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Home » Economia

Come obbligare il capitalismo a fermare il cambiamento climatico

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Credit: AP Photo

Per azzerare le emissioni nette di CO2 entro il 2050, servono almeno quattromila miliardi di dollari. Ma per mobilitare questi fondi, è necessario l’intervento delle Banche centrali. Con gli stessi strumenti usati nel Dopoguerra

La crisi climatica è una «bomba a orologeria» che rischia di scoppiare. È questa la metafora scelta dal segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, quando l’anno scorso ha presentato l’ultimo rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc). Secondo l’ex premier del Portogallo, l’unico modo per evitare le conseguenze peggiori del riscaldamento globale è accelerare la fine dell’era dei combustibili fossili. «Non abbiamo un momento da perdere», ha ribadito allora Guterres, dicendosi comunque fiducioso sulle prospettive di cambiamento. «Non siamo mai stati così attrezzati per affrontare la sfida climatica, ma ora dobbiamo passare a grande velocità all’azione».

Nonostante l’ottimismo però, la decarbonizzazione procede ancora a rilento. Al ritmo attuale, anche i Paesi più all’avanguardia non riusciranno a centrare gli obiettivi stabiliti a livello internazionale per mitigare i rischi della crisi climatica. Senza tagli drastici all’uso di combustibili fossili, gli scienziati prevedono conseguenze catastrofiche, con tre gradi in più a livello globale stimati entro il 2100. Per scongiurare gli scenari peggiori e mantenere il riscaldamento globale entro +1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali, come chiede l’accordo di Parigi, gli esperti invocano l’azzeramento delle emissioni nette di anidride carbonica entro il 2050. Un impegno che richiederà cambiamenti di ampia portata dal punto di vista economico e sociale e la mobilitazione di capitali ingenti.

Negli ultimi anni i finanziamenti alla transizione verde sono aumentati in maniera considerevole ma sono ancora ben lontani dai livelli necessari per centrare gli obiettivi dell’accordo di Parigi del 2015, che punta a limitare il riscaldamento globale.

Secondo le stime dell’Agenzia internazionale dell’energia, per arrivare ad azzerare le emissioni nette di CO2 entro il 2050 sarà necessario quadruplicare gli investimenti in energia pulita nel giro di pochi anni, dai circa mille miliardi del 2021 a 4mila miliardi di dollari per il 2030.

Per mobilitare i fondi, molti osservatori hanno chiesto che ad assumersi maggiori responsabilità siano proprio gli enti che supervisionano il sistema finanziario, primi fra tutti le banche centrali. Tra i vari rischi da monitorare per il corretto funzionamento dei mercati, dicono gli esperti, ci deve essere anche quello climatico.

Filosofie diverse
Gli istituti hanno risposto a questi appelli in maniera differente. Nel 2021 la Banca del Giappone è diventata la prima tra le banche centrali più importanti del mondo a introdurre uno strumento mirato per gli investimenti verdi, consentendo agli istituti di credito di accedere a rifinanziamenti a tasso zero almeno fino al 2031.

Nel 2022 anche la Banca centrale europea ha voluto dare un segnale, facendo leva sulle ingenti quantità di titoli acquistati con le misure di stimolo degli anni precedenti, poi cessate quando è arrivato il momento di combattere l’inflazione. L’istituto presieduto da Christine Lagarde ha dichiarato che avrebbe orientato gli acquisti di obbligazioni verso gli emittenti più rispettosi dell’ambiente, scelti sulla base di analisi condotte internamente.

A giugno la Bce ha fatto un altro passo in avanti, annunciando che fisserà obiettivi di riduzione delle emissioni a cui si dovranno attenere le società che hanno emesso le obbligazioni acquistate dalla Bce negli scorsi anni. Per chi non dovesse centrare gli obiettivi, c’è la possibilità che Francoforte scelga di vendere i titoli. «Se vengono identificate deviazioni dalla traiettoria desiderata saranno valutate azioni correttive, nell’ambito del nostro mandato, caso per caso», ha fatto sapere la Bce, che in precedenza era stata accusata da Greenpeace di usare un sistema di valutazione della performance ambientale delle aziende che potrebbe favorire il “greenwashing”.

