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Carlo, medico ciclista eroe che ha salvato una donna dall’infarto sul treno, ma da anni è precario

Immagine di copertina

Una storia di amore e speranza, di professionalità e resistenza

Carlo, medico ciclista eroe che ha salvato la vita a una donna sul treno

Carlo Santucci ha 33 anni, è un medico, un ciclista, uno sportivo.

Sono le 17.30 del pomeriggio del 27 agosto.

Carlo è seduto all’ultimo vagone del treno che va da Lienz a Dobbiaco, tra Austria e Italia.

Carlo neanche doveva prenderlo quel treno. Avrebbe voluto farsela in bicicletta. Ma poi la stanchezza, i troppi chilometri su e giù per le montagne. E all’ultimo minuto decide di salire.

Non sono passati neppure dieci minuti quando irrompe un uomo: “Un medico – dice – c’è bisogno di un medico.” Lo urla, in verità, perché non c’è tempo e perché sua moglie se ne sta andando. Un infarto. Sotto gli occhi della loro bimba di sei anni.

Carlo non ci pensa due volte. Si fa avanti tra due ali di folla che si aprono. “L’effetto Mosè” lo chiama lui, e l’indifferenza non c’entra. Non c’entra nemmeno la paura e lo spavento. È che nessuno sa mai esattamente cosa fare in questi casi. Carlo, invece, lo sa.

Lui, chirurgo oculista precario, anni trascorsi in corsia nella vana attesa di un impiego stabile, ma anche docente in tecniche di primo soccorso e notti passate di turno in trincea, a bordo di un’ambulanza. Carlo ha già salvato la vita a una persona, sa cosa significa. Due anni fa, ha praticato la manovra di Heimlich a un bimbo che stava soffocando in un ristorante in Toscana.

Ma questa volta è diverso. Questa volta è più dura: in tutto il treno non c’è neanche un defibrillatore, né un kit di primo soccorso. Questa volta è più lunga: 40 minuti. Un massaggio cardiaco di 40 minuti, avete idea di quanto tempo sia? Con la sola forza delle mani nude di Carlo. E la fede, per chi ce l’ha. Per 40, infiniti, minuti Carlo spinge e rilascia, comprime e decomprime il petto di questa donna toscana sul vagone di un treno tra l’Austria e l’Italia. Ogni 30 compressioni, due insufflazioni. In testa lo sguardo del marito sopra di lui e nelle orecchie le lacrime della figlia di sei anni. “Pensavo alla grande ingiustizia di una mamma che poteva essere strappata ai suoi cari”.

Per 40 minuti Carlo non pensa ad altro. E, alla fine, quel segno che ogni medico attende: la fame d’aria. La donna che riprende conoscenza.

Carlo è fradicio di sudore. Potrebbe essere passato un secondo o dieci anni, per Carlo non farebbe differenza, nello stato di ipnosi fisica, psichica e muscolare in cui si trova, con l’adrenalina che compie per lui sforzi che il suo corpo, da solo, non saprebbe organizzare.

Tutto il treno ora lo sta applaudendo. Non la smettono più. Un rianimatore giunto sul posto lo guarda e gli dice: “Senza di te sarebbe morta”. Ma “io – dice Carlo – Io so solo che è per questo che facciamo questo lavoro: dare continuità alla vita.” Il marito non sa come ringraziarlo. “Una foto con mamma e figlia che giocano felici basterà”.

E, mentre l’elisoccorso arriva, è difficile immaginare un modo più pieno, totale, assoluto di sentirsi umani di come si sente ora Carlo. “Ma non c’è bisogno di essere medici – spiega, è quasi un’invocazione – Una manovra così, dopo un corso, la possono fare tutti. Tutti. E salva la vita.”

Ti dicono: “Perché non parli mai degli italiani?”. Carlo è romano, italiano, italianissimo, uno di quelli che ti rende orgoglioso di esserlo, nonostante tutto. Uno di quelli che vorresti avere sempre al tuo fianco. La donna? Italiana. Figlia e marito, tutti italiani. Questa è una storia di amore e speranza, di professionalità e resistenza. Una storia italiana, di quelle che sappiamo ancora raccontare. Carlo siamo noi. E a volte siamo davvero belli.

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