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Home » Economia

Perché gli allevamenti intensivi nuocciono gravemente (anche) alla nostre salute

Immagine di copertina
Credit; AGF

Favoriscono la diffusione di malattie. Inquinano le acque. Emettono gas serra. Le mega-stalle sono un problema sanitario. E l’Italia è maglia nera in Europa

Il consumo di carne a livello globale continua a crescere, e di conseguenza aumentano anche gli allevamenti intensivi. La loro diffusione, però, comporta diversi rischi per la nostra salute. Il più diretto è l’emergere di nuove infezioni e malattie di origine animale, favorito dall’alta concentrazione di bestiame e dalle condizioni di vita negli allevamenti. La situazione di salute precaria degli animali porta poi a un uso significativo di antibiotici nell’industria zootecnica, alimentando così il problema sempre più rilevante dell’antibiotico-resistenza.

Ci sono anche conseguenze più indirette, ma non per questo meno significative: gli allevamenti intensivi contribuiscono all’inquinamento dei bacini idrici e dell’atmosfera – e quindi potenzialmente dell’acqua che beviamo e dell’aria che respiriamo – aumentando il rischio di problemi cardiocircolatori e respiratori, oltre che di tumori.

Pericolo epidemie
La maggior parte delle malattie infettive che oggi colpiscono gli uomini è di origine animale. Si tratta cioè di zoonosi o malattie zoonotiche, come l’Hiv, la rabbia e l’influenza aviaria. Spesso l’uomo non contrae la malattia direttamente dalla specie animale in cui essa si è manifestata per prima, ma attraverso il bestiame: l’infezione compie il salto di specie dagli animali selvatici a quelli allevati, e poi da questi ultimi all’uomo.

Non si tratta di un problema secondario: l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) stima che ogni anno ci siano oltre un miliardo di infezioni e milioni di decessi a causa delle zoonosi. Circa il 60% delle malattie infettive emergenti ha origine animale, e il rischio è che nuove infezioni diano origine a epidemie.

In un allevamento intensivo il grande numero di animali e le condizioni in cui essi vivono, rinchiusi in spazi stretti e affollati, ne indeboliscono il sistema immunitario, aumentando così il rischio di diffusione di virus e batteri.

Spesso inoltre gli animali vengono selezionati in base a determinate caratteristiche fisiche che li rendono più “produttivi”, nel senso che da ciascun esemplare si può ricavare un profitto maggiore. Gli animali finiscono così per essere simili dal punto di vista genetico, e questo li rende più vulnerabili: quando in un gruppo ci sono tante varianti genetiche è più probabile che alcune di esse siano resistenti a una determinata malattia, evitando così che quest’ultima colpisca in modo grave tutto il gruppo.

Anche il trasporto di bestiame vivo – più comunemente associato a un allevamento di grandi dimensioni, ma anche ai wet market – può contribuire alla diffusione di malattie zoonotiche, soprattutto se comporta viaggi lunghi. Non ci sono statistiche precise al riguardo, ma per dare un’idea dell’ordine di grandezza di questo commercio basti pensare che ogni anno più di un miliardo di animali vengano trasportati vivi da un Paese Ue a un altro, oppure dall’interno dell’Unione europea a un Paese terzo.

In più, per soddisfare la domanda degli allevamenti intensivi, continuano a espandersi i terreni destinati alla produzione di mangime e foraggio (nell’Ue occupano già il 70% della superficie agricola totale). Secondo il Wwf, la sola produzione di soia ad uso animale è più che raddoppiata negli ultimi vent’anni.

Si tratta di un uso del territorio inefficiente: grandi quantità di alimenti vegetali vengono utilizzate per ottenere un numero limitato di prodotti di origine animale. Il problema principale, però, è che per far spazio ai nuovi campi agricoli si stanno progressivamente distruggendo le foreste, che fungono da “cuscinetto” naturale tra gli uomini e i virus che circolano nella fauna selvatica.

Oltre al danno della perdita di biodiversità, senza la protezione delle foreste sia noi che il bestiame siamo più esposti a possibili nuove malattie.

Medicinali inefficaci
Diverse caratteristiche degli allevamenti intensivi, come abbiamo visto, favoriscono il proliferare delle infezioni. La conseguenza è l’uso – e l’abuso – di antibiotici all’interno di queste aziende, sia per curare gli animali ammalati che come trattamento preventivo. Questo contribuisce alla diffusione di batteri antibiotico-resistenti, su cui cioè gli antibiotici non hanno effetto.

Anche l’uso preventivo di questi medicinali perde efficacia, tanto che in futuro le operazioni chirurgiche potrebbero diventare molto più rischiose.

Gli effetti dell’antibiotico-resistenza, però, si vedono già oggi: nel 2019, 1,27 milioni di decessi a mondo sono stati attribuiti direttamente a infezioni batteriche che gli antibiotici non sono più in grado di curare (lo riporta uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Lancet). L’Italia è il Paese dell’Ue più colpito dall’antibiotico-resistenza insieme alla Grecia: addirittura, secondo una ricerca dello European Centre for Disease Prevention and Control (Ecdc) – un terzo dei decessi causati da infezioni di questo tipo in tutta l’Unione si è registrato proprio nel nostro Paese.

