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Home » Economia

Dazi amari: perché la Trumpnomics rischia di scatenare una guerra commerciale e di impoverire gli americani

Immagine di copertina
Credit: AGF

Per il Premio Nobel Paul Krugman “la sua più grande truffa è presentarsi come alleato dei lavoratori”. E oggi, a differenza del passato, anche Big Tech lo appoggia

La ricetta economica di Donald Trump è semplice: alzare i dazi sulle importazioni per proteggere l’industria degli Stati Uniti e utilizzare i maggiori incassi registrati alla dogana per tagliare le tasse, in particolare quelle sulle imprese. Ma semplicità non fa sempre rima con efficacia.

E il neo-eletto presidente degli Usa dimostra di non aver imparato la lezione arrivata dal suo primo mandato alla Casa Bianca, quando le “sue” tariffe su alcuni beni importati provocarono un rialzo dei prezzi pagati dai consumatori e non riuscirono a ridurre il disavanzo commerciale del Paese, che anzi aumentò notevolmente (dai 749 miliardi di dollari del 2016 ai 912 miliardi del 2021).

Tariff Man
«Per me la parola più bella del dizionario è dazio», insiste Trump. Il tycoon 78enne ha in programma di realizzare una politica doganale ancora più protezionistica rispetto a quella del suo precedente quadriennio: vuole introdurre dazi fino al 20% su tutte o quasi le merci importate e fino al 60% su quelle provenienti dalla Cina. 

Il Paese del Dragone – accusato di far concorrenza sleale sui prezzi alle imprese statunitensi – è notoriamente il suo nemico numero uno, ma altrettanto risaputa è la sua avversione nei confronti dell’Europa, che in campagna elettorale ha definito «una mini-Cina»

Trump proprio non riesce a digerire il surplus commerciale del Vecchio Continente nei confronti degli Stati Uniti. Vede come il fumo negli occhi in particolare la Germania (surplus di 110 miliardi di euro), ma pure l’Italia, con i suoi oltre 50 miliardi di avanzo, rischia di finire nella morsa della nuova ondata di dazi (tremano in particolare le industrie di macchinari, automotive, chimica e agroalimentare). 

Durante il primo mandato di “The Donald”, Pechino e Bruxelles reagirono alle tariffe americane imponendo a loro volta delle barriere all’ingresso per le merci provenienti dagli Usa. A uscirne indebolite furono soprattutto le relazioni commerciali con la Cina, mentre l’Ue ne subì effetti limitati ad alcuni settori.

Nei prossimi mesi e anni, quindi, sarà interessante vedere quali saranno le contromosse di Xi Jinping e Ursula von der Leyen ai nuovi dazi di Trump: il pericolo che si inneschi una guerra commerciale su scala globale è più concreto che mai. 

Effetto boomerang
Va detto che negli ultimi quattro anni il democratico Joe Biden ha mantenuto in vigore le tariffe anti-Cina introdotte prima di lui da Trump (mentre ha trovato una tregua con gli alleati dell’Ue). Del resto, la libera circolazione delle merci – al contrario di quella dei capitali – da ormai un decennio inizia ad andar meno di moda anche fra i democratici: è stata la segretaria del Tesoro uscente, Janet Yellen, a usare l’espressione «friendshoring» per evocare l’idea del fare affari solo con i Paesi amici. E negli ultimi cinque anni è triplicato nel mondo il numero di restrizioni ai flussi di beni, servizi e investimenti.

Trump, insomma, sembrerebbe solo più virulento nel portare avanti un protezionsimo comunque crescente a varie latitudini.

Molti autorevoli economisti, tuttavia, bocciano sonoramente la sua passione per i dazi. «È una pessima idea», ha commentato il fresco vincitore del Premio Nobel per l’Economia Simon Johnson in una recente intervista al giornale online Quartz: secondo l’economista del Mit di Boston, infatti, le aziende scaricheranno il peso delle tariffe sui prezzi dei beni importati: «Un dazio è una tassa sui tuoi stessi consumatori», semplifica Johnson.

La tesi del Premio Nobel è supportata da diversi studi. In una recente analisi del Peterson Institute of International Economics si stima che i dazi, nella misura annunciata da Trump, comporterebbero per una famiglia del ceto medio americano una spesa aggiuntiva di circa 1.700 dollari all’anno.

