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Guida Bardi
Home » Economia

L’economia che verrà: per il 2024 c’è aria di crisi

Immagine di copertina
Credit: AGF

Il ritorno del Patto di Stabilità. La fine del Superbonus. L’addio al Reddito di cittadinanza. Il Pil che arranca e la povertà che aumenta. Ecco cosa ci attende nel nuovo anno sul fronte dei conti pubblici e privati

Si può interpretare in vari modi l’esito dei negoziati di queste settimane tra i governi europei sul Patto di Stabilità, ma una cosa è sicura, e del resto la si sapeva già da tempo: a Bruxelles sta per ricominciare la stagione del rigore.

Dopo quattro anni di sospensione, con l’arrivo del 2024 le briglie dell’Ue torneranno a stringere i bilanci dei Paesi membri, mettendo punti fermi su debito, deficit e riforme da realizzare. Al netto delle nuovi possibili clausole di flessibilità per cui l’Italia in particolare si è duramente battuta al tavolo delle trattative, rimane questa la realtà ineluttabile che si profila.

Qualcuno direbbe che la pacchia è finita. E in effetti è proprio così, ammesso e non concesso che nell’ultimo quadriennio – segnato da pandemia, guerre, crisi energetica e inflazione – ci sia stato effettivamente qualcosa di cui godere. La pacchia è finita nel senso che dal 2020 al 2023 gli Stati membri hanno potuto gonfiare (quasi) liberamente la spesa pubblica per stimolare l’economia, mentre d’ora in poi ai nodi congiunturali tornerà a sommarsi l’impegno a non sforare i parametri della Commissione europea.

Il Governo italiano di Giorgia Meloni ha appena messo a punto una delle leggi di bilancio più modeste dell’ultimo lustro, fra tagli alla spesa, misure una tantum e rinuncia a diverse promesse elettorali: benché sia finanziata per due terzi a debito, la manovra avrà un impatto sulla crescita del 2024 quantificato dall’Istat in un misero +0,2%.

Eppure fra poco meno di un anno, quando si tratterà di varare la prossima finanziaria, l’esecutivo di centrodestra – o chiunque altro sarà a governare il Paese – si ritroverà in una situazione probabilmente ancor più complicata, a partire dal fatto che, ad esempio, non potrà più programmare un rapporto deficit/Pil nell’ordine del 4,3%, tantomeno a fronte di un debito pubblico ormai sopra i 2.800 miliardi di euro. 

Ma i dolori potrebbero iniziare anche prima, tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate, quando la Commissione – forse la nuova Commissione che si insedierà dopo le elezioni europee – potrebbe aprire nei confronti dell’Italia una procedura d’infrazione per «squilibri macroeconomici eccessivi» con riferimento proprio all’ultima Legge di Bilancio.

I soldi in tasca
Nel 2024 l’effetto combinato dei due principali provvedimenti contenuti nella manovra – rimodulazione dell’Irpef e rinnovo del taglio sul cuneo fiscale – farà arrivare più soldi nelle tasche degli italiani. A guadagnarci saranno soprattutto i lavoratori dipendenti: stando alle simulazioni dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (Upb), operai e impiegati riceveranno in media tra i 600 e i 700 euro in più all’anno rispetto al 2021 (quando non era in vigore alcuna forma di decontribuzione), mentre i pensionati e gli autonomi che non aderiscono alla flat tax dovranno accontentarsi di poco più di 100 euro.

L’Upb però ha scoperto un pasticcio: chi supera anche di un solo euro la soglia di reddito di 35mila euro annui, perde 1.100 euro all’anno. È l’effetto dell’applicazione dello sconto contributivo per fasce e non per scaglioni: i tecnici dell’Ufficio parlano di «trappola della povertà» perché in questo modo si introduce di fatto un disincentivo ad avere una busta paga più alta.

Per giunta, l’alleggerimento deciso dal Governo su tasse e contributi non è nemmeno strutturale. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, lo ha finanziato solo per un anno. Ciò significa che per  beneficiarne anche nel 2025 sarà necessario trovare nuove coperture, un gruzzoletto da nientemeno che 14 miliari di euro: un problema in più nella difficile opera di assemblaggio della prossima Legge di Bilancio.

Nemmeno la “guerra ai poveri” sferrata dal centrodestra tornerà utile. Il risparmio generato dalla cancellazione del Reddito di cittadinanza, infatti, ammonterà ad appena un miliardo di euro: cifra relativamente di poco conto per le casse dello Stato, ma di vitale importanza per le centinaia di migliaia di famiglie a cui quei soldi sono stati sottratti.

I conti sono presto fatti: il Reddito costava 8 miliardi all’anno, mentre la misura che ne prenderà il posto dal 2024 – l’Assegno di inclusione – cuberà per il primo anno 5,5 miliardi, a cui andranno aggiunti gli 1,4 miliardi di euro del Supporto per la formazione e il lavoro destinato agli ex percettori considerati “occupabili”. Totale: 6,9 miliardi anziché 8.

A fare le spese di questa mini-sforbiciata sono però ben circa 120mila nuclei famigliari, che già dallo scorso agosto sono tagliati fuori dal Rdc e per i quali è rimasto solo un sussidio da 350 euro al mese per un massimo di dodici mesi, a condizione che nel frattempo si diano da fare per cercare un lavoro. Attendiamo fiduciosi che il Governo renda noto quanti di loro hanno trovato un’occupazione grazie alla nuova piattaforma online predisposta dal Ministero del Lavoro.

