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Home » Economia

La rivoluzione mancata dell’IA e la prossima crisi finanziaria Usa

Immagine di copertina
Credit: AP Photo

Le Big Tech hanno investito miliardi nell’intelligenza artificiale. Ma finora non hanno ricavato quanto sperato. Ecco perché la corsa alla nuova tecnologia ricorda le speculazioni sulle dot-com dei primi anni del Millennio. E quanto potrebbe costarci la bolla dell'IA

Miliardi di dollari di investimenti, valutazioni alle stelle e la promessa di rivoluzionare l’economia globale. L’intelligenza artificiale è l’ultima frontiera del tech, che ambisce a stravolgere il mondo del lavoro. Questo almeno nelle previsioni di analisti, blogger e colossi come Microsoft, Google e Amazon, che puntano sulla tecnologia per proiettare nel futuro la crescita degli ultimi anni. 

Grazie a computer e macchine in grado (apparentemente) di ragionare, apprendere e risolvere problemi tramite l’analisi di dati su vasta scala, l’intelligenza artificiale dovrebbe arrivare ad automatizzare gran parte del lavoro da ufficio. Una prospettiva accolta con crescente entusiasmo dai mercati, che hanno fatto lievitare le valutazioni dei colossi del settore.

Oltre a spingere verso nuove vette i titoli, il boom ha innescato una corsa agli investimenti che ha già portato le principali aziende del tech a spendere centinaia di miliardi di dollari. Solo per quest’anno, Alphabet (capogruppo di Google), Amazon, Apple, Meta e Microsoft prevedono 400 miliardi di dollari di spese in conto capitale, perlopiù legate all’intelligenza artificiale, e ricerca e sviluppo.

Le aziende stanno facendo a gara per progettare, addestrare e lanciare i modelli migliori di intelligenza artificiale, nella speranza di attirare utenti. Ma stanno soprattutto investendo massicciamente in microchip, e negli impianti e nelle infrastrutture per usarli, con l’obiettivo di assicurarsi un posto nel mercato del futuro a prescindere dalla direzione che la tecnologia prenderà. Nonostante le innumerevoli ipotesi fatte dagli addetti ai lavori, non è infatti chiaro quali saranno le applicazioni future di questa tecnologia.

L’obiettivo dichiarato è il traguardo dell’intelligenza artificiale generale, equivalente o superiore a quella umana. Gli scenari a quel punto si fanno fumosi. Generalmente si ritiene che i modelli di intelligenza artificiale saranno in grado di automatizzare gran parte delle attività svolte dall’uomo, con tutti i dilemmi economici ed etici che derivano da una simile trasformazione. Ma iniziano a levarsi molte voci scettiche delle reali prospettive della tecnologia, alla luce soprattutto delle valutazioni attuali.

Euforia irrazionale?
Secondo i critici, è sbagliato accostare questo boom a quelli che hanno accompagnato altre innovazioni del passato. Ci sono differenze sostanziali con, ad esempio, la mania speculativa che ha portato alla diffusione delle ferrovie o anche con i primi anni di smartphone e internet. 

Nel caso degli smartphone, già agli inizi era evidente il modo in cui sarebbero stati usati. Anche quando circolavano prototipi era già possibile prevedere le tecnologie che sarebbero state integrate nei cellulari del futuro, come il Gps. Per l’intelligenza artificiale invece, secondo gli scettici, non c’è nulla di paragonabile. Si suppone che le applicazioni di questa tecnologia, al momento indefinite, emergeranno in futuro.

In risposta a chi contesta la sostenibilità economica del boom dell’intelligenza artificiale molti hanno invece tracciato parallelismi con lo sviluppo delle ferrovie. L’ipotesi è che questi investimenti stanno ponendo le basi per un’infrastruttura, i binari, che saranno percorsi dai treni del futuro. Il problema, secondo David Cahn, partner della nota società di venture capital californiana Sequoia, non è solo che il boom delle ferrovie nel 19esimo secolo si è accompagnato a una bolla speculativa, costata cara a molti investitori dell’epoca. Cahn sostiene anche che i chip usati per l’intelligenza artificiale tendono a deprezzarsi molto più rapidamente di qualsiasi infrastruttura fisica, visto il miglioramento costante nelle performance dei nuovi modelli. A differenza di quanto avviene per i binari inoltre, dai processori non deriva alcun potere di monopolio. Questi invece starebbero diventando dei beni indifferenziati (commodity), con nuovi attori sempre pronti a entrare nel mercato.

