suo marito che è un commercialista. Durante la pandemia hanno lavorato fianco a fianco, hanno condiviso molto tempo insieme. Hanno scoperto e apprezzato una nuova routine quotidiana. Prima di questa esperienza Elena cambiava azienda ogni volta che le venivano offerti scatti di carriera o mansioni più stimolanti, ora le sue esigenze sono cambiate: «In questi ultimi mesi ho rifiutato molte buone opportunità perché non offrivano la possibilità di lavorare in smart working. Per me e mio marito è diventata una priorità. Questo stile di vita mi soddisfa molto di più, non voglio tornare indietro».
Secondo la recente indagine Plus (Participation labour unemployment survey) condotta dall’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche pubbliche (Inapp) quasi la metà dei lavoratori vorrebbe continuare a svolgere la propria attività in modo agile almeno un giorno a settimana. Quasi uno su quattro vorrebbe farlo tre o più giorni a settimana. Inoltre, un lavoratore su cinque accetterebbe una eventuale diminuzione della retribuzione in cambio della possibilità di lavorare da remoto. Francesca Scelsi e Erica Zuanon sono due career coach che si occupano di orientamento professionale e studiano il mondo del lavoro da anni. Durante la pandemia hanno creato “Azione Ikigai” un percorso di ricollocazione incentrato sul “senso”. Ikigai, infatti, è una parola giapponese che significa “ragione di esistere”. «Il Covid – dicono – ha accelerato un fenomeno che viaggiava sotto traccia già da qualche anno. Dopo la crisi del 2008 il lavoro è diventato precario e le persone, soprattutto i giovani, hanno provato un forte senso di disillusione. Hanno visto i genitori spaccarsi la schiena per anni e poi hanno visto sparire ogni tipo di garanzia e sicurezza. La pandemia è stata come il crollo del muro di Berlino, è crollato il muro del possibile. Abbiamo affrontato una situazione che non avremmo mai immaginato e tutto è diventato possibile. Anche pensare a un modo diverso di vivere». È quindi stato sufficiente immaginare che un’alternativa potesse esistere per dare il via a una ricerca di senso che ora sempre più spesso si concretizza con le dimissioni dal posto di lavoro. «I giovani», spiegano le fondatrici di Ikigai, «sono più suscettibili a questa ricerca perché i Millennials e la Generazione z sono cresciuti con il digitale, con l’idea di una vita basata sul concetto di rete, orizzontale e non più a piramide come invece ha imposto il capitalismo. I giovani cercano flessibilità, inseguono la creatività e la carriera non è più una priorità». Considerata l’incapacità delle aziende di rivoluzionare la propria organizzazione e di rispondere alle mutate esigenze dei dipendenti, le due career coach sono convinte che presto si svilupperà un movimento in grado di far emergere le criticità dell’attuale sistema e che ciò innescherà un veloce e radicale cambiamento. Questa tesi non è inverosimile e lo si capisce anche dal fatto che il fenomeno delle dimissioni volontarie è internazionale. Negli Stati Uniti spopolano gli hashtag #thegreatresignaton e #bigquit. Su TikTok si moltiplicano i video di persone che lasciano il lavoro con scene plateali, che ballano dopo aver salutato l’ufficio, che piangono di gioia.
Ma cosa succede dopo le dimissioni? Lasciare il lavoro non è il punto di arrivo ma l’inizio di un percorso non semplice. Paolo ha anticipato i tempi, lui ha lasciato il suo lavoro ormai cinque anni fa. Dopo aver firmato il primo contratto credeva che il sogno di sempre si stesse realizzando. Lavorava nel mondo dello sport ed era entusiasta. Poi si è scontrato con la rigidità degli orari dell’ufficio, con colleghi privi di passione, con contratti precari e con l’impossibilità di realizzare i suoi progetti. Con il tempo ha sentito montare la rabbia e alla fine è andato via. Ha provato a mettersi in proprio, ha fondato una startup ma la pandemia ha affossato il suo progetto: ora è una guida escursionistica a Reggio-Emilia. Ama stare in mezzo alla natura e anche se arrivare a fine mese è sempre difficile non tornerebbe mai a lavorare in un’azienda: «Quando accompagno gli escursionisti lungo i sentieri del mio territorio incontro manager, impiegati e avvocati che scappano dalla città. Mi chiedono del mio lavoro e io vedo l’apatia nei loro occhi, e anche un pizzico di invidia».