Il Memorandum Fiat-Algeria: Stellantis punta sul Nord Africa. E intanto a Melfi si sciopera
La 500 Hybrid sarà prodotta dagli operai maghrebini. Ma intanto in Italia i sindacati tornano a scioperare unitariamente contro la multinazionale che taglia e non dà risposte
Nel 1966 la Fiat di Gianni Agnelli e Gaudenzio Bono firmò un accordo con l’Unione Sovietica per la costruzione di una mastodontica fabbrica di automobili a Togliattigrad: sulle sponde del fiume Volga sarebbe stata prodotta la Lada Zhiguli, una versione russa della 124, la berlina che in quegli anni spopolava tra la piccola borghesia italiana.
Era la stagione d’oro dell’industria delle quattro ruote. Solo nel nostro Paese la Fiat dava lavoro a oltre 100mila persone e sfornava ogni anno più di un milione di vetture. L’accordo siglato con il Cremlino faceva parte di un ambizioso piano di espansione internazionale dell’azienda, ma rispondeva anche a un superiore interesse politico (favorire lo scongelamento delle relazioni industriali tra i due blocchi).
Premesse completamente diverse accompagnano invece, oggi, la collaborazione sottoscritta tra Fiat e il governo dell’Algeria, dove l’elemento centrale è il basso costo del lavoro degli operai nordafricani.
Operazione Maghreb
Fiat, confluita poco meno di tre anni fa nella multinazionale Stellantis e guidata ora dal francese Olivier François, sta ultimando la costruzione di uno stabilimento nei pressi della seconda città dell’Algeria, Orano: qui, a partire da dicembre, sarà prodotta la 500 Hybrid, a cui si aggiungeranno in futuro il Doblò e due nuovi modelli ancora in fase di progettazione.
Entro il 2026 la fabbrica dovrebbe impiegare 2mila operai, per un totale di circa 90mila auto assemblate ogni anno. Stellantis ha investito oltre 200 milioni di euro per radicarsi nel Paese. Sarà potenziata anche la rete commerciale, con il lancio per la clientela locale di sei modelli: 500 Hybrid, 500X, Tipo, Doblò, Scudo e Ducato.
L’obiettivo dichiarato della multinazionale è crescere sul mercato “Mea” (Africa e Medio Oriente), dove oggi ha una quota del 12% (a fronte del 20% in Europa, dell’11% in Nord America e del 23% in America Latina, mentre in Asia è praticamente inesistente). Ma è evidente che, se si punta sulla produzione in questa regione, è anche per le condizioni economiche vantaggiose che offre – in Algeria lo stipendio medio è 300 euro al mese –, tanto più in un momento assai delicato per l’intera industria dell’automobile.
Oggi il contesto è totalmente cambiato rispetto all’epoca dell’accordo con i sovietici: la crisi della domanda, la transizione ecologica e i problemi recenti riscontrati sulla catena delle forniture (i semiconduttori a un certo punto erano diventati introvabili) stanno mettendo a dura prova i costruttori europei.
Il confronto con i gloriosi anni Sessanta è impietoso: adesso Stellantis in Italia conta meno di 50mila addetti e produce meno di 500mila autovetture all’anno, la metà rispetto a mezzo secolo fa.
Ecco spiegato allora perché – se in Estremo Oriente si sono accumulati ritardi ormai irrimediabili – la multinazionale franco-italo-americana (ma con sede legale ad Amsterdam per risparmiare sulle tasse) ha deciso di partire alla conquista dell’Africa. E non solo verso l’Algeria, peraltro: lo scorso luglio il presidente di Stellantis, John Elkann, ha riunito orgogliosamente la stampa al Lingotto di Torino per svelare la nuova Seicento e la nuova Topolino, due simboli del Made in Italy: «Rappresentano gran parte della nostra eredità, proiettata verso il futuro», ha chiosato in tono poetico il nipote dell’Avvocato. Peccato che – più prosaicamente – la prima sarà prodotta a Tichy, in Polonia, e la seconda ad Amy, in Marocco. Perché la manodopera costa, ma se costa un po’ meno, è meglio.
Intanto in Basilicata…
Sia chiaro: gli operai maghrebini sorridono e ringraziano. Ma mentre li si va ad «aiutare a casa loro», in molte fabbriche italiane del Gruppo la situazione si sta facendo tesa.
Lo scorso 18 settembre a Melfi, in provincia di Potenza, dove ha sede il secondo stabilimento Stellantis più grande a livello nazionale, c’è stato uno sciopero di otto ore che ha coinvolto l’intero indotto: circa 10mila lavoratori.
