Il 70% delle terre coltivate è nelle mani dell’1% delle aziende più ricche del pianeta
La disuguaglianza ha radici profonde, nella storia della nostra società così come nei terreni agricoli del Pianeta. E questa non è solo una brutta notizia sul piano sociale ma anche una pessima notizia per l’ambiente.
Un rapporto dell’International Land Coalition (un organismo che raccoglie Ong, associazioni di agricoltori e l’Onu) ha infatti stimato che l’1 per cento delle aziende controlla il 70 per cento delle terre coltivate in tutto il mondo. Cifre che, comparate a quanto si era provato a calcolare, fanno emergere una situazione ben peggiore a quanto si stimasse in precedenza. E sebbene nella seconda metà del ventesimo Secolo l’opinione prevalente era che la disuguaglianza creasse incentivi per il progresso oggi è chiaro che, come riporta lo studio “la disuguaglianza è dannosa per la stabilità e lo sviluppo di sistemi economici sostenibili e mina la salute delle democrazie […] La disuguaglianza della terra non fa eccezione”.
La distribuzione della terra, in breve
Lo squilibrio agricolo, va detto, ha in buona parte ragioni storiche (soprattutto in Sud America) ma ad accelerare la disuguaglianza, soprattutto in questi ultimi tre decenni, ci ha pensato la finanza. Il rapporto dell’ILC documenta come le terre, soprattutto asiatiche e africane, siano diventate oggigiorno dei veri e propri asset finanziari.
I numeri danno un’immagine chiara del fenomeno. Ad oggi circa l’80 per cento delle aziende agricole sono a conduzione familiare e questo potrebbe far pensare che la maggior parte del settore agricolo e allevamenti sia in mano a piccoli imprenditori. Tuttavia se si calcolano le estensioni delle terre il risultato viene ribaltato: l’1 per cento delle aziende più ricche detiene il 70 per cento delle terre, il 50 per cento degli agricoltori più poveri deve accontentarsi di poco più del 3 per cento degli spazi.
L’area più soggetta a forti squilibri è il Sud America (l’Argentina è maglia nera), le nazioni più equilibrate sono Cina e Vietnam (seppure anche qui avanzano le disuguaglianze). Negli ultimi quattro decenni tuttavia il più grande spostamento dal piccolo coltivatore al grande proprietario si è registrato negli Stati Uniti e in Europa, dove spesso i singoli agricoltori lavorano subordinati a contratto per rivenditori, conglomerati commerciali, grande distribuzione e fondi di investimento.
La terra nel mirino della finanza
Se da una parte il mondo agricolo sembra a noi estremamente lontano, dall’altro basta uno sforzo di pensiero per capire come tutti i suoi derivati siano onnipresenti nella nostra quotidianità. E gli effetti negativi sono più di quanti si possa immaginare.
Poche aziende significa cartelli di mercato, se non monopoli, e non c’è bisogno di elencare gli effetti indesiderati di questo scenario. “La concentrazione nelle mani di pochi significa – cita lo studio – una maggiore tendenza alle monocolture e un’agricoltura più intensiva poiché i fondi di investimento tendono a ragionare su cicli brevi di 10 anni per generare rendimenti”.
In aumento anche gli agricoltori costretti a lavorare nei propri campi per le multinazionali a causa di una concorrenza insostenibile, di fatto costretti ad obbedire alle logiche su larga scala e a breve termine dei colossi della terra. Un’impostazione di questo genere – spiega Ward Anseeuw, specialista tecnico senior presso l’International Land Coalition – sta accelerando il declino della qualità del suolo, l’uso eccessivo delle risorse idriche e il ritmo della deforestazione”.
Non ultimi i problemi sociali connessi all’accumulazione dei possedimenti, tra cui povertà, migrazione, conflitti e diffusione di malattie zoonotiche.
L’alternativa secondo i ricercatori c’è: maggior controllo
Per affrontare questo problema, il rapporto dell’ILC è chiaro: serve una maggiore regolamentazione dei sistemi di proprietà fondiaria (spesso opachi), un cambiamento nei regimi fiscali per sostenere i piccoli proprietari, una migliore gestione ambientale e un grande sostegno per i diritti fondiari delle comunità.
Ma soprattutto un sistema di favori meno generoso per le grandi imprese. “I piccoli agricoltori, gli agricoltori a conduzione familiare, gli indigeni e le piccole comunità sono molto più cauti nell’uso della terra – si conclude – . Non si tratta solo di ritorno economico; si tratta di cultura, identità e di lasciare qualcosa per le generazioni a venire”. Si tratta di ridurre – conclude il report – “la ricerca di rendite da parte di una minoranza e consentendo uno sviluppo più inclusivo “.
Ritrovare un interesse più lungimirante del miope interesse della finanza dunque. Vale la pena provarci, prima che sia tardi.
Leggi anche: 1. Il 14% dei Paesi ricchi avrà il 53% delle dosi di vaccino: la bomba sociale che l’Europa finge di non vedere /2. Non è vero che i poveri sono poveri perché hanno preso decisioni sbagliate