Stranieri ovunque: il viaggio di TPI nella 60esima Biennale Internazionale d’Arte di Venezia
Con una precisa mission geopolitica nasceva nel 1895 la Biennale Internazionale di Venezia. E’ dunque da 129 anni che l’arte viene impiegata come strumento di soft power e come termometro di scenari in continuo sommovimento. In questi ultimi tempi poi, con le policrisi internazionali, la sterzata a destra di alcune democrazie europee, gli interventi apparentemente inascoltati di ecopacifismo del Pontefice e la chiara percezione di essere sull’orlo di una guerra mondiale a pezzi, la Biennale sembra essere più viva che mai.
Esploriamo allora gli spazi della Biennale con uno sguardo agli scenari geopolitici più scottanti. Tutto comincia con l’appello ANGA, Art Not Genocide Alliance, firmato da 12.000 artisti, intellettuali e addetti ai lavori del mondo della cultura per impedire a Israele di partecipare alla 60esima Mostra Internazionale di Venezia. Il Ministro dei Beni Culturali Gennaro Sangiuliano giudica l’appello inaccettabile e vergognoso e vorrebbe fermamente tenere aperto il padiglione. Ma la contraddizione è talmente forte che la stessa artista israeliana Ruth Patir e i curatori decidono di optare per un compromesso temporale: il padiglione resterà chiuso fin quando non sarà ordinato il cessate il fuoco e gli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas non saranno liberati. Ci sarà tempo fino a novembre, quando la Biennale chiuderà i battenti e gli Stati Uniti avranno eletto un nuovo Presidente.
Quest’anno a Venezia i Paesi assenti, come convitati di pietra, sembrano più assordanti dei Paesi presenti. La Palestina, non essendo riconosciuta come nazione, non ha possibilità di avere un suo padiglione. La Russia, da quando ha invaso l’Ucraina, ha sospeso volontariamente la propria partecipazione per il secondo anno consecutivo, senza rilasciare dichiarazioni. La Bosnia Erzegovina, che aspira ad entrare nell’Europa incline al riarmo, all’ultimo momento ha censurato la bandiera bianca lacerata e ridotta in brandelli della sua artista Seila Kameric, sostituendola con l’opera di un artista meno scomodo. Se è vero che a partire dal massacro del 7 Ottobre la guerra russa in Ucraina sembra essere passata in secondo piano nei mass media e nella coscienza collettiva dell’osservatore occidentale, l’Ucraina invece è ben presente in questa Biennale, con un suo padiglione fortemente partecipato in cui un videogame di guerra si affianca ai disegni infantili che ornano cuscini e altri oggetti d’uso quotidiano; la morte in Ucraina si integra drammaticamente alla vita, che prosegue anche in tempi di guerra.
In tutto ciò, l’arte contemporanea sembra offrirsi come una pratica di sublimazione e, in ultima analisi, di accettazione dello status quo. Anche il padiglione polacco ha deciso di dare voce all’Ucraina con l’installazione Repeat after me II del collettivo ucraino Open Group. Nell’installazione, gli attacchi vengono rivissuti nella loro dimensione onomatopeica e il pubblico è invitato a ripetere quei suoni grazie a numerosi microfoni aperti collocati nella stanza, in un macabro karaoke collettivo. Intanto, muta e austera come una divinità, nei giorni del vernissage una giovane iraniana trova rifugio all’esterno del padiglione americano mostrando un cartello in cui chiede la liberazione del suo Paese dall’attuale regime.
L’arte della 60esima Biennale di Venezia sfiora i conflitti, li ricorda e in parte li documenta, ma certamente non ne indaga gli aspetti più rilevanti. Si sente la mancanza della forza performativa e dell’odore di sangue del Balcan Baroque, quando Marina Abramovic nel 1997 seppe mettere potentemente in scena l’orrore della guerra nella ex Yugoslavia. L’arte della 60° edizione sembra porsi invece come un luogo autre rispetto al mondo, un limbo di riflessione privilegiata, dai rumori attutiti e certamente al riparo da ogni pericolo. Lontanissimo appare perfino il pericolo atomico, rimosso dall’immaginario artistico degli artisti invitati a Venezia. Mai l’arte fu più separata dalla vita vera.
Oggi che la geopolitica sembra essere diventata una disciplina di interesse collettivo, la Biennale si è risvegliata raggiungendo il suo climax, ma anche le sue contraddizioni più forti. Ve ne sono infatti almeno tre. La prima contraddizione è nel suo titolo, Stranieri ovunque, che sembra voler incarnare un manifesto socio-politico. Adriano Pedrosa, primo curatore sudamericano nella storia della Biennale, si lega esplicitamente al pensiero della sociologa e attivista Gloria Anzaldúa che nel suo saggio, “La Frontera: The New Mestiza”, individua i soggetti di interesse: “le donne, gli omosessuali di tutte le razze, i neri, i perseguitati, gli emarginati, gli stranieri”. Pedrosa decide dunque di mettere al primo posto il tema dello straniero con un titolo tanto bello, quanto ambivalente. Stranieri ovunque è chiaramente un’evidenza filosofica, che mette in luce la libertà dell’essere e la condizione di estraneità di ogni essere umano alle geografie mutevoli imposte dalla geopolitica, ma può anche essere interpretata come una lamentatio populista, la protesta di chi osserva infastidito l’attraversamento/invasione del proprio territorio. O, ancora peggio, parlando di stranieri anzi ché di cittadini, sembra voler aggirare la teoria illuminista di Jean Jacques Rousseau proponendo la perdita delle radici come un valore e non come una debolezza.