Secondo i sindacati – che per la prima volta dai tempi di Sergio Marchionne hanno indetto un’iniziativa unitaria – l’adesione è stata intorno al 90%, mentre l’azienda ha parlato di una partecipazione del 25% e ha giustificato la frenata produttiva con la mancanza di componenti.
Le sigle firmatarie del contratto aziendale – Fim-Cisl, Uilm-Uil, Fismic e Ugl – protestano per i «continui rinvii» da parte dell’ex Fiat, che a detta loro non fornisce informazioni chiare sul cronoprogramma degli investimenti previsti sulla fabbrica (quattro nuovi modelli elettrici, ancora sconosciuti, che teoricamente dovrebbero entrare in produzione nel 2024, più un quinto a data da destinarsi).
E la Fiom-Cgil alza la voce anche contro «la corsa al taglio dei costi che sta ricadendo esclusivamente sulle lavoratrici e sui lavoratori, con utilizzo poco chiaro degli ammortizzatori sociali, trasferte obbligatorie e ritmi di lavoro arrivati al limite della sopportazione».
Il giorno successivo allo sciopero, tutte le sigle hanno incontrato a Roma i rappresentanti dell’azienda, che ha promesso di illustrare a breve il piano di avanzamento degli investimenti. Ma l’interlocutore non è solo Stellantis. Più in generale, i sindacati invocano da tempo un intervento del Governo per dare certezze ai lavoratori sulle reali intenzioni della multinazionale in Italia. Nel momento in cui questo giornale va in stampa (25 settembre) non ci sono novità su nessuno dei due fronti.
«È necessario garantire una prospettiva industriale e occupazionale, assumendo l’obiettivo di non chiudere gli stabilimenti, ma di trasformarli tecnologicamente, con soluzioni concrete», aveva avvertito già lo scorso luglio la Fim-Cisl.
Ad oggi nessuna delle fabbriche italiane del Gruppo è pienamente saturata (significa che i volumi produttivi sono sottodimensionati rispetto alla forza lavoro): da anni ormai si fa stabilmente ricorso alla cassa integrazione.
E intanto Stellantis, a partire dal 2021, ha avviato un piano di uscite incentivate che ha già convinto oltre 4mila lavoratori a lasciare l’azienda (e il totale potrebbe salire a 7mila alla fine di quest’anno).
Trasformazione
A giudicare dalle scelte fatte in questi anni, sembra che Stellantis concepisca l’Italia più come un laboratorio di progettazione ingegneristica e informatica che come una fabbrica di automobili.
Lo scorso 8 settembre a Mirafiori, negli sconfinati spazi un tempo adibiti all’assemblaggio di vetture e oggi in gran parte malinconicamente inutilizzati, è stato inaugurato il Battery Technology Center, un polo da 8mila metri quadrati dove cento tecnici – già in forza all’azienda – si dedicheranno a studiare, sviluppare e testare le batterie e i software per le auto di domani: un investimento da 40 milioni di euro.
«Siamo passati da una strategia basata sul “buy”, l’acquisto di pacchi batterie da montare sui nostri modelli, al “make”, ossia sviluppare, testare e costruire batterie nelle gigafactory del Gruppo (una delle quali sorgerà in Italia, a Termoli, ndr)», ha spiegato Paola Baratta, responsabile del Battery Center.
Entro il 2025, sempre a Mirafiori, su una superficie di 200mila metri quadrati che comprende anche la storica Palazzina Uffici di corso Agnelli, vedrà la luce il Green Campus Stellantis, un complesso di edifici ad alta efficienza ambientale nel quale si faranno attività di design, ricerca e sviluppo.
L’investimento ammonta a 100 milioni di euro e dovrebbe muovere circa 10mila fra ingegneri, tecnici e impiegati, anche se – come vi abbiamo raccontato nelle scorse settimane su TPI – i numeri non tornano: oggi agli Enti Centrali, gli uffici dove si concentrano le attività ingegneristiche e amministrative di Stellantis a Torino, lavorano complessivamente meno di 6mila persone; e se anche, per ipotesi, si includessero tutti gli impiegati italiani del Gruppo, non si arriverebbe comunque a quota 10mila.
Non sarebbe la prima volta che a un proclama roboante non seguono i fatti. Nel 2019 – prima della fusione tra Fiat-Chrysler e Peugeot – l’azienda aveva annunciato l’imminente inaugurazione di un Battery Hub, sempre a Mirafiori, nel quale avrebbero dovuto essere assemblate le batterie per le auto elettriche, ma poi se ne sono perse le tracce e non se n’è più saputo nulla.
