Giulia Innocenzi a TPI: “Vi racconto il lato oscuro dell’industria della carne, tra lobby e politica”
“Nel mio docu-film Food for Profit rivelo come le lobby del settore girano indisturbate nei palazzi delle istituzioni. E pagano i nostri rappresentanti per influenzarne le decisioni. Non fidatevi di chi a parole dice di battersi contro la crisi climatica e poi nei fatti finanzia gli allevamenti intensivi”
La giornalista Giulia Innocenzi ci accompagna in un viaggio investigativo attraverso l’Europa per svelare cosa si nasconde dietro i sussidi europei che destiniamo agli allevamenti intensivi. Un lavoro durato cinque anni, che evidenzia per la prima volta come la politica europea sia di fatto al servizio di alcune lobby della carne, senza alcuno scrupolo sulla tutela della salute dei cittadini e dei diritti degli animali. Il suo docu-film Food For Profit, realizzato insieme al collega Pablo D’Ambrosi, è stato proiettato in anteprima internazionale a Bruxelles presso il Parlamento europeo lo scorso 22 febbraio, e ora sugli schermi dei cinema di molte città d’Italia.
Qual è la tua storia? Quando hai iniziato a occuparti di questi temi?
«Ho iniziato a trattare questi temi quando ho cominciato ad avere problemi di salute. Mi era venuta l’alopecia: spazzolando i capelli mi ero accorta che avevo qualche buco in testa. Più tardi ho avuto un’infezione al rene e mi hanno ricoverata in ospedale per cinque giorni. Era capodanno, l’infermiera a mezzanotte venne da me in stanza e mi chiese di brindare con lo champagne. Io risposi che avrei preso solo tachipirina. Sono stata veramente malissimo. A quel punto mi dico: “Devo rivedere come ho impostato la mia vita a partire dal cibo”. In quel periodo usciva il libro di Jonathan Safran Foer Se niente importa. Perché mangiamo gli animali? (Guanda Editore, ndr). Me lo sono divorato, ha avuto un impatto su di me molto forte. Da quel momento non ho più voluto mangiare carne di pollo per le immagini che Safran Foer richiama dei macelli in America. Dopodiché, quello che ho fatto è stato chiedermi se anche in Italia ci fosse qualche somiglianza con il modello americano da lui descritto. Inizialmente non pensavo fosse possibile, considerando ciò che veniva detto sui prodotti made in Italy, definiti i migliori al mondo, i più controllati, eccetera… Poi sono riuscita a intrufolarmi di notte negli allevamenti intensivi e ho visto con i miei occhi che purtroppo quello che racconta Safran Foer non è tanto diverso da quello che abbiamo in Italia. Da lì non sono più riuscita a mollare l’argomento. È una cosa più forte di me».
Quanto è difficile seguire un’alimentazione vegetariana o vegana?
«Io sono vegana a casa e vegetariana in giro. Ho avuto qualche difficoltà quando siamo andati in Polonia oppure nella Germania dell’Est a condurre le inchieste per Food for profit. E ancora, quando sono stata in Cina, nella provincia dello Wuhan, dove ho visitato un palazzo di 26 piani utilizzato come allevamento di maiali: ho pranzato di fianco al direttore generale, il quale mi ha offerto la sua carne; l’ho dovuto mangiare, visto che ero lì sotto copertura. Però per il resto è molto facile seguire una dieta a base vegetale».
Perché la maggior parte dei medici nutrizionisti continua a inserire la carne nelle diete alimentari?
«Dipende da medico a medico sicuramente. È una tradizione dura a morire e la stessa medicina, purtroppo, affronta troppo poco il tema del cibo, tant’è che se uno studente segue un corso classico di medicina quasi non affronta neanche l’argomento alimentazione. C’è ancora tanto da imparare rispetto alla nutrizione, anche in campo medico».
Si può dire che anche in questo settore ci sono pressioni da parte dell’industria della carne?
