“Caro Draghi, su Ilva e Stellantis non esiste una politica industriale. Sui licenziamenti scendiamo in piazza”
Intervista a Francesca Re David, segretaria generale Fiom-Cgil: "Vogliono prorogare lo stato di emergenza, ma per i lavoratori evidentemente non vale. Il 26 giugno saremo in piazza per chiedere la proroga del blocco dei licenziamenti. Il problema per le aziende non è la crisi ma la transizione ecologica, per questo serve la riforma degli ammortizzatori sociali: Orlando dice che è quasi pronta ma noi non l'abbiamo vista. In Italia da vent'anni non abbiamo politica industriale. Su Stellantis il Governo sta a guardare cosa fanno i francesi. Ilva? È dal 2012 che stiamo perdendo tempo: l'ambientalizzazione va fatta, ma non possono essere i lavoratori a pagarla"
TPI intervista Francesca Re David, 61 anni, romana, dal 2017 segretaria generale della Fiom, il sindacato dei metalmeccanici della Cgil.
Segretaria, il 26 giugno voi della Cgil sarete in piazza con Cisl e Uil per chiedere la proroga del blocco dei licenziamenti. Ma il tempo stringe: il blocco, per le imprese più grandi, scade il 30 giugno.
“Mi chiedo perché c’è tutta questa fretta di rendere licenziabili le persone in estate. Vedo molta ideologia da parte delle imprese. Vogliono dimostrare chi comanda”.
Cioè?
“I lavoratori per i quali si ora vuole eliminare il blocco dei licenziamenti sono gli stessi che, durante la prima fase della pandemia, hanno dovuto scioperare per far chiudere le fabbriche, perché le imprese volevano restare aperte. A questi lavoratori oggi si vuole dire che la ripresa parte dal fatto che loro tornano essere licenziabili. Non mi sembra un bel segnale per il Paese”.
La produzione industriale è tornata ai livelli pre-pandemici e Federmeccanica dice che gli ordini sono in aumento. Perché, almeno nei settori che si sono ripresi, non si può rimuovere il blocco?
“Noi pensiamo che bisogna traguardare la riforma degli ammortizzatori sociali. Si vuole chiedere il prolungamento dello stato di emergenza, ma l’unico elemento che si vuole tenere fuori è proprio quello della licenziabilità dei lavoratori. I licenziamenti di cui si parla non sono collegati solo alle crisi ma anche alle riorganizzazioni di interi settori, dovute a difficoltà che nascono dalla pandemia e dalla digitalizzazione”.
E quindi – dite voi – se un’impresa ha bisogno di flessibilità per riorganizzarsi, non deve farlo licenziando ma usando nuovi ammortizzatori sociali.
“La riorganizzazione delle imprese deve essere legata ad ammortizzatori sociali che sostengano la riduzione dell’orario di lavoro e la formazione. Scegliere la strada più semplice, quella dei licenziamenti, è inaccettabile”.
La mediazione di Draghi – blocco dei licenziamenti confermato solo per le imprese che utilizzano la cassa integrazione – non è buona?
“No, non mi sembra un buon punto di mediazione. Così avremo il paradosso che le imprese potranno scegliere se utilizzare la cassa integrazione, senza costi aggiuntivi, o licenziare”.
Luglio, agosto, settembre, ottobre: quattro mesi bastano per fare la riforma degli ammortizzatori sociali di cui c’è bisogno?
“Il ministro Orlando dice che ce l’ha quasi pronta. Sarebbe interessante sapere qual è, perché con noi non l’ha discussa”.
In quale direzione dovrebbe andare questa riforma?
“Ci sono cose interessanti lasciate dal governo precedente: penso ai contratti di espansione o agli strumenti per la formazione. Noi pensiamo che vada fatto anche altro, però. Che vadano rafforzati, in particolare, strumenti di redistribuzione del lavoro come i contratti di solidarietà, togliendo i vincoli posti dal Jobs Act. C’è un tema di redistribuzione del lavoro che va oltre la pandemia e si collega al cambio tecnologico in atto”.
Ma per affrontarlo è sufficiente una riforma degli ammortizzatori sociali? Non servirebbe anche una più generale riforma del mercato del lavoro?
“Sarebbe sicuramente necessaria. Dagli anni Novanta a oggi la legislazione ha moltiplicato le forme di lavoro precario oltre ogni limite. Non a caso i dati dicono che si può essere poveri anche lavorando e abbiamo registrato un restringimento del mercato interno. Mettere al centro le imprese e il mercato ha portato l’Italia a perdere competitività internazionale”.
Veniamo ai singoli dossier industriali. Martedì c’è stato il tavolo al Mise con Governo e Stellantis. L’azienda ha annunciato quattro nuove auto elettriche a Melfi a partire dal 2024. Soddisfatta?