Il mese di gennaio, inoltre, rischia di scorrere via senza alcuna forma di assistenza per gli oltre 700mila nuclei “non occupabili” che con il nuovo anno dovrebbero passare dal Reddito di cittadinanza all’Assegno di inclusione. Ci sono ritardi nell’entrata in vigore del decreto attuativo e, a cascata, nel via libera alla presentazione delle domande: così 1,6 milioni di persone in difficoltà – tra cui disabili, anziani e bambini – resteranno molto probabilmente senza accredito.

L’altalena dei prezzi
I più recenti dati dell’Istat  (aggiornati al 31 dicembre 2022) dicono che in Italia ci sono oltre 5,6 milioni di individui che vivono in condizioni di povertà assoluta: quasi un italiano su dieci, cioè, non può permettersi nemmeno le spese minime per condurre una vita «accettabile». Ed è verosimile immaginare che con la soppressione del Reddito di cittadinanza il popolo degli indigenti si amplierà ulteriormente.

Disoccupazione, precarietà, salari fermi da trent’anni, uniti a una bassa scolarizzazione in certe aree interne del Paese, sono i fattori determinanti di lungo periodo, ma negli ultimi tre anni ci si è messa anche l’inflazione, che come sempre ha colpito in modo particolarmente pesante proprio le classi meno agiate della popolazione. 

Peraltro, dopo aver galoppato al rialzo anche a due cifre, da almeno un semestre i prezzi stanno rallentando la loro corsa. L’inflazione acquisita per il 2023 è ancora discretamente alta, pari a 5,7%, ma nella seconda parte dell’anno c’è stata una decisa frenata, tant’è che a novembre si è toccato il livello più basso degli ultimi trenta mesi (0,7%).

L’Istat stima che, se non si registreranno nuovi exploit sulle tariffe delle materie prime, nel 2024 l’inflazione sarà al 2,5%, ormai prossima a quel 2% considerato ottimale dalle banche centrali.

Non a caso la Banca centrale europea in questa fase ha deciso di sospendere la politica monetaria restrittiva avviata nel luglio 2022, lasciando invariati i tassi di riferimento sull’Euro al 4,5%. Significa che la lotta contro l’inflazione, almeno per il momento, può considerarsi vinta.

Tuttavia mentre negli Stati Uniti la Federal Reserve ha già ricominciato a tagliare i tassi per soffiare sull’economia, a Francoforte la presidente della Bce Christine Lagarde è più prudente: «Non crediamo che sia tempo di abbassare la guardia», dice. 

Intanto, a metà del 2024 l’Eurotower metterà fine al programma di acquisto straordinario di titoli di Stato che era stato deciso nei mesi più duri della pandemia di Covid-19: una prospettiva che non può non preoccupare un Paese come il nostro costretto a fare quotidianamente i conti con lo spread. 

Ripresa e Resilienza
Il ritorno prepotente dell’inflazione, così come la stessa conseguente politica di rialzo dei tassi della Bce, hanno contribuito a raffreddare la crescita dell’economia, che dopo l’uscita dai lockdown a aveva ripreso a marciare spedita.

Stando alle previsioni d’autunno della Commissione europea, nel 2023 il Pil della zona-Euro è aumentato appena dello 0,6%, mentre per il 2024 ci si attende un timido +1,2% e per il 2025 un +1,6%. E in questo quadro di crescita piatta o quasi, l’Italia spicca tra i Paesi più in difficoltà: sia nel 2024 sia nel 2025 dovremmo classificarci penultimi nell’area della moneta unica con un Pil rispettivamente a +0,9 e +1,2%.

Pesano da un lato le difficoltà dell’economia tedesca, primo mercato di sbocco delle merci italiane, e dall’altro la fine del Superbonus che in questi anni ha rilanciato il settore edile. Nel suo rapporto “Le prospettive per l’economia italiana 2023-2024” l’Istat scrive che «l’abolizione degli incentivi alle costruzioni, l’incertezza geopolitica, il peggiorare delle condizioni di accesso al credito da parte delle imprese, il calo delle attese sugli ordini e del grado di utilizzo degli impianti determinerebbero un rallentamento del processo di accumulazione di capitale che potrebbe, in parte, essere compensato dalla realizzazione degli investimenti previsti nel Pnrr e dai primi segnali di ripresa della produzione industriale».

Spendere efficacemente, e per tempo, i soldi in arrivo dal Nex Generation Eu, insomma, è una variabile fondamentale per agganciare quel poco di crescita in cui l’Italia può sperare. Secondo l’ultimo rapporto annuale dello Svimez (Associazione per lo Sviluppo industriale del Mezzogiorno) l’impatto cumulato del Pnrr sul Pil nel biennio 2024-2025 è stimato in un +2,2% «nell’ipotesi di completo e tempestivo utilizzo delle risorse disponibili».

Senza il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, il Sud cadrebbe in recessione (-0,6% nel 2024 e -0,7% nel 2025) mentre il Centro-Nord si fermerebbe a un livello di “crescita zero”.

Finora però il nostro Paese ha incassato poco più di 100 miliardi di euro e ne ha spesi appena 28: troppo pochi. Nel 2024 bisogna cambiare passo. Perdere l’opportunità del Pnrr sarebbe un suicidio nazionale.

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