La grande guerra globale del rame tra la Cina e gli Stati Uniti
È il terzo metallo più impiegato al mondo nell’industria. Essenziale per i data center e le auto elettriche. Così Pechino e Washington fanno a gara per controllarne le riserve, il commercio e le nuove tecnologie in tuto il pianeta
Uno dei materiali più importanti nello sviluppo della civiltà umana, usato da millenni per creare strumenti di lavoro, opere d’arte e armi, oggi è un elemento essenziale nella transizione che punta a trasformare l’economia e a fermare la crisi climatica. È il rame, uno dei numerosi fronti su cui si gioca la sfida tra Cina e Occidente.
Per il metallo rosso, il 2024 è stato un anno da record. A maggio il prezzo di riferimento ha raggiunto un nuovo massimo storico, con una crescita del 27 per cento dall’inizio dell’anno. La febbre del rame è stata alla base anche della maxi-offerta da 40 miliardi di euro dell’australiana Bhp, rigettata dalla rivale Anglo-American proprio nello stesso mese.
La febbre dell’oro rosso
Oltre agli occhi dei mercati, sul rame e altri materiali strategici sono puntati anche quelli dei governi. Mentre la Cina investe miliardi di dollari per assicurarsi forniture di minerali chiave, gli Stati Uniti si stanno muovendo per arginare la superpotenza asiatica. Anche l’Europa, con il Critical Raw Materials Act, sta cercando di smarcarsi da Pechino e ridurre la dipendenza dai Paesi che possono esercitare un controllo sull’approvvigionamento dei materiali cruciali per la transizione verde. In Paesi come l’Italia si sta programmando la riapertura di miniere chiuse più di 30 anni fa per estrarre minerali necessari alla realizzazione di pannelli solari e batterie elettriche.
Considerato uno dei primi metalli utilizzati dall’uomo, ancora oggi caratteristiche come la duttilità, la malleabilità, la conduttività e la resistenza alla corrosione rendono il rame un materiale fondamentale. Attualmente è il terzo metallo più impiegato al mondo, dopo ferro e alluminio.
Negli ultimi mesi aziende, investitori e fondi ne hanno esaltato le prospettive come investimento, prevedendo carenze nella disponibilità della materia prima a seguito dell’aumento della domanda legata allo sviluppo delle nuove industrie verdi.
La scommessa è che l’aumento dell’impiego del rame in ambiti come i veicoli elettrici, le energie rinnovabili e anche l’intelligenza artificiale compenserà eventuali cali della domanda da settori più tradizionali come l’edilizia.
Chi ha puntato sul rame ha visto i propri rendimenti spiccare il volo a partire da aprile, quando il metallo ha accelerato la corsa che l’ha portato a superare i massimi registrati nel 2022. Il 20 maggio sono stati superati gli 11mila dollari alla tonnellata ed è stato aggiornato il record che risaliva a due anni fa.
Una corsa attribuita in generale alle trasformazioni geopolitiche ed economiche in atto, che stanno favorendo un aumento della domanda. A queste si sono accompagnate limitazioni impreviste sul lato dell’offerta, che hanno minacciato di rallentare l’estrazione e la produzione del metallo nel momento in cui il suo impiego nella realizzazione di veicoli elettrici, pannelli solari e data center lo sta rendendo sempre più essenziale.
Ma secondo alcuni osservatori la recente impennata è più legata a logiche speculative che a cambiamenti nei fondamentali. Lo confermerebbe anche l’andamento del mercato dal 20 maggio, giorno in cui è stata raggiunta la quotazione record di 11.104,50 dollari alla tonnellata sul mercato di Londra. Nelle settimane successive il prezzo della materia prima si è sgonfiato, dimezzando la crescita da inizio anno arrivando a luglio a perdere quasi il 20 per cento di quanto guadagnato tre mesi prima.
Nel descrivere la situazione sui mercati, il Financial Times ricorda che le materie prime vengono generalmente scambiate in base alle condizioni della domanda e all’offerta del momento. Ma molti investitori, sempre più presenti sul mercato, stanno iniziando a muoversi su base più speculativa, in base al probabile contesto futuro. «Le materie prime stanno cominciando a comportarsi un po’ come le azioni», ha dichiarato al quotidiano londinese Aline Carnizelo, managing partner di Frontier Commodities.
Al di là dell’andamento a breve termine, molti esperti sono comunque certi dell’importanza che la materia prima avrà nella transizione ecologica e nella contesa tra Cina e Occidente per il controllo delle tecnologie del futuro.