Gli addetti ai lavori sono particolarmente esposti ai batteri presenti negli animali, soprattutto durante i processi di pulizia dell’allevamento e di macellazione. E ci si può infettare anche consumando prodotti di origine animale, come carne e latte: la maggior parte di questi batteri viene uccisa tramite la cottura, ma alcuni possono sopravvivere.

Una volta che i batteri sono presenti nel nostro ambiente, il contagio può avvenire tramite contatto diretto con una persona portatrice, oppure con superfici contaminate o attraverso le vie respiratorie.

A livello globale, circa tre quarti (il 73%) delle somministrazioni annuali di antibiotici sono destinate agli animali, anche se la situazione cambia moltissimo da Paese a Paese. In Italia, ad esempio, si osserva un trend positivo: l’utilizzo di antibiotici per il bestiame si è dimezzato dal 2010 al 2020. L’Ue ha inoltre imposto dei limiti riguardo alla quantità e frequenza con cui si possono somministrare questi medicinali, e ha vietato alcune pratiche come l’impiego di antibiotici per stimolare la crescita degli esemplari, utilizzata per ricavare un guadagno maggiore da ciascuno. Ma è difficile eliminare gli antibiotici del tutto, anche perché in alcuni casi sono necessari: se gli animali si ammalano vanno curati. Inoltre, l’uso massiccio al giorno d’oggi avviene al di fuori dall’Ue, soprattutto in Paesi a basso e medio reddito e in particolare negli allevamenti di pesci, crostacei e molluschi.

L’acqua che beviamo
Gli allevamenti intensivi producono grandi quantità di sterco che il terreno circostante non è in grado di assorbire. Di conseguenza, sostanze contaminanti come l’azoto e il fosforo (che sono presenti nei mangimi, e che vengono solo parzialmente assorbite dagli animali) finiscono nelle acque di superficie e nelle falde acquifere.

Questo può portare a un livello di nitrati, derivati dall’azoto, superiore ai 50 mg/L fissati come limite dall’Oms, e ai 10 mg/L che vengono raccomandati per proteggere i neonati. I nitrati sono contenuti in molti alimenti, anche verdure come gli spinaci e la lattuga, oltre che nell’acqua potabile. Sono innocui per la salute, ma una parte di questi viene trasformata in nitriti, che a loro volta generano sostanze cancerogene chiamate nitrosammine. Un’alta concentrazione di nitriti può anche ostacolare la capacità dei globuli rossi di trasportare ossigeno nell’organismo, causando asfissia e difficoltà respiratorie. Per questo alcune norme, sia a livello europeo che nazionale, impongono il monitoraggio delle acque e fissano limiti quantitativi all’utilizzo di azoto da parte degli agricoltori nei loro terreni.

La Commissione europea nel 2023 ha mosso una procedura di infrazione contro l’Italia, dicendosi preoccupata riguardo a violazioni della direttiva sui nitrati in diverse regioni, dove le acque sotterranee sono inquinate.

L’aria che respiriamo
Gli allevamenti intensivi, riporta la Fao, sono responsabili del 14,5% delle emissioni di gas serra riconducibili all’attività umana. Gli inquinanti gassosi prodotti da questo settore sono diversi, ma il metano – tra i maggiori responsabili del riscaldamento globale – è di gran lunga il principale.

In Italia, il 40% delle emissioni di metano viene proprio dagli allevamenti, ed è causato dai processi digestivi degli animali, in particolare dei bovini. L’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) stima che nel nostro Paese gli allevamenti siano responsabili di oltre il 15% delle emissioni di Pm2.5 (dall’inglese Particulate Matter), al secondo posto dietro al riscaldamento domestico.

Gli allevamenti producono soprattutto particolato secondario: quello primario è direttamente emesso da una sorgente inquinante (come i tubi di scappamento delle auto), mentre il particolato secondario si origina in seguito a reazioni chimico-fisiche tra le nuove sostanze e quelle già presenti nell’atmosfera.

Gli allevamenti intensivi producono circa il 75% delle nuove emissioni di ammoniaca, che una volta dispersa in aria dà origine alle Pm2.5 e che – riportano i dati Ispra – è la principale causa di particolato secondario in Italia.

Le polveri sottili vengono classificate in base alla loro dimensione in micrometri (cioè millesimi di millimetro): con Pm10 ad esempio si intende una particella con diametro inferiore ai 10 micrometri. Le Pm2.5 sono particolarmente pericolose proprio perché molto piccole. Quando respiriamo, le particelle più fini e gas come il diossido di azoto entrano nelle nostre vie respiratorie e si depositano nei bronchi e negli alveoli dei polmoni, con potenziali danni alla salute: infezioni alle vie respiratorie, bronchite, asma, ma anche infarti, ictus, tumore ai polmoni, diabete e altri disturbi cardiocircolatori.

Secondo le stime dell’Agenzia europea dell’Ambiente, in Italia nel 2021 ci sono stati 48.000 decessi causati dalle Pm2.5, oltre a 11.300 per l’esposizione al biossido di azoto e 5.100 per l’esposizione all’ozono.

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