«Le pressioni in generale ci sono a partire dai media, ma anche a partire dalle scuole. Ad esempio ci sono ancora scolaresche portate a visitare i caseifici per invitare a consumare latte. Non viene mai promosso un altro modello. Non vedi studenti in gita ai “santuari”, nei luoghi dove gli animali vengono salvati dai macelli e dove possono vivere vita natural durante. Sin da piccoli ci viene insegnato che questo è un modello giusto e che non va messo in discussione. Anche se i bambini, non appena si dà loro un altro punto di vista, si pongono tantissime domande. Una bambina di 9 anni mi ha scritto una lettera in cui fra le lacrime mi chiedeva perché commettiamo questo tipo di violenza sugli animali e cosa potesse fare lei per aiutarli. I bambini, con i loro sguardi puri, non possono accettare il modello che gli adulti hanno costruito, basato sullo sfruttamento degli animali, e quindi si cerca di normalizzare questo modello ai loro occhi sin da quando sono piccoli».
Quindi non può esistere un’alternativa sostenibile all’allevamento intensivo di carne? Gli allevamenti estensivi? Perché se compro la carne dalla piccola fattoria non va bene?
«Se vogliamo continuare a portare avanti questo livello di consumo di carne, l’allevamento estensivo non va bene perché non ci sarebbe abbastanza spazio per tutti gli animali che pascolano. Quindi, a fronte di questo elevato livello di consumo di carne, l’allevamento estensivo non può essere un’alternativa. Se invece dici “Scelgo di ridurre il consumo di carne perché non accetto come vengono allevati gli animali e consumare meno carne ma la voglio di qualità”, quello che posso dire è che purtroppo anche l’allevamento estensivo o etico, come lo si voglia chiamare, presenta delle fortissime criticità. Faccio un esempio: le vacche da latte vanno comunque separate dal vitello, perché quel latte lì è di una vacca che è stata inseminata appositamente per procreare e per dare il latte agli umani. Andrà separata dal suo cucciolo per dare il latte al commercio. E ancora: dietro ogni gallina ovaiola c’è il fratellino maschio che direttamente all’incubatoio è stato triturato vivo perché in quanto maschio non ha uno sbocco commerciale perché non fa le uova. Non è efficiente per la produzione e quindi va semplicemente eliminato, soppresso, ucciso. Potremmo andare avanti all’infinito con questo genere di esempi. Nel programma Animali come noi con Michele Santoro abbiamo dedicato una puntata al latte di bufala e abbiamo scoperto che il suo costo nascosto è proprio l’uccisione dei bufalini maschi, non avendo essi uno sbocco commerciale. Il bufalo impiega circa tre volte il tempo di crescita di un vitello normale: questo significa costi più che triplicati. Quindi questi poveri cuccioli vengono ammazzati oppure vengono annegati con le zampe legate, sotterrati praticamente da vivi o nel migliore dei modi lasciati morire di fame e di sete. Nelle campagne del casertano ho visto cose aberranti, e spesso si trattava di bufale che pascolavano nei prati. Purtroppo ogni tipo di allevamento prevede lo sfruttamento dell’animale. L’animale è visto in quanto prodotto, non è contemplato come un essere vivente».
Il film Food for Profit mostra bene il legame tra allevamenti e lobby. Che potere hanno le lobby? In che modo avviene il conflitto di interesse?