La geopolitica del metallo
L’interesse per il rame è stato un tema centrale della maxi-proposta dell’australiana Bhp per acquisire Anglo-American. L’accordo che avrebbe scosso il settore minerario è naufragato proprio a maggio, nel pieno della corsa del rame sui mercati. Anglo-American, quotata a Londra, produce ed estrae una vasta gamma di materie prime, dai diamanti al platino. Bhp ha messo però in chiaro che il suo interesse era prevalentemente per le attività relative al rame.
Subito dopo aver rigettato l’offerta della rivale, Anglo-American ha annunciato un progetto per rilanciare l’azienda partendo proprio dal rame. La società si preparerebbe ad abbandonare platino, diamanti e coke, puntando invece sul metallo rosso.
Testate come il Wall Street Journal hanno però ricollegato la fiammata di interesse per il rame alle tensioni crescenti tra Pechino e Washington che si contendono il controllo delle materie prime essenziali per le catene di fornitura delle nuove industrie verdi.
Washington si sarebbe interessata anche alla tentata acquisizione della multinazionale mineraria. Secondo il quotidiano newyorkese, esponenti dell’amministrazione Usa hanno espresso ai dirigenti di Anglo-American preoccupazioni per le ricadute dell’accordo, tra cui possibili limitazioni all’offerta globale di rame. Sempre secondo il Wall Street Journal, gli Stati Uniti erano preoccupati delle pressioni che la Cina avrebbe potuto esercitare su Bhp, costringendola a cedere alcune partecipazioni o a vendere al Paese una quantità maggiore di rame per non avere problemi con l’antitrust.
L’azione della Casa bianca non si limita a esternare timori. Secondo il quotidiano statunitense, l’amministrazione Biden ha anche cercato di intervenire nelle trattative per rilevare alcune miniere in difficoltà con l’obiettivo di tenerle fuori dal controllo cinese e impedire che Pechino rafforzi il dominio sulla fornitura globale di metalli e minerali cruciali per la transizione verde.
A differenza della Cina o di altri Paesi, il governo statunitense non può fare affidamento su aziende statali che investano direttamente nel settore. Piuttosto preferisce agire tramite imprese private o Paesi amici.
Come l’Arabia Saudita, con cui gli Stati Uniti avrebbero discusso potenziali accordi nella Repubblica Democratica del Congo, in base ai quali Riad avrebbe dovuto acquisire partecipazioni in alcune miniere mentre alle aziende statunitensi sarebbero stati riconosciuti diritti per l’estrazione. La Casa bianca si è attivata anche in Zambia, cercando investitori per le miniere della canadese First Quantum Minerals, uno dei principali produttori di rame al mondo. La ricerca non è limitata solo ai capitali statunitensi ma è allargata anche ai Paesi considerati amici, come Emirati Arabi Uniti, Giappone e Arabia Saudita. Nello stesso Paese l’anno scorso il governo ha scelto un conglomerato emiratino come nuovo investitore della Mopani Copper Mines, dopo che gli Stati Uniti avevano invitato Abu Dhabi a farsi avanti.
Sempre in Africa, Washington ha stanziato più di 1 miliardo di dollari per realizzare infrastrutture, ferroviarie ed elettriche, tra Angola, Congo e Zambia per favorire l’esportazione di metalli e minerali.
Al centro di questi sforzi c’è Amos Hochstein, consigliere di Biden per la sicurezza energetica a cui nelle scorse settimane è stato affidato anche il compito di mediatore nel tentativo di imporre un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza.
Riguardo il rame, Hochstein ha detto al Wall Street Journal che «non stanno arrivando molte nuove forniture in giro per il mondo». «Ciò che mi preoccupa è che anche quando viene fatta una scoperta, potrebbero volerci dai 7 ai 15 anni prima che si estragga il rame», ha aggiunto Hochstein, che al quotidiano ha detto di aver promesso ai governi africani che gli Stati Uniti stanno cercando di proporre un modello alternativo, che non si tradurrà in debito, corruzione e problemi ambientali.
Perché tutti lo vogliono
Al 2022 la Cina risultava il principale Paese utilizzatore di rame raffinato (con 14,7 milioni di tonnellate), di cui è anche il primo produttore. La Cina è inoltre tra i primi importatori, insieme a Stati Uniti e Italia.