“Ci soddisfa il fatto che finalmente ci sia stato questo incontro, che noi chiedevamo da anni. Ma non possiamo fermarci a un incontro una tantum. Ora deve costituirsi un vero e proprio tavolo di confronto”.
E il piano su Melfi?
“L’anticipo del piano è positivo ma bisognerà discutere cosa comporterà: come abbiamo detto con chiarezza, l’innovazione sulla linea non può significare esuberi e deve tener conto degli strumenti per la redistribuzione del lavoro con cui si affronta la transizione. Poi vogliamo capire quali prospettive ci sono per gli altri stabilimenti del gruppo”.
Sulla gigafactory anche il Governo sembra essersi attivato. Bene così?
“Immaginiamo che il Governo si sia attivato, ma noi non abbiamo nessun riscontro in proposito”.
Al tavolo l’argomento non è stato toccato?
“È stato nominato. Ma dove faranno la gigafactory, quando e in quale rapporto col piano industriale è un tema che non è stato affrontato. Sia il ministro Cingolani sia il ministro Giorgetti dovrebbero essere promotori di un tavolo in cui queste cose vengono discusse”.
E invece…
“Il Governo finora è sempre stato a guardare. Il Governo francese è azionista di Stellantis, in Francia e Germania ci sono tavoli permanenti. In Italia immagino e spero che il Governo abbia qualche relazione con l’azienda, ma è stato totalmente a guardare nel momento in cui c’è stata la creazione del nuovo gruppo”.
Temete che la fusione Fca-Psa si riveli vantaggiosa solo per i francesi e una fregatura per noi italiani?
“Bisogna starci sopra. Marchionne a suo tempo ha esplicitamente scelto di non investire sull’elettrificazione dei prodotti e questo ci porta a essere in enorme ritardo. Nelle fabbriche italiane produciamo motori diesel. Cosa succederà adesso a quelle fabbriche? Saranno riconvertite? Come affronteranno la fase dell’ibrido? Noi non sappiamo assolutamente nulla. La Francia è sicuramente più avanti di noi. E il management è decisamente spostato rispetto all’Italia”.
Capitolo ex Ilva. Se il Consiglio di Stato confermerà lo stop agli impianti, l’ingresso di Invitalia nel capitale azionario rischia di naufragare. E a quel punto?
“Quella dell’Ilva è una storia che ha dell’incredibile. Lo Stato, e quindi i vari governi che si sono succeduti, è in ritardo da dieci anni. A Taranto c’è uno stabilimento che è sotto sequestro dal 2012. E anche le questioni ambientali ne pagano il prezzo perché in tutto questo tempo non sono stati fatti gli investimenti, e in molti casi nemmeno le manutenzioni ordinarie. Siamo in fortissimo ritardo. Il Governo avrebbe dovuto già fare quello che aveva detto che avrebbe fatto secondo gli accordi presi con l’azienda, non con il sindacato. Questa staticità non favorisce una soluzione, anzi peggiora la situazione”.
Ha avuto modo di parlare con il presidente designato, Bernabé?
“No”.
Il piano di investimenti annunciato prevede di arrivare a una produzione annua da 8 milioni di tonnellate. Un traguardo molto ambizioso. Forse troppo?
“Quando Ilva era a regime produceva ben più di 8 milioni di tonnellate. Il tema è che questo ora andrà fatto attraverso un processo di rinnovamento profondo degli impianti. E su questo si è perso molto tempo. Vorrei sottolineare che senza l’acciaio non esiste Pnrr. Le imprese dell’automotive e dell’elettrodomestico in questo periodo stanno facendo spesso cassa integrazione perché non hanno acciaio o semiconduttori. Il tema dell’acciaio in questo Paese è enorme”.
Una produzione ecologicamente sostenibile di acciaio può reggere l’urto della concorrenza sui prezzi di Cina, India e Turchia?
“L’Europa, che sta ponendo giustamente tutta una serie di vincoli, dovrà porsi anche questo tema. Se noi in Europa poniamo dei vincoli ambientali ma poi non ci importa di quanto sporco arrivi l’acciaio dal resto del mondo, non facciamo una cosa utile”.
Come intervenire? Con dei dazi?
“Con gli strumenti che saranno necessari. Se c’è un problema ambientale, e c’è, è giusto partire dall’Europa, ma dobbiamo affrontarlo a livello globale. Di sicuro la soluzione non è dire: se loro inquinano, allora inquiniamo anche noi”.
