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Home » Economia

Altro che più libertà: le criptovalute favoriscono la concentrazione del potere nelle mani di pochi

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Ogni epoca ha una tecnologia che la definisce e, in una certa misura, ne determina la natura. I cacciatori-raccoglitori – ossia quelle popolazioni che si sostentavano unicamente con caccia, pesca e raccolta – vivevano in gruppi ristretti e, poiché non sapevano come immagazzinare la ricchezza, tendevano a condividere il cibo, dando così vita a società assai egualitarie. Con lo sviluppo dell’irrigazione e dell’agricoltura su larga scala, si sono poi formati gruppi sociali di dimensioni maggiori, accompagnati dalla costruzione di granai e depositi dove conservare cibo e ricchezza: quelle erano società gerarchizzate, con i re o i faraoni al vertice della piramide e i contadini alla base. E mentre i cacciatori-raccoglitori lavoravano generalmente poche ore al giorno, al contrario i braccianti agricoli dovevano svolgere quotidianamente mansioni lunghe e faticose: non a caso, nel Vecchio Testamento, quando Adamo viene cacciato dal Giardino dell’Eden, Dio gli dice «Ti guadagnerai il pane con il sudore della fronte». Con il passaggio dalla società agricola a quella industriale – come ha osservato il guru dei media Marshall McLuhan, autore di La Galassia di Gutenberg – tecnologie come carta stampata, ferrovie, telegrafi, automobili hanno contribuito a creare grandi Stati nazionali: realtà relativamente omogenee in cui le persone parlano la stessa lingua e leggono gli stessi giornali e libri.

Sebbene sia morto nel 1980, McLuhan aveva previsto che la tecnologia elettronica avrebbe favorito la frammentazione della società. E in effetti, con la digitalizzazione ciò è accaduto in misura straordinaria. Grazie a Internet, una persona che vive nel Canada rurale può avere accesso a un numero maggiore di informazioni, e in tempi più rapidi, rispetto a chiunque vivesse a Roma, Parigi o New York venticinque o trent’anni fa. La digitalizzazione, inoltre, consente a tutti di essere editori di se stessi, diffondendo le proprie opinioni tramite il proprio sito web. L’aspetto positivo di ciò è che accedere alle informazioni è diventato facile ed economico. Quello negativo è che, di fronte a persone ormai abituate a non pagare per le informazioni, le fondamenta economiche del giornalismo sono crollate e si è complicata la distinzione fra le notizie vere e quelle false.

Nuove innovazioni tecnologiche (come JavaScript e Html5) hanno reso il web interattivo, dando vita a Internet 2.0. Ciò sembrava potesse accrescere il potenziale democratico della Rete: Twitter e Facebook sono stati indicati come fattori all’origine della Primavera Araba, mettendo il potere nelle mani di cittadini comuni contro governi autoritari. Ma gradualmente Internet 2.0 è diventato sempre più dominato dalle grandi istituzioni. Facebook, Amazon, Netflix e Google (il cui acronimo è “Fang”, che in inglese significa “zanna”) hanno trasformato il web da un forum pubblico in un centro commerciale. Inoltre, queste aziende hanno raccolto un’enorme quantità di dati su di noi, che sono serviti per anticipare, stimolare e dare forma ai nostri desideri e bisogni. I governi autoritari, dal canto loro, hanno imparato rapidamente come utilizzare i social media per reprimere il dissenso con una precisione senza precedenti. E i partiti politici hanno utilizzato aziende come Cambridge Analytica per manipolare le opinioni dei cittadini per conto di campagne politiche come la Brexit e l’elezione di Donald Trump.

Tutti hanno celebrato l’eliminazione dei “gatekeeper” – le élite che decidono cosa vale la pena pubblicare o conoscere – ma il mondo frammentato in cui ognuno vive nel proprio silo di informazioni è pieno di disinformazione e notizie false. Se il mondo industriale ha riunito le persone nelle città, nei sindacati, nelle nazioni, la frammentazione della vita digitale ha reso la maggior parte di noi sola davanti agli schermi dei nostri computer. La disillusione per lo stato attuale delle cose alimenta le richieste di passare all’Internet 3.0: una nuova fase in cui – si spera – possano ripristinarsi i poteri liberatori del cyberspazio. Non è ancora chiaro come sarà esattamente il Web 3.0, ma è probabile che riguarderà la tecnologia “blockchain”, cioè il sistema di contabilità decentralizzata che sta dietro le criptovalute e i token non fungibili (Nft) attraverso certificati di proprietà su opera digitali. La stessa tecnologia blockchain, combinata con una maggiore potenza dei computer e connessioni Internet più veloci, potrebbe essere fondamentale per la creazione del cosiddetto Metaverso. Questo è il motivo per cui Mark Zuckerberg ha cambiato il nome di Facebook in Meta.