«Le lobby hanno un grandissimo potere di intervento nelle nostre democrazie ed è un potere che i lobbisti hanno senza essere stati eletti. È un potere che deriva solo dal loro potere economico e cioè dall’industria che rappresentano. Ed è senza trasparenza, perché nonostante ci debba essere un registro delle lobby che vanno a lavorare al Parlamento europeo, noi non abbiamo contezza dei loro incontri, non abbiamo contezza delle loro pressioni e non abbiamo contezza di quanto esercitano anche la loro influenza economica sui nostri rappresentanti. L’esempio più lampante della commistione fra lobby e politici è rappresentata da Paolo De Castro, eurodeputato italiano che da anni percepisce soldi dall’industria della carne. Viene pagato dal Consorzio del Grana Padano, produttore di formaggio, viene pagato da Filiera Italia, che è la fondazione dentro cui ci sono McDonald’s, Cremonini, Amadori. E allo stesso tempo De Castro vota e deve decidere su queste aziende, su quanti sussidi europei devono prendere e su quali debbano essere le regolamentazioni che governano questa industria. Questo si chiama conflitto di interessi grosso come una casa. Detto ciò, i lobbisti a Bruxelles sono 25mila. Bruxelles è la seconda capitale al mondo per lobbismo dopo Washington e l’agribusiness è una fetta molto importante di queste attività. Non possiamo continuare a destinare miliardi di euro agli allevamenti intensivi solo perché la lobby della carne e dell’industria zootecnica gira indisturbata per i corridoi che contano. Il cibo oggi è diventato una vera e propria questione politica».
Come ha reagito De Castro all’uscita del documentario?
«Non abbiamo ancora reso nota questa notizia: De Castro ci ha mandato una diffida. Ci ha diffidato e ci invita a rimuovere tutti i contenuti del film in cui parliamo di lui, cosa che ovviamente non faremo perché tutto quello che abbiamo fatto è lecito e nel rispetto della libertà di espressione. E ha mandato la sua diffida anche ad altri giornalisti che hanno affrontato il tema, per esempio ad Andrea Scanzi dopo che mi ha intervistato su Facebook. De Castro non sarà ricandidato nelle liste del Pd dopo 15 anni di onorata carriera al Parlamento europeo. Al suo posto Eleonora Evi, che da anni si batte contro la crisi climatica e per i diritti degli animali. Un bel segnale da parte di Elly Schlein».
Quanto è difficile per una giornalista d’inchiesta lavorare con il rischio costante di diffide e querele?
«Noi non abbiamo un grande editore alle spalle. Io e il mio socio Pablo D’Ambrosi ci siamo dovuti creare una società che abbiamo ribattezzato Pueblo Unido. L’abbiamo costituita proprio perché nessuno ci voleva produrre. Quando non hai un grande editore alle spalle significa che tutte le spese legali le paghi te, e se poi ti arriva una richiesta di risarcimento danni, non hai idea di come finirà. Abbiamo ricevuto quattro diffide in totale, di cui una arrivata a un cittadino che proiettava il film. Atti intimidatori veri e propri. Noi siamo una piccolissima società, abbiamo messo mille euro a testa, ma il privato cittadino che ha ricevuto la diffida è un blogger che ha ospitato la proiezione del film in un piccolo paese, Bertinoro, in provincia di Forlì-Cesena. Le aziende che ci stanno diffidando sono aziende da miliardi di euro di fatturato l’anno che si presentano sempre con un team di quindici avvocati per intimidirci. Abbiamo dovuto oscurare i volti e i marchi di cui parliamo nel documentario proprio perché non abbiamo la possibilità di difenderci davanti a questi colossi. La prima diffida ci è arrivata prima che uscissimo: per me inizialmente è stata una sconfitta. Era un venerdì sera alle ore 22: mi sono fatta un bel pianto e ho pensato “Io davanti a questi colossi, non posso fare niente. Ho lavorato per cinque anni, esco adesso col documentario, ma tanto vincono sempre loro”. Poi, ragionando, abbiamo pensato che in realtà a noi dei marchi interessa ben poco, perché con Food for Profit stiamo denunciando un sistema. Non stiamo dicendo “Non comprate questo marchio, ma comprate quell’altro”. Stiamo dicendo che tutto ciò che vedi è una prassi aziendale, è un sistema dove conta soltanto fare profitto. Tutto il resto non conta nulla, quindi alla fine della fiera non mostrare i marchi ci ha aiutati nella denuncia del sistema. Tant’è che una diffida ci è arrivata da un’azienda che non è neanche presente nel film, proprio perché sanno che ovunque si lavora in quel modo».