Poi, però, c’è anche il tema occupazionale: per produrre acciaio in modo eco-sostenibile servono meno addetti…
“Qua sembra che a inquinare siano i lavoratori. Ricordiamoci che a inquinare finora sono stati l’azienda e lo Stato. Ed è incredibile pensare che il processo di ambientalizzazione debba essere pagato non dall’azienda né dal Governo ma dai lavoratori. Questo vale per l’Ilva, ma in generale per la transizione ecologica. Perché anche per fare l’auto elettrica servono meno addetti. Il problema, però, non lo si risolve con i licenziamenti: bisogna capire come si redistribuisce il lavoro e come si crea nuovo lavoro”.
Restiamo in tema acciaio e spostiamoci a Piombino. Anche qui la situazione è ai limiti dell’irrecuperabile. La produzione è pressoché ferma dal 2014. Che fare?
“Come l’Ilva questa acciaieria nasce con forti investimenti pubblici. Poi si sono susseguiti vari progetti con accordi presi e poi non rispettati da investitori privati. Un grave errore è stato aver lasciato l’acciaieria totalmente in mano alle multinazionali, senza conservare per lo Stato un ruolo che negli altri Paesi invece c’è ancora. Qui il tema è di politica industriale”.
Cioè?
“Piombino è un centro di eccellenza per la produzione di rotaie per i treni. Il Pnrr mette molte risorse su ferrovie e alta velocità. Eppure l’acciaieria di Piombino è sull’orlo del disastro. Veniamo da 20 anni di mancata politica industriale. O questo tema lo si affronta ora oppure ci si troverà davanti a disastri occupazionali”.
Whirlpool Napoli. La partita è chiusa?
“Nient’affatto. Proprio domani c’è uno sciopero”.
L’azienda, però, non sembra aver molta intenzione di tornare indietro.
“Neanche noi. Whirlpool è una multinazionale che fa utili: chiude per una sua scelta. Ma, siccome i soldi li ha presi, io credo che lo Stato debba farsi sentire. Qua rischiamo la de-industrializzazione del Mezzogiorno. Che sia il Governo a fare una proposta. Noi non smobilitiamo”.
Come sindacato insistete spesso sulla mancanza di una politica industriale. Da quanti anni l’Italia ne è priva?
“Da metà anni Novanta, dalla fase delle privatizzazioni. Tutto il mondo prese una ubriacatura sulla centralità del mercato e della ‘impresa che fa il bene di tutti’. Ma l’impresa non fa il bene di tutti, fa il suo bene. Noi rivendichiamo da anni, con tutti i governi, di centrosinistra e di centrodestra, che non possono essere le multinazionali a fare le politiche industriali di questo Paese”.
L’Italia negli ultimi anni è stata fanalino di coda in termini di crescita e di produttività. I sindacati non hanno proprio nessuna responsabilità?
“Assolutamente no. La bassa produttività non è determinata dai lavoratori, che in Italia lavorano più ore che in tutto il resto d’Europa, ma da scarsità di investimenti in ricerca e innovazione”.
La maggioranza degli iscritti ai sindacati oggi sono pensionati. Perché faticate così tanto a rappresentare i giovani lavoratori?
“Da un lato c’è un invecchiamento della popolazione, e quindi aumentano i pensionati iscritti al sindacato. Dall’altro abbiamo difficoltà coi giovani perché i giovani sono precari per una lunga parte della loro vita”.
E perché faticate a rappresentare i precari?
“Sono molto più ricattabili. Noi proviamo a costruire elementi di rappresentanza per i lavoratori precari. Dopodiché, va pure detto negli ultimi anni è successo qualcosa anche nel rapporto con la rappresentanza politica”.
Molti lavoratori oggi votano a destra. Perché?
“Non c’è più la rappresentanza politica del lavoro. Le leggi che hanno favorito la precarietà non le ha fatte solo la destra. Se la sinistra ha deciso di non seguire più una idea di giustizia sociale che trova nel lavoro il suo primo punto di riferimento, i lavoratori finiscono per scegliere di volta in volta chi sentono più vicino a loro”.
In questi giorni la Fiom festeggia il suo 120esimo compleanno. Lei è nel sindacato dal 1997. Qual è stato il momento di maggior orgoglio in questi anni?
“Ce ne sono tanti. Sono orgogliosa, in particolare, della capacità che ha avuto la Fiom di non piegarsi all’idea per cui, siccome il mondo non ci aiuta, bisogna subordinarsi a una idea corporativa del sindacato. Il No al ricatto di Marchionne, in questo senso, è stata una fase molto importante e significativa”.
E la più grande delusione da sindacalista?
“Tutte le volte in cui, anche con l’impegno massimo, non siamo riusciti a raggiungere un risultato in difesa dei lavoratori. Ai tempi della Riforma Fornero, ad esempio, noi abbiamo scioperato e agito ma non siamo riusciti a ottenere nulla. E tutte le volte che andiamo in fabbrica ce lo ricordano. Potrei dire lo stesso della battaglia sull’Articolo 18, ma, con la contrattazione, da molte parti ce lo siamo riconquistati”.