Dal metaverso alla blockchain passando per la realtà virtuale, secondo Jim Covello, Head of Global Equity Research per Goldman Sachs, schierato nettamente nel campo degli scettici, l’intelligenza artificiale non sarebbe la prima novità che negli ultimi anni ha portato a un’impennata di investimenti senza trovare applicazioni nel mondo reale.

La banca newyorkese prevede che nei prossimi anni gli investimenti nelle infrastrutture per l’intelligenza artificiale, che comprendono spese per data center, utenze e applicazioni, ammonteranno a 1.000 miliardi di dollari. «Quindi, la domanda cruciale è: quale problema da mille miliardi di dollari sarà mai risolto dall’intelligenza artificiale?», ha chiesto Covello in una nota della banca d’investimento. «Sostituire posti di lavoro a basso salario con tecnologie tremendamente costose è l’esatto opposto di quanto avvenuto nelle transizioni a cui ho assistito in trent’anni da attento osservatore dell’industria».

Più che con le ferrovie, il paragone è con la bolla delle dot-com di fine anni ’90. «Costruire troppe cose che non servono al mondo, o per le quali non è pronto, in genere finisce male», ha avvertito Covello, ricordando che il Nasdaq, l’indice statunitense dei titoli tecnologici, ha perso circa il 70 per cento dal picco del boom delle dot-com, a marzo del 2000, alla nascita di Uber, nel 2009. Questa volta però la situazione non è così fuori controllo. Oggi molte delle aziende che stanno investendo nell’intelligenza artificiale «sono meglio capitalizzate» rispetto alle protagonista di quella bolla.

Ad alcuni queste critiche ricordano i giudizi lapidari formulati alla nascita di Internet. Come quello dell’economista Paul Krugman che nel 1998, all’apice del clamore per il web, andò controcorrente prevedendo che nel 2005 l’impatto di Internet sull’economia globale non sarebbe risultato più significativo di quello del fax. Un esempio per molti della facilità con cui anche gli esperti più quotati possano finire per sottovalutare la forza dell’innovazione, se solo si guarda alla rapidità con cui internet si è diffuso nel mondo e all’impatto che avuto sulle comunicazioni. Ma uno sguardo al contesto in cui era stata formulata la previsione ha spinto diversi economisti a dire che Krugman aveva le sue ragioni.

All’epoca era in corso un dibattito sugli effetti che la “new economy” di Internet avrebbe avuto sull’andamento futuro della crescita. Sempre nel 1998 Rudi Dornbusch, uno dei maestri di Krugman, aveva previsto in un articolo sul Wall Street Journal che la crescita sarebbe proseguita «in eterno», senza recessioni negli anni a venire. In quest’ottica la previsione del futuro premio Nobel per l’economia si è rivelata azzeccata. «La crescita della produttività è stata sostanzialmente più debole durante l’era di Internet», ha commentato a Bloomberg Skanda Amarnath, direttore esecutivo di Employ America.

Oggi anche Daron Acemoglu, fresco vincitore del premio Nobel per l’Economia, è scettico sull’impatto economico dell’intelligenza artificiale. Il problema, secondo il docente di origine turca, sono i costi ingenti. Per questo, nei prossimi 10 anni, la tecnologia avrà un impatto su meno del 5 per cento delle attività esposte all’intelligenza artificiale.

Secondo l’economista, il fatto che lo sviluppo tecnologico finisca inevitabilmente per cambiare la vita delle persone non è una «legge di natura». Così, anche i progressi dei modelli di intelligenza artificiale potrebbero non essere all’altezza delle previsioni. Nell’arco del prossimo decennio Acemoglu ha previsto che l’intelligenza artificiale aumenterà la produttività degli Stati Uniti solo dello 0,5 per cento e farà crescere il Pil dello 0,9 per cento.

Caccia ai ricavi
Un’altra delle questioni aperte per gli scettici è quella dei ricavi mancanti. Il boom di investimenti nell’intelligenza artificiale, e l’aumento nelle valutazioni delle Big tech  è stato giustificato da stime sempre più ottimistiche dei proventi che saranno in grado di generare in futuro. Secondo i calcoli fatti dall’Economist a luglio, nell’arco di un anno il valore delle azioni delle prime cinque aziende tecnologiche statunitensi, Alphabet, Amazon, Apple, Meta e Microsoft, è aumentato complessivamente di duemila miliardi di dollari. Questa impennata indicherebbe che i mercati prevedono un aumento dei ricavi annui di 300-400 miliardi di dollari. Come se si dovesse materializzare una nuova Apple.