Il Parlamento europeo non ha mai dato la definizione di “allevamento intensivo”. Questo cosa comporta?
«Comporta che l’industria può continuare a giocare e a dire che i suoi prodotti non derivano da allevamenti intensivi, che in Europa non ci sono gli allevamenti intensivi e che ci sono solo negli altri Paesi. Gli stessi politici che mi hanno negato l’esistenza di allevamenti intensivi europei dicono sempre che gli allevamenti intensivi sono in America Latina, negli Stati Uniti. Ma non è così. Gli allevamenti intensivi possono essere costituiti anche da solo 100 animali, il punto è come li allevi. Se li allevi in spazi chiusi con densità alte e senza possibilità di uscire, quello è un allevamento intensivo. Il fatto di non riconoscerlo dalla legge, di non avere una definizione ufficiale, ovviamente non consente neanche di avere un’etichettatura trasparente e quindi di permettere al consumatore di sapere se quella fettina di pollo viene da un allevamento con animali rinchiusi nei capannoni oppure se viene da animali che hanno avuto libero accesso all’esterno».
Nel doc si parla di maiali a sei zampe geneticamente modificati. Di che si tratta?
«Il Parlamento europeo circa un mese fa ha adottato il primo via libera al Gene editing sulle piante. Il Gene editing è una modifica genetica all’interno dello stesso organismo. Senza utilizzare pezzi di Dna di altri organismi, si modifica l’organismo in sé. Vengono chiamati anche i nuovi Ogm. Anche il ministro dell’Agricoltura Lollobrigida è favorevole al Gene editing perché lo è anche Ettore Prandini, il capo della Coldiretti. Nel documentario abbiamo voluto verificare sul campo la disponibilità degli eurodeputati rispetto a progetti scabrosi di fronte ai quali qualunque di noi rimarrebbe inorridito, come il maiale a sei zampe per avere più prosciutti, la mucca con due organi sessuali per produrre più latte e più vitelli. Ma non solo: il nostro lobbista nel film presenta un progetto su un tubo da infilare nel retto delle vacche per ridurre l’emissione di metano. Gli eurodeputati interpellati su questo emendamento si sono detti disponibili a presentarlo. È veramente sconvolgente. Anche se queste invenzioni in verità prendono spunto dalla realtà, perché oggi gli animali negli allevamenti sono già frutto di selezione genetica spinta. Pensiamo per esempio al pollo broiler: un pollo che ha un petto enorme e che non riesce neanche a reggersi sulle proprie zampe e che già a 35 giorni è pronto ad andare al macello. Oppure pensiamo alle scrofe che hanno sempre più capezzoli perché così possono dare vita a sempre più suini ed essere più produttive. Il Gene editing esiste già in Israele, dove è stato creato il pollo senza piume, così che si evita di pagare lo spiumaggio. Esiste per far nascere bovini senza corna, così da semplificare le procedure all’interno dell’allevamento intensivo. Queste cose già esistono. Abbiamo solo preso spunto dalla realtà e le abbiamo spinte all’inverosimile, tant’è che gli eurodeputati ci sono cascati e hanno risposto che non hanno pregiudizi davanti a cose del genere. L’importante è venderlo bene al pubblico, all’opinione pubblica».
Perché c’è diffidenza sulle carni sintetiche e non sull’editing genetico?