Sul vaporèto veneziano che imbarca gli stranieri c’è spazio per molte categorie. Scrive Pedrosa: “La Mostra si svilupperà e concentrerà sulla produzione artistica di personalità provenienti da ogni parte del mondo, che condividono la condizione di “straniero” in quanto immigrati, emigrati, espatriati, indigeni, esiliati o rifugiati. Il concetto di straniero sarà declinato in senso più ampio, includendo anche altre individualità spesso discriminate, come l’artista queer, che si muove all’interno di diverse sessualità e generi ed è spesso perseguitato o messo al bando, o l’artista indigeno spesso trattato come uno estraneo nella propria terra”.
E infatti colpiscono i disegni di Andre Taniki Yanomami, uno sciamano dell’Amazzonia brasiliana. I suoi disegni, esposti per la prima volta in Biennale e appartenenti alla collezione Cartier, risalgono agli Anni Settanta e sono frutto di una collaborazione con l’artista e fotografa Claudia Anujar e con l’antropologo Bruce Albert. Questa operazione di riscoperta e integrazione di mondi lontani è un leit motiv nella storia dell’arte occidentale, e accade puntualmente ogni volta che per motivi antropologici ed economici l’Occidente spalanca le porte a nuovi mondi culturali.
Mentre la Biennale lancia il suo slogan filosofico-politico “Stranieri Ovunque” in tutte le lingue, sotto forma di una scritta al neon (ma quella del neon, non era un’invenzione dell’Arte Concettuale?) in Italia, sotto gli occhi apparentemente disattenti dell’Europa, prosegue l’accordo Giorgia Meloni/Edi Rama, che predispone odierni campi di raccolta su commissione per risolvere il problema degli stranieri ovunque.
Il secondo elemento di contraddizione è plasticamente racchiuso nel passaggio tra i due Presidenti della Biennale, Roberto Cicutto e Pietrangelo Buttafuoco. Una visione del mondo “di sinistra” viene consegnata nelle mani delle “tre destre” che in Italia hanno preso il potere. Buttafuoco non rilascia dichiarazioni su questa edizione della Biennale e il Ministro Sangiuliano si aggira, inconsapevolmente divertito, nel Padiglione americano che esalta, glorifica e blinda il genere queer. Jeffrey Gibson, artista nativo indiano, queer dichiarato e attivista combattente della cancel culture di matrice europea, espone infatti delle sculture colossali e iper kitch realizzate nei colori arcobaleno, fatte di materiali poveri, infantili e che sono il risultato dello sfruttamento del lavoro nelle periferie del mondo.
Terzo elemento di contraddizione, il Padiglione della Santa Sede. Mentre l’ecopacifismo del Papa porta scompiglio su più fronti e conferisce finalmente uno zeitgeist significativo alla partecipazione della Chiesa alla Biennale, i curatori del Padiglione Vaticano scelgono la Casa di reclusione femminile della Giudecca perché lì vi sono alcuni dei soggetti suggeriti da Pedrosa: donne, carcerate, straniere. E così, sette artisti, tra cui Maurizio Cattelan (il più funzionale al mercato neoliberista dell’arte contemporanea) sono stati introdotti nel carcere come elefanti in una cristalleria, alimentando nelle carcerate un’illusoria percezione di libertà e nel pubblico un’illusoria proposta dell’arte come liberazione. Fermo restando che il 28 aprile, il Papa in visita per la prima volta alla Biennale di Venezia e per la prima volta in visita al carcere femminile trasformato in un museo vivo, costituirà l’evento storico più possente di tutta la Biennale.
Questa edizione della Biennale spinge l’osservatore a integrare passato e presente. Pedrosa elabora infatti una doppia mostra, intitolata Nucleo storico e Nucleo contemporaneo. Memorabile l’installazione a firma di Lina Bo Bardi presso l’Arsenale che raccoglie opere di artisti italiani emigrati a lungo in Brasile o in Argentina, che sono il frutto di una inevitabile contaminazione interculturale ma che sono stati a lungo trascurati. Pedrosa tenta di recuperare il tempo perduto di un immaginario marginalizzato rispetto alla storia dell’arte mainstream. Col risultato di essere riuscito a confezionare una mostra vivace, esuberante, che soddisfa pienamente il godimento retinico del visitatore ma che si appoggia necessariamente al pensiero arcaico, surrealista, naif, primitivista, dove prevalgono le narrazioni di vita comunitaria, matrimoni, funerali, ambienti di lavoro, dove le tecniche artigianali sono spesso legate alla produzione di arazzi, collage e patchwork di tessuti, e dove domina un espressionismo cromatico assoluto e in libertà.
Tra tutti, il Padiglione di Malta sembra essere quello in grado di interpretare più sapientemente il tema portante della Biennale. Osservando i graffiti incisi sugli edifici dell’isola che raffigurano navi, attraverso l’uso della tecnologia eyetracking, il giovane artista maltese Matthew Attard riesce ad ottenere dei grafici scientifici e poetici al tempo stesso, in cui si mescola lo sguardo soggettivo e sensibile dell’artista al tema politico della migrazione.
La 60esima edizione della Biennale di Venezia cavalca le questioni geopolitiche ma non sembra poter incidere né sui decisori politici, né sulle coscienze collettive. La spettacolarizzazione della condizione di straniero eccita le singole coscienze ma ne indebolisce la spinta rivoluzionaria. Sentendoci stranieri ovunque, aumenta il rischio di cadere nella più temibile delle contraddizioni, quella di diventare cittadini clandestini.