La vicenda del colosso di telecomunicazioni Almaviva: le tappe del più grande licenziamento degli ultimi 25 anni in Italia
La storia dell'azienda italiana di call center: dalle prime lotte dei lavoratori fino al licenziamento di oltre 1600 dipendenti dalla sede romana
La vicenda dell’azienda di call center Almaviva: le tappe del più grande licenziamento degli ultimi 25 anni in Italia
La lotta dei lavoratori contro Almaviva ha segnato le cronache italiane dagli anni Novanta in poi. Almaviva è uno dei più grandi gruppi italiani di call center e telecomunicazioni: 42 mila dipendenti divisi tra 15 società in tutto il mondo. 10 mila solo in Italia. Un fatturato che nel 2017 ammontava a 772 milioni. La società però è nota anche per aver licenziato 1666 dipendenti dalla sede di Almaviva Contact Roma nella notte tra il 21 e il 22 dicembre del 2016. Questo è considerato il più grande licenziamento della storia italiana degli ultimi 25 anni.
Per ripercorrere la storia della holding Almaviva bisogna fare qualche passo indietro, fino agli anni Ottanta e Novanta, quando il mercato dei call center era ancora un mondo inesplorato, poco regolato e in espansione. Il gruppo Almaviva, che storicamente appartiene alla famiglia Tripi, ancora oggi proprietaria, originariamente si chiamava Cos. Nel 2004 la società acquisisce i 3mila dipendenti di Atesia, un call center con sede a Cinecittà molto conosciuto in quegli anni per il suo rapporto conflittuale con i lavoratori che richiedevano maggiori tutele e migliori condizioni salariali. A riportare tutti i dati sono Massimo Franchi e Antonio Sciotto, i due giornalisti che nel libro “Licenziati!” pubblicato da Manifestolibri raccontano la storia di Almaviva dal 2005 al 2018.
I lavoratori di Atesia, di proprietà di Telecom fino al 2004, nel 2003 avevano iniziato a far sentire la propria voce per ottenere condizioni di lavoro minime, già prima di entrare a far parte del gruppo Cos. Come scrivono Franchi e Sciotto, le buste paga dei dipendenti di Atesia erano estremamente variabili da un lavoratore all’altro. I contratti erano a partita Iva o in collaborazione e le retribuzioni potevano variare dai 200 agli 800 euro mensili, a seconda della resa. Quello che era iniziato per molti come un lavoretto è diventato, con il passare degli anni, il primo mezzo di sostentamento. Lavoratori che avevano iniziato come studenti universitari si trovarono quasi alla pensione a dover essere retribuiti a cottimo, senza le tutele necessarie. Come riportano i due giornalisti nel libro gli operatori del call center potevano essere pagati “oggi 66 centesimi a chiamata, domani giù fino a 57”: se l’operatore trascorreva più di qualche minuto con lo stesso cliente il suo guadagno si abbassava automaticamente.
Il vero salto per la famiglia Tripi avviene con l’acquisizione di nuove commesse e nuove collaborazioni: dopo l’acquisizione di Atesia, il gruppo Cos ingloba altre società nel 2005 si trasforma nella holding Almaviva. A partire da quel momento, cominciano gli alti e bassi dell’azienda, che dal 2008 acquisisce nuove sedi nel mondo, come quelle in Brasile, Colombia e Belgio, ma vede precipitare la resa delle sedi italiane di Roma, Napoli e Palermo.
Nell’ottobre 2016, proprio in queste città, viene avviata la prima procedura per il maxi licenziamento collettivo di quasi 3000 operatori di Almaviva Contact. Un esubero che l’azienda motiva con un “calo di commesse”. I sindacati a quel punto ottengono la creazione di un tavolo di trattativa ad hoc con il governo, che viene fissato al ministero dello Sviluppo economico. È la stessa Almaviva a indicare come decisivo ai fini dell’accordo l’intervento della allora viceministra Teresa Bellanova e dell’ex ministro Carlo Calenda. L’intermediazione del governo avrebbe portato Almaviva a un’inversione di rotta, passando dall’avere quasi 3mila esuberi all’essere pronta a una fase di rilancio.
Gli accordi stretti a maggio tra il governo e l’azienda si sono rivelati però più deboli del previsto. Infatti, a dicembre l’azienda rompe la tregua con un colpo di scena e annuncia la chiusura definitiva della sede campana e di quella nella Capitale con il conseguente licenziamento di 1666 dipendenti a Roma e altri 845 a Napoli. Le trattative finali sono state condotte nella notte tra il 21 e il 22 dicembre 2016. L’azienda ha proposto un taglio degli stipendi tra l’8 e il 17% e un maggior controllo a distanza dei centralinisti.
Le rappresentanze sindacali Cgil, Cisl e Uil e i rappresentanti dei lavoratori di Napoli hanno accettato l’accordo, mentre i delegati sindacali di Roma lo hanno rifiutato. Da allora si sono susseguite cause e ricorsi da parte dei lavoratori della sede romana contro l’azienda.
Il 16 novembre del 2017 segna una svolta giudiziaria per i lavoratori. Il giudice del lavoro di Roma, Umberto Buonassisi, accogliendo il ricorso di 153 dipendenti contro l’azienda, condanna Almaviva al reintegro dei lavoratori e a un risarcimento di 3 milioni di euro.
Si tratta della prima sentenza positiva in risposta a un ricorso da parte dei dipendenti di Almaviva, che verrà utilizzata anche come base su cui sviluppare altri processi simili. Tra le motivazioni del giudice, c’è anche quella di un accordo discriminatorio che imponeva una riduzione consistente del salario dei lavoratori e un blocco degli scatti di anzianità.
Ma l’ultimo risvolto giudiziario ha dato ragione all’azienda. Con la sentenza 1818 del 17 aprile 2019, la Corte di appello di Roma ha infatti ribaltato la sentenza di reintegro del 16 novembre 2017. Secondo il collegio di secondo grado guidato da Alessandro Nunziata, infatti, la sede di Roma non risultava aperta e per questa ragione il trasferimento delle commesse dell’azienda presso altre sedi era un’opzione contemplata e già presentata come possibile ai sindacati. Con queste motivazioni il giudice ritiene il licenziamento legittimo.
A luglio 2019, Almaviva ha annunciato il licenziamento di 1600 lavoratori della sede di Palermo e oggi, 9 settembre, scadeva il termine per la presentazione da parte dell’azienda della procedura di licenziamento collettivo. Una procedura che, se andasse in porto, porterebbe a un licenziamento in massa dei dipendenti della sede di Palermo, sulla falsariga di quanto accaduto a Roma nel Natale del 2016.