In questo futuro immaginato, passeremo più tempo negli spazi virtuali, giocando e visitando luoghi virtuali, spendendo soldi veri per guadagnare token virtuali. Andremo in safari virtuali, ammirando splendidi animali esotici rari che potremmo vedere solo allo zoo. Nel frattempo il mondo reale intorno a noi diventerà più caldo, le temperature in alcune regioni si alzeranno fino a un livello tale per cui sarà impossibile viverci e centinaia di milioni di disperati cercheranno rifugio altrove. Molte delle specie animali che potremo osservare virtualmente si estingueranno. Ho quindi il forte sospetto che Internet 3.0, anziché liberarci, possa favorire un’ulteriore commercializzazione del web e la concentrazione del potere e delle ricchezze nelle mani di pochi.

Mentre la tecnologia blockchain è chiaramente innovativa e potenzialmente utile, è meno chiaro se le criptovalute siano davvero utili. Esse sembrano offrirci un’utopia, liberando l’individuo dall’oppressione dei governi e delle grandi banche. E alimentano così la diffusa sfiducia nelle istituzioni che caratterizza la nostra epoca, in cui ogni nozione di bene comune è sostituita dall’ethos libertario del «ciascun per sé». Finora, peraltro, ci sono pochissime prove per credere che le criptovalute saranno all’altezza della loro promessa.

Più di dieci anni dopo la sua introduzione, non è ancora possibile acquistare granché con Bitcoin: questa criptovaluta esiste esclusivamente come investimento speculativo in cui le persone possono guadagnare vendendola ad altre persone. Il fatto che il prezzo oscilli costantemente – proprio perché non è regolamentata – la rende poco adatta a funzionare come moneta. I Paesi che hanno provato ad adottarla come valuta legale – come El Salvador – hanno fallito. Inoltre, i due terzi di tutti i bitcoin sono posseduti da investitori professionisti e miliardari come Elon Musk e Peter Thiel. Solo il 10 per cento è di proprietà di persone meno abbienti, molte delle quali sono acquirenti recenti attratti dalla prospettiva di abbondanti guadagni che invece, con ogni probabilità, perderanno gran parte o tutti i loro investimenti quando i big player incasseranno, facendo una strage.

D’altro canto, i grandi investitori in criptovalute stanno spendendo milioni di dollari per fare pressioni sul governo degli Stati Uniti nella speranza di convincerlo a riconoscere le criptovalute e ingrandire così la loro ricchezza. È molto probabile ad esempio che, ottenuto il controllo di Twitter, Elon Musk cercherà di trovare modi per introdurre criptovalute e Nft su questo social nella speranza di aumentare il valore del suo investimento in entrambi. Molti dei grandi sostenitori delle criptovalute – come gli stessi Musk e Thiel – sono libertari che si oppongono alla tassazione e alle regolamentazioni governative: la loro idea di utopia è quella dei ricchi e dei potenti (se stessi) contro l’interferenza di tutti gli altri, cioè noi.

Diversi anni fa, il brillante storico britannico Timothy Mitchell pubblicò un libro, intitolato Carbon Democracy, in cui sosteneva che l’estrazione del carbone è stata il motore della democrazia moderna. Pur riconoscendo i suoi costi sanitari e ambientali, Mitchell ha osservato in modo abbastanza convincente che, più di ogni altra cosa, il carbone ha creato il nostro mondo moderno. La necessità di estrarre e trasportare il carbone ha stimolato – e poi alimentato – la rivoluzione industriale, la macchina a vapore e le ferrovie. L’estrazione del carbone ha impiegato milioni di persone che si sono organizzate nei sindacati più duri e aggressivi. E la capacità di fermare la produzione industriale ha dato loro un potere maggiore che – come affermato da Mitchell – ha portato ad ampliare i diritti dei lavoratori e il potere democratico.

Il mining di Bitcoin, al contrario, sembra una parodia di questo processo. Per estrarre criptovalute (si guadagnano nuove monete risolvendo complessi problemi matematici) sono necessari computer enormemente potenti che consumano incredibili quantità di energia: solo aziende ricche se lo possono permettere. Ironia dell’ironia, poi, proprio mentre ci stiamo allontanando dal carbone per affrontare il riscaldamento globale, molte centrali elettriche a carbone vengono riproposte per generare elettricità per le strutture minerarie di Bitcoin. A differenza delle miniere di carbone che davano lavoro a milioni di persone, queste “stazioni minerarie” impiegano pochi lavoratori sottopagati che cercano di evitare il surriscaldamento degli impianti (spesso lavorano in coppia poiché un lavoratore da solo potrebbe svenire a causa del calore). Gli impianti di mining di Bitcoin utilizzano enormi quantità di energia, contribuendo notevolmente al riscaldamento globale: creare un singolo Nft richiede la stessa quantità di energia necessaria per guidare un’auto per 700 chilometri.

Tutto per produrre monete che in realtà non servono a nulla, ma che probabilmente aumenteranno la ricchezza dei più ricchi che sono entrati in gioco in anticipo, attirando milioni di persone meno abbienti che potrebbero perdere i loro investimenti quando la bolla scoppierà. Potremmo chiamarla Cripto-Non-Democrazia.
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