Il termine, con cui si etichettano gli sforzi per far apparire un’attività o un’azienda più ecologica di quanto non sia veramente, non piace neanche a Christine Lagarde, secondo cui l’istituto «non deve essere complice del greenwashing».

All’interno della Banca centrale l’accento posto sulla questione climatica ha contribuito ad alimentare tensioni. A marzo i dipendenti dell’istituto hanno criticato un membro del consiglio esecutivo per alcuni commenti «irrispettosi». Il riferimento è alle parole di Frank Elderson, ex dirigente della Banca centrale olandese, che aveva espresso dubbi sulla disponibilità dei nuovi assunti provenienti dalle «migliori università» a recepire le politiche green. «Perché dovremmo assumere persone da riprogrammare perché provengono dalle migliori università ma non sanno ancora come si scrive la parola “clima”?», le parole di Elderson di cui i dipendenti della Bce si sono detti «scioccati». Il vicepresidente del consiglio di sorveglianza si è poi scusato, riaffermando la sua convinzione che la banca centrale debba adottare un approccio «basato sui fatti e sulla scienza», pur rimanendo aperta al dibattito. A seguito del riesame della strategia del 2022, la Bce considera i rischi derivanti dai cambiamenti climatici parte del suo mandato, purché questi non compromettano il raggiungimento dell’obiettivo principale della stabilità dei prezzi.

La banca centrale statunitense invece ha finora scelto un approccio diverso. Il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, ha detto più volte che imporre politiche per contrastare la crisi climatica non dovrebbe essere compito di una banca centrale.

Negli scorsi mesi la Fed si è opposta al tentativo del Comitato di Basilea di introdurre nuove regole per obbligare le banche a raccogliere e divulgare informazioni sul rischio climatico. La posizione di Washington è che questo costringerebbe il regolatore a interessarsi di questioni che non riguardano strettamente la finanza.

Rischi concreti
Ma il rischio che si sceglie di ignorare potrebbe riproporsi in altra forma. Secondo quanto riporta Bloomberg, milioni di abitazioni sono prive di assicurazioni contro i disastri naturali e rischiano nei prossimi anni di svalutarsi considerevolmente, con ripercussioni a cascata sul valore di mutui. First Street Foundation, una no-profit che si occupa di rischio climatico, stima che 39 milioni di case negli Stati Uniti sono coperte da assicurazioni inadeguate per il nuovo tipo di rischio rappresentato da uragani, incendi e inondazioni. Il timore è che in futuro un aggiustamento nel mercato porti a forti rincari delle polizze rendendo praticamente impossibile assicurare milioni di abitazioni.

Il cambiamento climatico ha anche risvolti sul fronte dell’inflazione che la Fed, come altre banche centrali, ha l’obiettivo di mantenere stabile. L’impennata vista dopo la pandemia, con problemi a cascata nelle catene di fornitura, viene considerata un esempio del tipo di aumento dei prezzi che potrebbe essere innescata dai disastri climatici del futuro.

A causa dell’aumento delle temperature, secondo un recente studio della Banca centrale europea e del Potsdam Institute for Climate Impact Research, nei prossimi anni l’inflazione sui soli prodotti alimentari potrebbe aumentare fino a 3,2 punti percentuali.

Questo si tradurrebbe in un aumento complessivo dell’inflazione di 1,18 punti percentuali entro il 2035, secondo lo studio, che ha utilizzato dati storici di 121 Paesi dal 1996 al 2021. I rincari colpirebbero maggiormente i Paesi del Sud del mondo.

La Fed è consapevole di questi rischi. Durante un recente test, condotto a titolo meramente «esplorativo», le principali banche statunitensi sono risultate «carenti» dal punto di vista della disponibilità di dati «sulle caratteristiche degli edifici, le coperture assicurative e i piani delle controparti per gestire i rischi legati al clima». Le informazioni saranno usate per valutare la loro capacità di gestire i rischi finanziari legati al cambiamento climatico, anche se l’esercizio non comporterà alcuna conseguenza per le banche.