Comunque sia, sul versante ingegneristico si registra evidentemente un certo fermento. Una vitalità che, al contrario, non si intravede in ottica produzione: negli ultimi anni gli unici modelli che hanno garantito discreti volumi sono stati la Panda (che viene fatta a Pomigliano ma che ormai si avvia al pensionamento), le Jeep Renegade e Compass (Melfi) e la 500 Elettrica (Mirafiori). E si è passati dalle 713 mila vetture prodotte nel 2016 alle 479mila del 2022.
Non solo elettrico
L’amministratore delegato di Stellantis, il portoghese Carlos Tavares, non è certo un fan delle auto a batteria. Non perde occasione per sottolineare il suo scetticismo rispetto ai rigidi vincoli sull’elettrificazione imposti dall’Unione europea, così come ha più volte criticato la debolezza degli eco-incentivi messi a disposizione da certi Paesi, fra cui in primis l’Italia.
Ciò nonostante, con il piano “Dare Forward 2030” la multinazionale si è prefissata l’obiettivo di arrivare al 2030 con il 100% delle vendite in Europa e il 50% di quelle negli Stati Uniti costituite da veicoli elettrici a batteria. Entro la fine del decennio in corso, Stellantis mira a ottenere una riduzione del 50% delle proprie emissioni di anidride carbonica rispetto al 2021 ed entro il 2038 punta ad azzerare le emissioni nette.
Letto sotto questa prospettiva, desta più di una perplessità l’annuncio, fatto lo scorso 5 settembre, della nuova collaborazione con Aramco, la compagnia petrolifera nazionale dell’Arabia Saudita, nonché la seconda azienda al mondo per emissioni di anidride carbonica.
Il colosso dell’auto e quello degli idrocarburi stanno lavorando insieme per studiare la possibilità di utilizzare i carburanti sintetici (e-fuels) sulle auto a benzina e diesel senza alcuna modifica al gruppo propulsore: l’idea è quella di intervenire in parallelo alla produzione di auto elettriche, dotando le auto già circolanti di una nuova alimentazione che – stando al comunicato congiunto di Stellantis e Aramco – sarebbe potenzialmente in grado, nell’arco di un ciclo di vita di un’auto, di ridurre le emissioni di anidride carbonica del 70% rispetto ai carburanti convenzionali.
Anche ammesso che dal punto di vista ambientale il vantaggio ci sia, il problema però è che, per essere prodotti, gli e-fuels hanno bisogno di notevoli quantità di energia e che il loro costo è proibitivo (oggi si aggira sui 10 euro al litro). Difficile che possano avere successo su larga scala. A meno che i governi non accettino di finanziarli aprendo i rubinetti degli incentivi pubblici.
Lezione americana
Nel primo semestre del 2023 Stellantis ha registrato un utile netto di quasi 10,9 miliardi di euro, in crescita del 37% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con un margine operativo rettificato (cioè escluse le tasse) pari a 14,4 miliardi (+11%) a fronte di 98,4 miliardi di euro di fatturato (+12%). Malgrado la crisi del settore automotive, insomma, i conti vanno alla grande.
Tant’è che la scorsa primavera gli azionisti hanno incassato la bellezza di 4,2 miliardi di euro in dividendi (e alla Exor della famiglia Agnelli-Elkann, titolare di un pacchetto di poco inferiore al 15%, sono andati in tasca 600 milioni).
Dalla metà di settembre, però, Stellantis, insieme a General Motors e Ford, è diventata il bersaglio di una potente mobilitazione sindacale negli Stati Uniti, dove la Uaw, la grande sigla unitaria dei metalmeccanici, ha proclamato uno sciopero a oltranza per chiedere il rinnovo dei contratti collettivi.
Mentre la trattativa sul rinnovo andava avanti, la multinazionale guidata da Tavares ha avvertito che la protesta dei lavoratori potrebbe avere come conseguenza più di 300 licenziamenti tra Ohio e Indiana.
Ma nel Paese sta già iniziando la campagna elettorale per le presidenziali del 20224 ed entrambi i (probabili) candidati – Joe Biden e Donald Trump – hanno preso le difese degli operai. Particolarmente significative le dichiarazioni del presidente uscente: «I profitti record delle case automobilistiche – ha detto Biden – non sono stati condivisi equamente e i lavoratori meritano la loro giusta parte». Dal leader del Paese-culla del capitalismo una lezione alla Sinistra italiana che ha smarrito la via.