Un’indagine del think tank di destra American Action Forum ritiene che una tariffa media del 10% farebbe aumentare di 2.350 dollari all’anno la spesa di una famiglia, mentre un’imposta del 60% sulle merci cinesi peserebbe per altri 1.950 dollari.

Ma non è tutto. Il protezionismo già applicato da Trump tra il 2017 e il 2020 non ha nemmeno mantenuto la promessa di rinvigorire l’industria a stelle e strisce. Uno studio condotto da economisti del Mit, di Harvard, dell’Università di Zurigo e della Banca Mondiale ha concluso che i dazi introdotti dal tycoon durante il suo primo mandato alla Casa Bianca «non hanno né aumentato né ridotto l’occupazione statunitense nei settori protetti» e che invece «le tariffe di ritorsione hanno avuto chiari impatti negativi sull’occupazione, principalmente in agricoltura».

Come ha osservato sul New York Times  un altro economista Premio Nobel, Paul Krugman, «la truffa più grande di Trump è stata presentarsi come un alleato dei lavoratori americani».

Deficit pubblico
Nei piani del neo-presidente, il maggior gettito derivante dai dazi dovrebbe contribuire a finanziare un epocale taglio delle tasse. La sforbiciata riguarderebbe soprattutto le aziende, a cui è stata prefigurata una riduzione dell’aliquota sui profitti dal 21 al 15% (dopo che nel precedente mandato di Trump era già scesa dal 35 al 21%).

Ma il tycoon si è impegnato anche a eliminare qualsiasi prelievo fiscale sugli straordinari, sulle mance dei camerieri e sulle pensioni sociali. Addirittura ha ipotizzato di sostituire l’imposta federale sul reddito con le entrate dai dazi.

Peccato che, secondo il Comitato bipartisan per un bilancio federale responsabile, il piano tariffario di Trump non genererebbe entrate sufficienti per finanziare le proposte di spesa, ma anzi nel prossimo decennio aggraverebbe di 7,75 trilioni di dollari il debito pubblico degli Usa e potrebbe portare a un taglio del 30% dei fondi per la previdenza sociale.

Elon & Co.
«Trump sta offrendo un capitalismo clientelare rentier, un tipo di capitalismo che, anche se funziona bene per Musk e altri miliardari, non andrà bene per il resto di noi», ha scritto di recente Joseph Stiglitz, Premio Nobel per l’Economia nel 2001.

Elon Musk è il nome più conosciuto dell’inedito fronte dei miliardari del settore tecnologico che hanno sponsorizzato il ritorno alla Casa Bianca di The Donald. Il visionario fondatore di Tesla e Space X, nonché proprietario di X (ex Twitter), è anche uno dei maggiori investitori al mondo in criptovalute, un settore verso cui Trump sembra aver improvvisamente cambiato atteggiamento. 

Tre anni fa il tycoon definì i Bitcoin «una truffa», oggi invece dice che renderà gli Usa una «superpotenza mondiale» anche in questo settore e proclama di voler «licenziare» – pur senza averne il potere – Gary Gensler, il presidente della Sec colpevole di esigere una regolamentazione delle criptovalute.

Lo scorso giugno il candidato repubblicano ha avuto un incontro riservato a Palm Beach con una dozzina di dirigenti ed esperti di valute digitali e a settembre è diventato il primo ex presidente a utilizzare i bitcoin (per pagare un hambuger in un ristorante di New York).

Chissà se questa giravolta c’entra col fatto che Musk sia diventato quest’anno il suo principale finanziatore (con 75 milioni di dollari donati in tre mesi) e che nella lista dei suoi sostenitori compaiano diversi altri imprenditori delle criptovalute…

Peraltro, è più in generale in tutto il settore tech che Trump riscuote oggi maggiori consensi rispetto al passato. Nelle ultime settimane di campagna elettorale il repubblicano si è confrontato personalmente con i vertici di Google, Amazon, Apple, Microsoft, OpenAi, e persino con quel Mark Zuckerberg con cui c’erano stati attriti molto forti. Tutta Big Tech è corsa a complimentarsi pubblicamente con lui dopo il voto.

A tal proposito, Krugman ha una teoria interessante: molti miliardari in America sono «passati direttamente dall’avidità (Trump taglierà le mie tasse) alla paura (meglio non criticarlo, o potrebbe vendicarsi)».

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