Secondo molti esperti però anche misure come quelle discusse dalle banche centrali non sono sufficienti. Un rapporto del 2022 dell’Institute for Innovation and Public Purpose della University College London (UCL) sostiene che l’approccio oggi dominante non è riuscito a mobilitare fondi a sufficienza per finanziare la transizione verde. 

Nel 2023 le 60 principali banche a livello globale hanno erogato 705 miliardi di dollari a favore delle aziende che operano nel settore dei combustibili fossili. Secondo i dati contenuti nel rapporto “Banking on Climate Chaos”, dedicato ai finanziamenti dei combustibili fossili, il totale dall’accordo di Parigi è di 6.900 miliardi di dollari.

L’approccio prevalente viene descritto nel rapporto come «basato sul rischio», in cui «i tempi e la direzione» della transizione sono delegati al mercato. Prevede da un lato una maggiore trasparenza sui rischi associati al cambiamento climatico, per aiutare a formare aspettative adeguate tra gli attori del mercato, e dall’altro incentivi per rendere relativamente più appetibili gli investimenti rispettosi dell’ambiente. 

Ritorno al futuro
«Le banche commerciali allocano il capitale sulla base della capacità di generare profitto, non di obiettivi sociali ed ecologici», hanno sottolineato gli esperti Jason Hickel e Charles Stevenson dell’Università autonoma di Barcellona in un articolo su Foreign Policy, in cui i due studiosi hanno invocato il ritorno a un vecchio strumento delle banche centrali. Hickel e Stevenson hanno specificato che negli investimenti nelle fonti di energia “sporche” i rendimenti sono circa tre volte quelli che si ottengono puntando sulle rinnovabili. Questo perché gli investimenti nei combustibili fossili «tendono maggiormente» a favorire la concentrazione di potere monopolistico mentre il settore delle energie rinnovabili «è altamente competitivo».

Il risultato sono investimenti massicci in attività dannose per l’ambiente come allevamenti intensivi, jet privati, suv, mentre i fondi per portare avanti la transizione ecologica sembrano sempre per mancare. Per affrontare adeguatamente questa sfida è necessario tornare alla “credit guidance”, uno dei termini con cui si indicano quelle politiche volte a indirizzare i flussi di credito verso particolari settori dell’economia. Questa leva, descritta come il «pilastro» di una politica industriale di successo, è già stata usata per accelerare la ricostruzione dopo la guerra. Un approccio più interventista rispetto a quello che si è imposto negli ultimi decenni, in cui il ricorso delle banche centrali a interventi discrezionali è stato sempre più considerato antiquato.

Chi propone di tornare a questi strumenti ritiene che la lotta al cambiamento climatico sia coerente con i compiti delle banche centrali. Tra questi il mantenimento della stabilità dei mercati, che non sono esclusi dalla minaccia della catastrofe ecologica.

Come spiega uno studio pubblicato sulla rivista specializzata Ecological Economics, nella pratica questo approccio può assumere diverse forme. Si potrebbe anche inviare un forte segnale agli investitori vietando i prestiti per le attività più inquinanti. Un approccio che aumenterebbe i costi associati a breve termine alla transizione ma potrebbe essere giustificato dal punto di vista precauzionale, viste le perdite a lungo termine associate a una transizione più prolungata.

Scegliendo un approccio più graduale, prima ancora dell’intervento del legislatore, potrebbe essere introdotto un tetto al livello di finanziamento delle aziende che superano un determinato livello di emissioni, variando la soglia nel tempo per accompagnare il tragitto di decarbonizzazione scelto da ciascun Paese.

Attualmente i finanziamenti alle industrie dei gas serra continuano senza sosta e si stanno addirittura espandendo, nonostante gli accordi nazionali e internazionali sulla riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Qualsiasi forma prendano le politiche del futuro, il messaggio è che non c’è più tempo da perdere. «Una politica industriale in questo senso non è più solo una bella idea», hanno scritto Hickel e Stevenson. «È diventata una necessità esistenziale».

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