Ma finora i risultati sono stati diversi. Per quest’anno Microsoft, ad esempio ,prevede vendite legate all’intelligenza artificiale pari a 10 miliardi di dollari. Secondo Cahn, il partner di Sequoia, ipotizzando numeri simili per concorrenti come Meta e Apple, al settore mancano 500 miliardi di dollari di ricavi annui per giustificare i livelli di investimento attuali.

Nonostante lo scetticismo, Cahn è certo che l’intelligenza artificiale creerà una «grande quantità di valore economico». «Le manie speculative sono parte della tecnologia e quindi non sono qualcosa di cui aver paura», ha scritto. «Ma dobbiamo assicurarci di non credere all’illusione che ora si è diffusa dalla Silicon Valley al resto del Paese, e in effetti al mondo». L’«illusione» è quella che l’intelligenza artificiale generale sia alle porte e che per questo è necessario accumulare immediatamente quanti più processori possibili. Invece la strada che porta allo sviluppo di queste tecnologie è ancora lunga.

Per mesi l’intelligenza artificiale è stata descritta sulla stampa sotto un’altra luce. Hanno trovato molto più spazio gli avvertimenti sui futuri pericoli e l’evocazione di scenari fantascientifici, spaziando da “Terminator” a “2001: Odissea nello spazio”, che non gli interrogativi sugli eccessi dei mercati. Come scrive John Herrman di New York Magazine, richiamare situazioni da fine del mondo è diventato una sorta di «strategia retorica» che aiuta le aziende a dare visibilità ai propri investimenti, a creare interesse nell’intelligenza artificiale e a reperire finanziamenti. Un circuito che si potrebbe interrompere se il discorso intorno alla tecnologia dovesse cambiare e farsi più misurato. In quel caso la luna di miele potrebbe finire «rapidamente».

L’unico vincitore
Finora l’azienda che più ha beneficiato dell’entusiasmo dei mercati non è OpenAI, la società che ha ideato ChatGPT, o Microsoft e Google, che come detto hanno investito miliardi di dollari nelle tecnologie del futuro. O la neonata xAI del miliardario sudafricano Elon Musk che, mentre celebra l’elezione di Donald Trump, cerca finanziamenti per la sua ultima creatura a una valutazione di 40 miliardi di dollari. A catalizzare l’attenzione è invece un produttore di microchip, la californiana Nvidia. Nota per i suoi processori grafici, è diventata il riferimento per le tecnologie alla base degli ultimi modelli di intelligenza artificiale. In pochi mesi le sue azioni sono arrivate a valere più di 3.500 miliardi di dollari, spodestando (temporaneamente) Apple come prima società al mondo per capitalizzazione di mercato.

Questo grazie ai miliardi spesi dalle Big del tech, che si sono riversati nell’acquisto di chip Nvidia, negli impianti e infrastrutture per operarli e di energia elettrica per alimentarli, ponendo l’azienda di Santa Clara al centro del trend economico del momento. Anche qui però molti dubitano della sostenibilità delle valutazioni degli ultimi mesi. Poco prima del crollo dei mercati di inizio agosto, che ha colpito in particolare i titoli del tech, l’hedge fund Elliott Management ha dichiarato che il titolo Nvidia è ormai in una «bolla» e che l’intelligenza artificiale in generale è «sopravvalutata».

In una nota ai propri investitori, riportata dal Financial Times, Elliott Management ha dichiarato che Nvidia e altri titoli tecnologici dalle valutazioni esorbitanti hanno varcato la soglia di «bolla-landia».

Finora, ha aggiunto Elliott Management nella sua lettera, l’intelligenza artificiale non è riuscita a portare agli aumenti di produttività promessi. «Ci sono pochi usi reali», riporta la nota, oltre a «riassumere gli appunti delle riunioni, generare report e aiutare a programmare». L’intelligenza artificiale, ha aggiunto, è un software che finora non ha dimostrato di avere «valore commisurato alle aspettative che si sono create».

L’intelligenza artificiale, nel giudizio degli analisti, è comunque «sopravvalutata» e molte sue applicazioni «non sono pronte per essere lanciate». Non solo, ma «non saranno mai efficienti in termini di costi, non funzioneranno mai correttamente, richiederanno troppa energia o si dimostreranno inaffidabili».

Elliott Management è quindi detto «scettica» che le Big tech possano continuare ad acquistare i chip di Nvidia a volumi così elevati. Nonostante il verdetto negativo, la società non intende tuttavia scommettere contro questi colossi. Una scelta del genere, secondo il fondo che gestisce beni per 70 miliardi di dollari, sarebbe da considerarsi «suicida».

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