«Perché l’editing genetico è una cosa che va in favore all’industria attuale. L’industria attuale vuole l’editing genetico perché – non è che nega l’esistenza del cambiamento climatico, che essa stessa crea – sa che c’è il cambiamento climatico e dice: per fronteggiarlo voglio creare piante più resistenti alle alte temperature, alla mancanza di acqua. Non vuole rivoluzionare la propria produzione, ma pensa a come portarla avanti. O meglio: a come produrre sempre di più a fronte di un cambiamento climatico che è già in atto. La carne a base cellulare, invece, è una carne che per il momento viene prodotta da nuovi protagonisti del settore, spesso start-up che poi vengono acquisite dai colossi della carne. Questo perché l’industria della carne ovviamente sa che può essere un’alternativa e quindi si posiziona. Però i grandi attori, quelli più diffusi e cioè le aziende agricole normali, rimarrebbero fuori da questo mercato e quindi la politica asseconda le lobby nel volerlo fermare. È stata una scelta puramente elettorale per conquistarsi una fetta di elettori, non ha niente di scientifico o di altro. Per ora il governo italiano è il primo e unico governo al mondo ad aver vietato la carne a base cellulare, che poi obiettivamente neanche esiste come fenomeno. Io stessa sono andata a Singapore a provare la carne a base cellulare: ho dovuto organizzare la trasferta per arrivare lì il giovedì all’ora di pranzo perché Singapore, primo Paese al mondo ad avere autorizzato la carne a base cellulare, la serve soltanto il giovedì all’ora di pranzo, tanto poca ce n’è. È una scommessa ancora tutta da vedere».
Come ti spieghi il successo che sta riscuotendo il documentario?
«Siamo rimasti felicemente sorpresi da tutto quello che sta succedendo intorno al film. I tempi sono cambiati, se questo film fosse uscito dieci anni fa avrebbe avuto tutt’altro riscontro. Oggi, invece, le persone vogliono sapere qual è il costo del loro piatto. Inoltre, la commistione fra lobby e politica e i finanziamenti che vengono dati a questo tipo di industria ti danno una nuova chiave di lettura. Ti fanno capire che è un’industria supportata dalla politica, in contraddizione con quello che la politica dice. Da una parte le istituzioni dicono di combattere il cambiamento climatico, dall’altra finanziano gli allevamenti intensivi. Non è un film solo sugli allevamenti intensivi. È un film sul sistema capitalistico, sul sistema democratico. È un film sul sistema e denuncia il sistema stesso».
Cosa possiamo fare per cambiare questo sistema?
«Come diciamo sempre alla fine del film, i piani di cambiamento sono due: uno è quello sistemico. Motivo per cui stiamo portando il film in tutte le sedi istituzionali, dal Parlamento europeo a quello italiano passando per l’Assemblea regionale Siciliana. Con questo film facciamo vere e proprie richieste politiche di cambiamento. L’altro piano di cambiamento riguarda tutti noi: con la nostra forchetta, che come ha detto qualcuno è il nostro Parlamento quotidiano. Possiamo cambiare le cose».
Quali sono le proposte per le elezioni europee di giugno?
«Il messaggio chiaro che scriviamo a carattere cubitali è “Stop sussidi pubblici agli allevamenti intensivi”. Chi verrà eletto sarà cruciale perché deciderà sulla nuova Politica agricola comune. Sono felice che il film sia uscito prima delle europee perché spero che riesca a incidere nel dibattito sulle elezioni. Dobbiamo scegliere con intelligenza i candidati che vogliamo come nostri rappresentanti al Parlamento Europeo. La Lav (Lega Anti-vivisezione), che è l’associazione che ha coordinato le inchieste del film, insieme alle altre associazioni per i diritti degli animali hanno costituito una piattaforma che si chiama “Vote for Animals”, dove hanno stilato 10 punti programmatici di cui 4 sono proprio sugli allevamenti intensivi. E chiederanno a tutti i candidati alle elezioni europee di sottoscrivere questa piattaforma, in modo che noi cittadini, con trasparenza, potremmo vedere chi ha sottoscritto e chi non ha sottoscritto il piano per fare una scelta consapevole attraverso il voto. Queste elezioni sono cruciali, dobbiamo decidere con accortezza i nostri rappresentanti».
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