I principali estrattori di rame al mondo sono invece Perù, Repubblica Democratica del Congo e Cile, considerato «l’Arabia Saudita del rame». Nel 2023 sono stati estratti 22,4 milioni di tonnellate di rame al mondo. Nello stesso anno la produzione di rame raffinato è stata pari a 26,5 milioni di tonnellate.
Quest’anno la fornitura di rame proveniente dalle miniere è stata inferiore alle previsioni a causa di alcuni ritardi in diversi progetti e della chiusura, avvenuta nel dicembre scorso, dell’importante miniera di Cobre a Panama. Molti addetti ai lavori avevano previsto forti carenze che però non si sono materializzate, grazie all’aumento dell’estrazione nella Repubblica Democratica del Congo e alla lavorazione del rame riciclato in Cina. Nella principale economia asiatica le scorte sono quasi ai massimi da quattro anni. Segno, secondo gli analisti, della momentanea debolezza della domanda a seguito della crisi del settore immobiliare e della riluttanza da parte di Pechino di stimolare i consumi delle famiglie. Chi punta su ulteriori rialzi del prezzo prevede che in futuro la produzione non riuscirà a tenere il passo della crescente domanda dovuta all’elettrificazione.
Tra gli impieghi che più hanno contribuito a suscitare interesse nel rame ci sono quelli relativi ai veicoli elettrici. Questi mezzi possono utilizzare fino a 80 chili della materia prima, quattro volte la quantità utilizzata in un tipico veicolo con motore a combustione. Nel 2022, secondo le stime di Goldman Sachs, le auto elettriche hanno assorbito due terzi dell’aumento della domanda di rame.
La banca ha sottolineato che il crescente impiego nei veicoli elettrici è un «fattore chiave della narrazione rialzista» e ha previsto che la domanda di rame da parte da questo settore salirà a 1,5 milioni di tonnellate nel 2025. Questo nonostante le misure prese dai produttori di auto elettriche per limitare la quantità di rame nei veicoli, in risposta all’aumento dei prezzi. La banca d’investimento statunitense ha previsto che il peso del rame scenderà a 65 chili per veicolo entro il 2030 grazie a una serie di innovazioni volte a migliorare l’autonomia, ridurre il peso dei veicoli e rafforzarne l’efficienza.
Il punto di vista europeo
Un metallo tanto importante che se ci siamo accorti anche in Italia e in Europa. Per alimentare le nuove catene di approvvigionamento, il governo italiano si sta preparando a riaprire miniere chiuse da decenni e riavviare l’estrazione di minerali come litio, rame, cobalto, argento e nichel, con l’istituzione di un comitato tecnico per le materie prime critiche e strategiche presso il ministero delle Imprese e del Made in Italy.
A dicembre invece, il Parlamento europeo ha adottato il Critical Raw Materials Act, in cui vengono delineati gli obiettivi per il riciclaggio, la lavorazione, il commercio e la produzione di materie prime critiche. Il Crma prevede una lista di 34 materiali critici di cui 17 sono anche considerati strategici.
«Possediamo nel nostro Paese 16 di queste 34 materie prime critiche indicate, in particolare quelle per batterie elettriche e pannelli solari», ha spiegato l’anno scorso il ministro delle Imprese Adolfo Urso, affermando che queste «si trovano in miniere che sono state chiuse oltre 30 anni fa, per il loro impatto ambientale o per i minori margini di guadagno». Giacimenti si trovano soprattutto nelle regioni dell’arco alpino oltre che in Liguria, Toscana, Lazio, Abruzzo e Sardegna.
A livello europeo l’obiettivo è di fare in modo che, entro il 2030, il consumo annuale dell’Ue sia composto per almeno il 10 per cento da minerali estratti localmente, per il 40 per cento da elementi lavorati all’interno dell’Unione e per il 25 per cento da materiali riciclati. Allo stesso tempo, nessun Paese terzo dovrà fornire più del 65 per cento del consumo annuale europeo di uno qualsiasi di questi materiali chiave. Un passaggio ritenuto essenziale per raggiungere il traguardo dell’azzeramento delle emissioni nette di anidride carbonica entro il 2050, alla luce del mutato contesto internazionale.
Attualmente l’Ue consuma circa un quarto delle materie prime mondiali, ma ne produce solo il tre per cento circa. Secondo la vicepresidente uscente della commissione Margrethe Vestager le norme «presentano una strategia equilibrata». «Senza un approvvigionamento sicuro e sostenibile di materie prime essenziali, non ci sarà alcuna transizione verde», ha sottolineato.